È capitato a tutti di sentirsi smarriti in mezzo alle
discussioni di politica economica che imperversano da mesi in
televisione e sui giornali italiani. Durante la durissima trattativa sul
Def, autorevoli economisti e sedicenti tali hanno discettato per giorni
sulla differenza fra un deficit programmato dell’1,8 e del 2,4 per
cento, sugli effetti che questo avrà sullo spread e sulle
tasche dei cittadini, sull’importanza di fare ‘ripartire il Paese’ o
piuttosto di rispettare i vincoli europei. I loro argomenti sono entrati
nelle nostre case, e così ci siamo trovati a parlare con famigliari,
amici e colleghi di austerità, di moneta, di vincoli europei e di
politiche keynesiane.
Purtroppo quando si parla di economia quasi tutti i cittadini
italiani si trovano ad affrontare fenomeni e ragionamenti che non sanno
da che parte prendere.
Le indagini dell'Ocse segnalano che gli italiani
sono agli ultimi posti nell'educazione finanziaria.
Adulti intelligenti,
che sanno risolvere problemi complessi nel campo della medicina o della
giurisprudenza, non hanno gli strumenti per giudicare la relazione fra
crescita del Pil e della spesa pubblica, fra interessi sul debito e
tassazione.
In Italia come sappiamo si laureano in pochi, e fra coloro
che lo fanno, i laureati in economia sono solo una frazione.
Ma le
competenze necessarie per comprendere i dibattiti politici in realtà non
richiedono anni di studio all’università.
Al contrario, si tratta di
semplici nozioni che si potrebbero imparare nelle scuole secondarie.
Supponiamo che
Italia spenda cinquanta miliardi per pagare gli impiegati pubblici, i
pensionati, il reddito di cittadinanza, e per investire in nuove
infrastrutture.Quante tasse deve raccogliere alla fine dell’anno, se
non intende aumentare il debito?
Temo che molti lettori siano già attraversati da un moto di fastidio.
Non è sorprendente: non hanno mai fatto un calcolo di questo genere, e per quanto si tratti di operazioni molto semplici (si fanno in prima media), pochi adulti sono in grado di impostare il problema in modo corretto.
Se l’avessero imparato a scuola, saprebbero come mai l’Italia, da molti anni produce degli avanzi primari di bilancio. (L’avanzo primario è la differenza fra le tasse raccolte e le spese dello Stato prima di pagare gli interessi sul debito – quella cifra che fa inorgoglire i nostri governanti quando si vantano del proprio comportamento ‘virtuoso’, nonostante il debito continui ad aumentare.)
Adesso vediamo cosa succede se Italia spende cinquanta miliardi prima di pagare gli interessi sul debito, e impone in media una tassazione del cinquanta per cento.
Quanto deve crescere il Pil di Italia affinché non cresca il debito pubblico? (Dritta: se il Pil cresce del due per cento, alla fine dell’anno il governo raccoglierà 51 miliardi.)
Il debito pubblico in Italia è pari a circa 130, infine, il Pil italiano nel corso dell’ultimo decennio è diminuito, invece di restare fermo o di crescere.
Chi è arrivato fino a questo punto è in grado di capire a grandi linee il dibattito politico nel nostro Paese.
Si tratta, ripeto, di conti da prima media.
Eppure pochi arrivano a questo punto, perché non hanno voglia di prendere carta e penna e perché non sono abituati a ragionare di conti pubblici.
E in fondo hanno ragione: non dovrebbe essere necessario prendere carta e penna.
Quando risolviamo semplici operazioni, tipo 12x3, non ci mettiamo a ‘calcolare’ – ricaviamo la risposta intuitivamente, grazie alla pratica accumulata nel corso degli anni.
Analogamente, tutti noi dovremmo essere in grado di comprendere intuitivamente quali sono gli effetti di una diminuzione del Pil o dei tassi di interesse.
Gli italiani non sono stupidi. Sono piuttosto — anzi siamo, tutti noi — degli analfabeti economici.
Siamo analfabeti perché la nostra educazione secondaria è stata disegnata su un modello antiquato, ostile alle scienze e in particolare alla scienza economica. Secondo questo modello l’élite del nostro Paese — i medici, gli avvocati, gli insegnanti, gli uomini politici — non avrebbero bisogno di saper ragionare di economia.
Per quella basta un semplice ragioniere.
Anche se nel corso di cento anni alcuni ordini scolastici sono stati riformati (per fortuna), i nostri liceali arrivano ancora all’università senza avere mai sentito parlare di mercati, di finanza, di tassazione o di spesa in deficit.
Sono analfabeti economici.
Non dobbiamo quindi sorprenderci se un ministro afferma che si può abolire la povertà con un decreto; che l’Europa ci impone di ridurre il deficit; o che non importa se aumenta l’interesse sui titoli di stato (lo spread).
