In Europa si sente troppo spesso parlare di ecologia, clima, energia pulita, ma ci si dimentica di un piccolo particolare diventerà un problema molto importante per il nostro futuro: i rifiuti.
Il motivo è semplice. Fino all’inizio di quest’anno, il nostro continente si è mantenuto pulito inviando milioni di tonnellate di carta, cartone, plastica e tessuti sulle navi mercantili che facevano rotta verso la Cina.
Come riporta l’inchiesta di Politico, “dei 56,4 milioni di tonnellate di carta che i cittadini dell’Ue hanno gettato nel 2016, circa 8 milioni sono finiti in Cina, acquistati dai centri di riciclaggio che lo trasformano in cartone e lo rimandano in Europa come imballaggi per le esportazioni cinesi.
Nello stesso anno, l’Ue ha raccolto 8,4 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica e ha inviato 1,6 milioni di tonnellate alla Cina”.
Insomma, un’Europa pulita perché gli altri si prendevano parte dei nostri rifiuti. Ma, come spesso accade, le belle storie finiscono presto e ci si ritrova impreparati. Così, alla fine del 2017, Pechino ha deciso di porre fine alla pratica dell’import di rifiuti europei, mettendo in atto limiti severissimi.
E adesso, l’Europa, nel silenzio generale, si ritrova a dover fare i conti con milioni di tonnellate di rifiuti che non sa dove mandare.
“Tutti i centri di smistamento sono intasati, i nostri stock stanno superando i limiti consentiti”, ha affermato Pascal Gennevieve, dirigente della Federec, la federazione dei riciclatori francesi e direttore del riciclaggio presso il gigante francese di gestione dei rifiuti Veolia.
Nel frattempo, sul continente, l’aumento esponenziale dell’offerta ha fatto precipitare i prezzi dei rifiuti, facendo sì che ormai diventi conveniente o bruciarli negli inceneritori o gettarli direttamente nelle discariche.
E alcuni Paesi dell’Europa orientale (soprattutto quelli più poveri) stanno già ricevendo deroghe alle direttive rifiuti per lasciare alti i livelli di conferimento in discarica proprio per sopperire al problema europeo.
Bulgaria, Estonia, Grecia, Cipro, Malta, Romania e Slovacchia hanno conferito in discarica più della metà dei loro rifiuti e ci sono Paesi con tasse bassissime pronte a diventare le nuove discariche d’Europa.
L’ultima frontiera del nostro continente “ecologista”.
L’Italia e il problema della carta
L’Italia esporta circa il 12% della sua plastica in Cina, ma il vero problema è un altro.
Nella lista nera dei materiali che non si possono più esportare in Cina, infatti, c’è anche una tipologia di carta da macero.
Quella, tanto per intenderci, che si getta con i residui di cibo.
Prima del blocco cinese esportavamo un terzo del nostro macero e lo importavamo nuovamente sotto forma di cartone per imballaggi e carta grafica.
Tradotto in numeri: nel 2016 abbiamo esportato 1,9 milioni di tonnellate delle 6,5 totali di carta e cartone raccolti e il 54% è andato in Cina.
L’Italia, ad oggi, non è in grado di trasformare tali quantità.
Di questa enorme mole, oltre la metà era destinata a Pechino.
Le conseguenze?
La scorsa primavera si è registrato un crollo delle quotazioni della carta da macero, con un prezzo che si è ridotto di circa il 70 per cento rispetto a luglio 2017.
I materiali si stanno continuando ad accumulare presso gli impianti di recupero, ormai vicini alle capacità di stoccaggio massime.
“La chiusura dei confini cinesi ha messo in risalto le carenze del sistema di gestione dei rifiuti italiani”.
Così Claudia Salvestrini, direttrice del consorzio Polieco commenta gli effetti del blocco imposto dallo scorso gennaio dal governo di Pechino all’import di 23 categorie di rifiuti, compresi gli scarti in plastica.
Uno stop che ha lasciato il mercato globale dei rifiuti privo di quello che per trent’anni è stato per molti paesi, Italia compresa, il principale sbocco per tutti i materiali che non potevano essere assorbiti dagli impianti nazionali di riciclo e smaltimento.
Materiali che sempre più spesso oggi si accumulano negli impianti di stoccaggio italiani, non trovando collocazione.
Con conseguenze spesso catastrofiche, come testimonia la lunga scia di incendi degli ultimi anni.
Solo in Campania se ne sono contati almeno quattro tra luglio e settembre. Cosa sta succedendo? “
La Cina – spiega Salvestrini – era ormai diventata l’immondezzaio del mondo.
È lì che mandavamo tutti i materiali misti non facilmente riciclabili.
