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Non sempre la tassa sui rifiuti è legittima


vediamo in quali casi si può contestare e ci si può rifiutare di pagare.
Tra i pesanti balzelli che gravano sulla casa, certamente uno dei meno amati è la Tari, acronimo di Tassa sui Rifiuti: il tributo sostituisce le vecchie Tarsu, Tia e Tares. Le somme pagate per i rifiuti sono state dapprima connotate come tasse [1] (per via del legame tra pagamento ed effettuazione del servizio), poi specificate come tariffe dal noto Decreto Ronchi [2]; la disposizione spiegava nel dettaglio come determinare e applicare la tariffa, prevedendo, però la stesura anticipata di un piano finanziario del servizio. Proprio per le difficoltà dei Comuni nella stesura di tale piano, il decreto non è mai stato attuato. Così, dopo un susseguirsi di differenti interventi legislativi, si è arrivati dapprima, nel 2013, alla Tares, ed in seguito, con la legge di Stabilità 2014, alla Iuc (Imposta Unica Comunale), formata da Imu, Tasi e Tari, quest’ultima componente relativa ai rifiuti.
Come funziona la Tari
Essa è applicata a chiunque possieda o detenga, a qualunque titolo, locali o aree esterne, che possono produrre rifiuti urbani (escluse le aree condominiali o quelle accessorie o pertinenziali di un immobile tassato). Lo scopo della tassa è coprire i costi del servizio di igiene urbana .
Le tariffe variano a seconda del comune, e sono differenziate per le utenze domestiche e non domestiche.
Entrambe le tipologie sono composte da una parte fissa, relativa al costo del servizio, che si computa in base alla superficie dell’immobile, e da una parte variabile, proporzionale alla quantità di rifiuti prodotti: dato che nella quasi totalità dei casi è impossibile quantificare la spazzatura prodotta, essa è commisurata al numero dei componenti della famiglia.

Illegittimità costituzionale della Tari
Secondo parte della dottrina, la Tari risulterebbe, di per sé, un’imposizione costituzionalmente illegittima: difatti, se considerata come tributo, andrebbe contro i criteri di proporzionalità e progressività affermati dalla Costituzione [3]; se considerata, invece, come tassa, appare incoerente inquadrare lo smaltimento come un servizio pagato a consumo, quando, in realtà, dovrebbero essere i contribuenti a ricevere un corrispettivo per il conferimento dei rifiuti (prova ne sia l’esistenza e la diffusione delle discariche verdi, punti di raccolta nei quali viene dato un compenso per ogni tipologia di rifiuto: una famiglia media può arrivare a guadagnare intorno a € 250 l’anno).

Illegittimità delle delibere comunali sulla Tari
Oltre all’illegittimità della tassa in sé, dobbiamo considerare tutti i casi in cui sono le delibere del Comune ad andare contro la normativa stessa.
Una prima ipotesi si verifica quando la delibera relativa alle tariffe è adottata posteriormente alla data fissata dalle leggi nazionali per deliberare il bilancio di previsione: nel 2013, la data era il 30 novembre, nel 2014 il 30 settembre. Pertanto, tutte le delibere posteriori sono impugnabili.
Un secondo caso di illegittimità, che si è verificato in numerosi comuni, è la mancanza di riduzione della tariffa di almeno il 40%, nelle zone dove la raccolta non è prevista.
La più frequente ipotesi d’illegittimità della Tari, però, riguarda il mancato rispetto di un fondamentale articolo della Legge di Stabilità 2014, ossia quello che stabilisce che, per determinare con esattezza il costo del servizio ed i coefficienti di produttività qualitativa e quantitativa dei rifiuti, sia indispensabile la stesura di un piano tariffario. Tale piano deve individuare e classificare i costi del servizio, suddividerli tra fissi e variabili e ripartirli tra utenze domestiche e non, oltreché quantificare tutte le voci per ogni categoria di utenza.
Osservando la maggior parte delle cartelle, appare evidente l’inesistenza di qualsiasi piano o schema, suscettibile di fornire una tariffa chiara per tipologia d’utenza: gli avvisi di pagamento, infatti, appaiono quasi sempre vaghi ed incomprensibili, rendendo il contribuente impossibilitato a capire sia i calcoli che il regolamento. Pertanto, è palese la mancanza di legittimazione dell’impianto tariffario.
Riscontrando uno di questi casi, ci si può rifiutare di pagare ed impugnare la cartella?
Nelle ipotesi sopraelencate, si potrà sia, in primo luogo, impugnare l’avviso di pagamento in autotutela, ossia rivolgendosi direttamente all’ufficio tributi del Comune. In caso di risposta negativa o assente, sarà opportuno effettuare l’impugnazione presso la commissione tributaria provinciale, il prima possibile, in quanto l’autotutela non sospende i termini per l’impugnazione.
Infine, non dimentichiamo la possibilità di impugnare la cartella per tutte quelle aziende che smaltiscono i rifiuti in proprio, previa dimostrazione del fatto che non si usufruisca del servizio comunale: in quest’ultimo caso, si ha diritto all’esclusione totale dalla Tari.

LA RIFORMA DELLA GESTIONE DEI RIFIUTI URBANI ENEA



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