Sono grida fra altre grida, nella grande confusione che regna nelle teste di chi (noi) dovrebbe valutare le affermazioni degli uomini politici.
Chi ha fatto i conti, poco fa, ha intuito per esempio che non si può eliminare la povertà per decreto, che un debito molto alto costringe ad alzare le tasse o a fare risparmi sempre più grandi, risparmi che impedirebbero di investire in scuole, ospedali e strade.
Nessuno vuole che questo accada.
Dipende dal fatto che i soldi raccolti dallo Stato sono usati in gran parte per pagare noi stessi e i detentori esteri del debito pubblico.
Chi non ha fatto i conti invece si chiederà chi vuole farci del male, e penserà naturalmente a chi ci governa.
Ma chi ci governa non vuole prendersi la responsabilità — dopo tutto, il debito pubblico c’è da molto tempo, mica l’hanno creato loro.
Meglio dare la colpa a qualcun altro: i mercati, l’Euro, e la Merkel vanno benissimo per questo scopo.
Francesco Guala
Temo che molti lettori siano già attraversati da un moto di fastidio.
Non è sorprendente: non hanno mai fatto un calcolo di questo genere, e per quanto si tratti di operazioni molto semplici (si fanno in prima media), pochi adulti sono in grado di impostare il problema in modo corretto.
Se l’avessero imparato a scuola, saprebbero come mai l’Italia, da molti anni produce degli avanzi primari di bilancio. (L’avanzo primario è la differenza fra le tasse raccolte e le spese dello Stato prima di pagare gli interessi sul debito – quella cifra che fa inorgoglire i nostri governanti quando si vantano del proprio comportamento ‘virtuoso’, nonostante il debito continui ad aumentare.)
Adesso vediamo cosa succede se Italia spende cinquanta miliardi prima di pagare gli interessi sul debito, e impone in media una tassazione del cinquanta per cento.
Quanto deve crescere il Pil di Italia affinché non cresca il debito pubblico? (Dritta: se il Pil cresce del due per cento, alla fine dell’anno il governo raccoglierà 51 miliardi.)
Il debito pubblico in Italia è pari a circa 130, infine, il Pil italiano nel corso dell’ultimo decennio è diminuito, invece di restare fermo o di crescere.
Chi è arrivato fino a questo punto è in grado di capire a grandi linee il dibattito politico nel nostro Paese.
Si tratta, ripeto, di conti da prima media.
Eppure pochi arrivano a questo punto, perché non hanno voglia di prendere carta e penna e perché non sono abituati a ragionare di conti pubblici.
E in fondo hanno ragione: non dovrebbe essere necessario prendere carta e penna.
Quando risolviamo semplici operazioni, tipo 12x3, non ci mettiamo a ‘calcolare’ – ricaviamo la risposta intuitivamente, grazie alla pratica accumulata nel corso degli anni.
Analogamente, tutti noi dovremmo essere in grado di comprendere intuitivamente quali sono gli effetti di una diminuzione del Pil o dei tassi di interesse.
Gli italiani non sono stupidi. Sono piuttosto — anzi siamo, tutti noi — degli analfabeti economici.
Siamo analfabeti perché la nostra educazione secondaria è stata disegnata su un modello antiquato, ostile alle scienze e in particolare alla scienza economica. Secondo questo modello l’élite del nostro Paese — i medici, gli avvocati, gli insegnanti, gli uomini politici — non avrebbero bisogno di saper ragionare di economia.
Per quella basta un semplice ragioniere.
Anche se nel corso di cento anni alcuni ordini scolastici sono stati riformati (per fortuna), i nostri liceali arrivano ancora all’università senza avere mai sentito parlare di mercati, di finanza, di tassazione o di spesa in deficit.
Sono analfabeti economici.
Non dobbiamo quindi sorprenderci se un ministro afferma che si può abolire la povertà con un decreto; che l’Europa ci impone di ridurre il deficit; o che non importa se aumenta l’interesse sui titoli di stato (lo spread).
Sono grida fra altre grida, nella grande confusione che regna nelle teste di chi (noi) dovrebbe valutare le affermazioni degli uomini politici.
Chi ha fatto i conti, poco fa, ha intuito per esempio che non si può eliminare la povertà per decreto, che un debito molto alto costringe ad alzare le tasse o a fare risparmi sempre più grandi, risparmi che impedirebbero di investire in scuole, ospedali e strade.
Nessuno vuole che questo accada.
Dipende dal fatto che i soldi raccolti dallo Stato sono usati in gran parte per pagare noi stessi e i detentori esteri del debito pubblico.
Chi non ha fatto i conti invece si chiederà chi vuole farci del male, e penserà naturalmente a chi ci governa.
Ma chi ci governa non vuole prendersi la responsabilità — dopo tutto, il debito pubblico c’è da molto tempo, mica l’hanno creato loro.
Meglio dare la colpa a qualcun altro: i mercati, l’Euro, e la Merkel vanno benissimo per questo scopo.
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