Questo ha reso possibile per anni sacrificare la qualità della raccolta differenziata, a vantaggio di un enorme quantitativo.
Quindi il sistema è scoppiato proprio perché è venuto alla luce che le raccolte differenziate non sono fatte giocando sulla qualità, quindi puntando sul dato qualitativo per avviare facilmente a riciclo e recupero, ma ruotano solo attorno alle quantità”.
Un autentico atto d’accusa alle logiche che per più di venti anni hanno guidato i sistemi di raccolta differenziata in Italia, che da sempre privilegiano la quantità alla effettiva riciclabilità del raccolto, e un invito a ripensarli, soprattutto alla luce dei recenti scossoni globali al mercato dei rifiuti.
Ma anche un invito a ripensare l’intero ciclo di vita dei prodotti in plastica, partendo dalle abitudini di consumo, ancora troppo orientate all’usa e getta, e dalla progettazione dei prodotti, che raramente privilegia la riciclabilità.
Il 2018, del resto, pare ormai destinato a passare alla storia come l’anno della guerra alla plastica, sempre più oggetto di un’autentica crociata globale.
Ma è giusto demonizzare il materiale in quanto tale, o anche per la plastica esiste un futuro sostenibile?
“Guerra alla plastica sì – dice Salvestrini – ma a quella “usa e getta”. Dovremmo aggiungere sempre questo piccolo giro di parole, perché è fondamentale dire che non ha senso usare e gettare dopo magari un solo utilizzo materiali e prodotti che tra l’altro spesso non sono neanche riciclabili.
Così come il consumatore si è abituato a leggere l’etichettatura alimentare dovremmo cominciare a formare l’utente a leggere anche le caratteristiche dell’involucro di ciò che acquista.
Questo contribuirebbe ad orientare il mercato verso un prodotto riutilizzabile, monogeneo nel materiale, quindi non più costituito da tanti materiali diversi ma da un unico materiale, e soprattutto facilmente riciclabile”.
Da salvare, si sa, ci sono soprattutto il mare e la sua fauna, letteralmente soffocati da migliaia di tonnellate di frammenti delle materie plastiche più disparate, provenienti soprattutto da prodotti usa e getta. I numeri sono spaventosi.
“Il Mediterraneo è un mare che già soffre di numerosi problemi – dice Silvestro Greco, direttore della sede romana della Stazione Zoologica “Anton Dohrn” – ma pensare di avere 270mila frammenti circa di plastica per metro quadro è un dato che impressiona.
Tra l’altro sappiamo ormai che la frazione di plastica galleggiante è più o meno il 5% di tutto quello che c’è in mare.
Ciò significa che nelle fosse e nelle scarpate mediterranee abbiamo migliaia di tonnellate di rifiuti.
Questo ci preoccupa perché tra l’altro è stato provato che alcuni organismi marini preferiscono ormai mangiare le fibre di plastica piuttosto che fitoplancton o zooplancton. Quindi è chiaro che non c’è tempo da perdere. Attenzione però, non dobbiamo criminalizzare l’uso della plastica ma iniziare a eliminare completamente il monouso.
La cosa più ridicola che ci può essere – aggiunge – quella che dimostra la stupidità della nostra specie, è la cannuccia. Perché è fatta dal petrolio, e quindi comporta un consumo energetico, e perchè dura pochi secondi e viene buttata via.
Non ha senso. Anche perché lo spritz si può bere anche direttamente dal bicchiere”.
Senza dimenticare che i rifiuti in plastica sono anche quelli che sempre più spesso bruciano negli impianti di stoccaggio da Nord a Sud del Paese.
Un fenomeno che ha assunto le proporzioni di un’autentica emergenza.
Più di 300 i casi di incendio censiti negli ultimi tre anni, molti dei quali con conseguenze pesantissime sul fronte ambientale e sanitario.
“Dietro gli incendi – osserva Claudia Salvestrini – c’è proprio la combinazione tra la chiusura della Cina e una raccolta differenziata che ancora privilegia la quantità alla qualità.
Ultimamente i roghi sono diminuiti perché le procure stanno indagando, quasi come se il sistema si fosse bloccato per paura o per precauzione.
Questo basta a farci capire che quegli incendi erano tutto meno che autocombustioni”.
Capitolo chiuso?
Tutt’altro, spiega la direttrice del Polieco. Perché nonostante la crescente attenzione delle procure e la chiusura della rotta cinese “il sistema dei traffici illeciti – dice – ha trovato nuovi sbocchi.
Le spedizioni dei rifiuti hanno smesso di andare in Cina, ma privilegiano le rotte malesiane, vietnamite, albanesi e anche quelle di alcuni paesi europei che non sono soltanto quelli dell’est”.
Il sottoscritto ha più volte segnalato la riforma per la Gestione dei rifiuti urbani ENEA, senza mai ottenere interesse o riscontro
Il motivo è semplice. Fino all’inizio di quest’anno, il nostro continente si è mantenuto pulito inviando milioni di tonnellate di carta, cartone, plastica e tessuti sulle navi mercantili che facevano rotta verso la Cina.
Come riporta l’inchiesta di Politico, “dei 56,4 milioni di tonnellate di carta che i cittadini dell’Ue hanno gettato nel 2016, circa 8 milioni sono finiti in Cina, acquistati dai centri di riciclaggio che lo trasformano in cartone e lo rimandano in Europa come imballaggi per le esportazioni cinesi.
Nello stesso anno, l’Ue ha raccolto 8,4 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica e ha inviato 1,6 milioni di tonnellate alla Cina”.
Insomma, un’Europa pulita perché gli altri si prendevano parte dei nostri rifiuti. Ma, come spesso accade, le belle storie finiscono presto e ci si ritrova impreparati. Così, alla fine del 2017, Pechino ha deciso di porre fine alla pratica dell’import di rifiuti europei, mettendo in atto limiti severissimi.
E adesso, l’Europa, nel silenzio generale, si ritrova a dover fare i conti con milioni di tonnellate di rifiuti che non sa dove mandare.
“Tutti i centri di smistamento sono intasati, i nostri stock stanno superando i limiti consentiti”, ha affermato Pascal Gennevieve, dirigente della Federec, la federazione dei riciclatori francesi e direttore del riciclaggio presso il gigante francese di gestione dei rifiuti Veolia.
Nel frattempo, sul continente, l’aumento esponenziale dell’offerta ha fatto precipitare i prezzi dei rifiuti, facendo sì che ormai diventi conveniente o bruciarli negli inceneritori o gettarli direttamente nelle discariche.
E alcuni Paesi dell’Europa orientale (soprattutto quelli più poveri) stanno già ricevendo deroghe alle direttive rifiuti per lasciare alti i livelli di conferimento in discarica proprio per sopperire al problema europeo.
Bulgaria, Estonia, Grecia, Cipro, Malta, Romania e Slovacchia hanno conferito in discarica più della metà dei loro rifiuti e ci sono Paesi con tasse bassissime pronte a diventare le nuove discariche d’Europa.
L’ultima frontiera del nostro continente “ecologista”.
L’Italia e il problema della carta
L’Italia esporta circa il 12% della sua plastica in Cina, ma il vero problema è un altro.
Nella lista nera dei materiali che non si possono più esportare in Cina, infatti, c’è anche una tipologia di carta da macero.
Quella, tanto per intenderci, che si getta con i residui di cibo.
Prima del blocco cinese esportavamo un terzo del nostro macero e lo importavamo nuovamente sotto forma di cartone per imballaggi e carta grafica.
Tradotto in numeri: nel 2016 abbiamo esportato 1,9 milioni di tonnellate delle 6,5 totali di carta e cartone raccolti e il 54% è andato in Cina.
L’Italia, ad oggi, non è in grado di trasformare tali quantità.
Di questa enorme mole, oltre la metà era destinata a Pechino.
Le conseguenze?
La scorsa primavera si è registrato un crollo delle quotazioni della carta da macero, con un prezzo che si è ridotto di circa il 70 per cento rispetto a luglio 2017.
I materiali si stanno continuando ad accumulare presso gli impianti di recupero, ormai vicini alle capacità di stoccaggio massime.
“La chiusura dei confini cinesi ha messo in risalto le carenze del sistema di gestione dei rifiuti italiani”.
Così Claudia Salvestrini, direttrice del consorzio Polieco commenta gli effetti del blocco imposto dallo scorso gennaio dal governo di Pechino all’import di 23 categorie di rifiuti, compresi gli scarti in plastica.
Uno stop che ha lasciato il mercato globale dei rifiuti privo di quello che per trent’anni è stato per molti paesi, Italia compresa, il principale sbocco per tutti i materiali che non potevano essere assorbiti dagli impianti nazionali di riciclo e smaltimento.
Materiali che sempre più spesso oggi si accumulano negli impianti di stoccaggio italiani, non trovando collocazione.
Con conseguenze spesso catastrofiche, come testimonia la lunga scia di incendi degli ultimi anni.
Solo in Campania se ne sono contati almeno quattro tra luglio e settembre. Cosa sta succedendo? “
La Cina – spiega Salvestrini – era ormai diventata l’immondezzaio del mondo.
È lì che mandavamo tutti i materiali misti non facilmente riciclabili.
Questo ha reso possibile per anni sacrificare la qualità della raccolta differenziata, a vantaggio di un enorme quantitativo.
Quindi il sistema è scoppiato proprio perché è venuto alla luce che le raccolte differenziate non sono fatte giocando sulla qualità, quindi puntando sul dato qualitativo per avviare facilmente a riciclo e recupero, ma ruotano solo attorno alle quantità”.
Un autentico atto d’accusa alle logiche che per più di venti anni hanno guidato i sistemi di raccolta differenziata in Italia, che da sempre privilegiano la quantità alla effettiva riciclabilità del raccolto, e un invito a ripensarli, soprattutto alla luce dei recenti scossoni globali al mercato dei rifiuti.
Ma anche un invito a ripensare l’intero ciclo di vita dei prodotti in plastica, partendo dalle abitudini di consumo, ancora troppo orientate all’usa e getta, e dalla progettazione dei prodotti, che raramente privilegia la riciclabilità.
Il 2018, del resto, pare ormai destinato a passare alla storia come l’anno della guerra alla plastica, sempre più oggetto di un’autentica crociata globale.
Ma è giusto demonizzare il materiale in quanto tale, o anche per la plastica esiste un futuro sostenibile?
“Guerra alla plastica sì – dice Salvestrini – ma a quella “usa e getta”. Dovremmo aggiungere sempre questo piccolo giro di parole, perché è fondamentale dire che non ha senso usare e gettare dopo magari un solo utilizzo materiali e prodotti che tra l’altro spesso non sono neanche riciclabili.
Così come il consumatore si è abituato a leggere l’etichettatura alimentare dovremmo cominciare a formare l’utente a leggere anche le caratteristiche dell’involucro di ciò che acquista.
Questo contribuirebbe ad orientare il mercato verso un prodotto riutilizzabile, monogeneo nel materiale, quindi non più costituito da tanti materiali diversi ma da un unico materiale, e soprattutto facilmente riciclabile”.
Da salvare, si sa, ci sono soprattutto il mare e la sua fauna, letteralmente soffocati da migliaia di tonnellate di frammenti delle materie plastiche più disparate, provenienti soprattutto da prodotti usa e getta. I numeri sono spaventosi.
“Il Mediterraneo è un mare che già soffre di numerosi problemi – dice Silvestro Greco, direttore della sede romana della Stazione Zoologica “Anton Dohrn” – ma pensare di avere 270mila frammenti circa di plastica per metro quadro è un dato che impressiona.
Tra l’altro sappiamo ormai che la frazione di plastica galleggiante è più o meno il 5% di tutto quello che c’è in mare.
Ciò significa che nelle fosse e nelle scarpate mediterranee abbiamo migliaia di tonnellate di rifiuti.
Questo ci preoccupa perché tra l’altro è stato provato che alcuni organismi marini preferiscono ormai mangiare le fibre di plastica piuttosto che fitoplancton o zooplancton. Quindi è chiaro che non c’è tempo da perdere. Attenzione però, non dobbiamo criminalizzare l’uso della plastica ma iniziare a eliminare completamente il monouso.
La cosa più ridicola che ci può essere – aggiunge – quella che dimostra la stupidità della nostra specie, è la cannuccia. Perché è fatta dal petrolio, e quindi comporta un consumo energetico, e perchè dura pochi secondi e viene buttata via.
Non ha senso. Anche perché lo spritz si può bere anche direttamente dal bicchiere”.
Senza dimenticare che i rifiuti in plastica sono anche quelli che sempre più spesso bruciano negli impianti di stoccaggio da Nord a Sud del Paese.
Un fenomeno che ha assunto le proporzioni di un’autentica emergenza.
Più di 300 i casi di incendio censiti negli ultimi tre anni, molti dei quali con conseguenze pesantissime sul fronte ambientale e sanitario.
“Dietro gli incendi – osserva Claudia Salvestrini – c’è proprio la combinazione tra la chiusura della Cina e una raccolta differenziata che ancora privilegia la quantità alla qualità.
Ultimamente i roghi sono diminuiti perché le procure stanno indagando, quasi come se il sistema si fosse bloccato per paura o per precauzione.
Questo basta a farci capire che quegli incendi erano tutto meno che autocombustioni”.
Capitolo chiuso?
Tutt’altro, spiega la direttrice del Polieco. Perché nonostante la crescente attenzione delle procure e la chiusura della rotta cinese “il sistema dei traffici illeciti – dice – ha trovato nuovi sbocchi.
Le spedizioni dei rifiuti hanno smesso di andare in Cina, ma privilegiano le rotte malesiane, vietnamite, albanesi e anche quelle di alcuni paesi europei che non sono soltanto quelli dell’est”.
Il sottoscritto ha più volte segnalato la riforma per la Gestione dei rifiuti urbani ENEA, senza mai ottenere interesse o riscontro

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