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Trattato di Parigi del 1947

 l Trattato di Pace firmato a Parigi nel 1947  è di fatto una Resa senza condizioni. Ha al suo interno non solo un Art. 16 che ci ha impedito di fare Giustizia ma, soprattutto, contiene delle clausole segrete che determinano la nostra finale mancanza di Sovranità e la subordinazione agli interessi Anglo-Americani. 

Il Trattato di “Pace” firmato a Parigi alle 11,45 del 10 febbraio 1947 è di fatto una Resa senza condizioni. Ha al suo interno non solo un Art. 16 che ci ha impedito di fare Giustizia ma, soprattutto, contiene delle clausole segrete che determinano la nostra finale mancanza di Sovranità e la subordinazione agli interessi Anglo-Americani. 
Ancora oggi, non ci è dato sapere di più su tali clausole in quanto ancora segrete, infami e vergognose clausole nascoste da essere a tutt’oggi completamente inconfessabili, perché se venissero rese note genererebbero il disprezzo e l’odio di tutte le persone oneste del mondo, facendo rivoltare le viscere di tutte le persone corrette e rispettabili:  bisogna assolutamente conoscere tali clausole ed, eventualmente, andare ad una Revisione di quel Trattato – chiamato TP47 – che, come giustamente lo ha definito Croce, in realtà non fu altro che un Dettato di Pace.
L’Assemblea costituente italiana votò invece a favore della sua ratifica il 31 luglio 1947, e autorizzò il Governo della Repubblica a ratificarlo con legge del 2 agosto 1947; il Capo Provvisorio dello Stato gli diede piena ed intera attuazione con decreto legislativo del 28 novembre 1947, recependolo nell’ordinamento giuridico italiano con effetto retroattivo al 16 settembre 1947.

Io non pensavo che la sorte mi avrebbe, negli ultimi miei anni, riserbato un così trafiggente dolore come questo che provo nel vedermi dinanzi il documento che siamo chiamati ad esaminare, e nell’essere stretto dal dovere di prendere la parola intorno ad esso. Ma il dolore affina e rende più penetrante l’intelletto che cerca nella verità la sola conciliazione dell’interno tumulto passionale. 

Noi italiani abbiamo perduto una guerra, e l’abbiamo perduta ‹‹tutti››, anche coloro che l’hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l’ha dichiarata, anche coloro che sono morti per l’opposizione a questo regime, consapevoli come eravamo tutti che la guerra sciagurata, impegnando la nostra Patria, impegnava anche noi, senza eccezioni, noi che non possiamo distaccarci dal bene e dal male della nostra Patria, né dalle sue vittorie né dalle sue sconfitte. Ciò è pacifico quanto evidente.

Sennonché il documento che ci viene presentato non è solo la notificazione di quanto il vincitore, nella sua discrezione o indiscrezione, chiede e prende da noi, ma un giudizio morale e giuridico sull’Italia e la pronunzia di un castigo che essa deve espiare per redimersi e innalzarsi o tornare a quella sfera superiore in cui, a quanto sembra, si trovano, coi vincitori, gli altri popoli, anche quelli del Continente nero.

E qui mi duole di dovere rammentare cosa troppo ovvia, cioè che la guerra è una legge eterna del mondo, che si attua di qua e di là da ogni ordinamento giuridico, e che in essa la ragion giuridica si tira indietro lasciando libero il campo ai combattenti, dall’una e dall’altra parte intesi unicamente alla vittoria, dall’una e dall’altra parte biasimati o considerati traditori se si astengono da cosa alcuna che sia comandata come necessaria o conducente alla vittoria. Chi sottopone questa materia a criteri giuridici, o non sa quel che si dica, o lo sa troppo bene, e cela l’utile, ancorché egoistico, del proprio popolo o Stato sotto la maschera del giudice imparziale. Segno inquietante di turbamento spirituale sono ai nostri giorni (bisogna pure avere il coraggio di confessarlo) i tribunali senza alcun fondamento di legge, che il vincitore ha istituiti per giudicare, condannare e impiccare, sotto  nomi di criminali di guerra, uomini politici e generali dei popoli vinti, abbandonando la diversa pratica, esente da ipocrisia, onde un tempo non si dava quartiere ai vinti o ad alcuni dei loro uomini, e se ne richiedeva la consegna per metterli a morte, proseguendo e concludendo con ciò la guerra. Giulio Cesare non mandò innanzi a un tribunale ordinario o straordinario l’eroico Vercingetorige, ma, esercitando vendetta o reputando pericolosa alla potenza di Roma la vita e l’esempio di lui, poiché gli si fu nobilmente arreso, lo trascinò per le strade di Roma dietro il suo carro trionfale e indi lo fece strozzare nel carcere. Parimenti si è preso oggi il vezzo, che sarebbe disumano, se non avesse del tristemente ironico, di tentar di calpestare i popoli che hanno perduto una guerra, con l’entrare nelle loro coscienze e col sentenziare sulle loro colpe e pretendere che le riconoscano e promettano di emendarsi: che è tale pretesa che neppure Dio, il quale permette nei suoi ascosi consigli le guerre, rivendicherebbe a sé, perché egli non scruta le azioni dei popoli nell’ufficio che il destino o l’intreccio storico di volta in volta loro assegna, ma unicamente i cuori e i reni, che non hanno segreti per lui, dei singoli individui. Un’infrazione della morale qui indubbiamente accade, ma non da parte dei vinti, si piuttosto dei vincitori, non dei giudicati, ma degli illegittimi giudici.

Noi italiani, che abbiamo nei nostri grandi scrittori una severa tradizione di pensiero giuridico e politico, non possiamo dare la nostra approvazione allo spirito che soffia in questo dettato, perché dovremmo approvare ciò che sappiamo non vero e pertinente a transitoria malsania dei tempi: il che non ci si può chiedere. Ma altrettanto dubbio suscita questo documento nell’altro suo aspetto di dettato internazionale, che dovrebbe ristabilire la collaborazione tra i popoli nell’opera della civiltà e impedire, per quanto è possibile, il rinnovarsi delle guerre.

Il tema che qui si tocca è così vasto e complesso che io non posso se non lumeggiarlo sommariamente e in rapporto al solo caso dell’Italia, e nelle particolarità di questo caso.

L’Italia, dunque, dovrebbe, compiuta l’espiazione con l’accettazione di questo dettato, e così purgata e purificata, rientrare nella parità di collaborazione con gli altri popoli. Ma come si può credere che ciò sia possibile, se la prima condizione di ciò è che un popolo serbi la sua dignità e il suo legittimo orgoglio, e voi o sapienti uomini del tripartito, o quadripartito internazionale, l’offendete nel fondo più geloso dell’anima sua, perché, scosso che ebbe da sé l’Italia, non appena le fu possibile, l’infesto regime tirannico che la stringeva, avete accettato e sollecitato il suo concorso nell’ultima parte della guerra contro la Germania, e poi l’avete, con pertinace volontà, esclusa dai negoziati della pace, dove si trattava dei suoi più vitali interessi, impedendole di fare udire le sue ragioni e la sua voce e di suscitare a sé spontanei difensori in voi stessi o tra voi? E ciò avete fatto per avere le sorti italiane come una merce di scambio tra voi, per equilibrare le vostre discordi cupidigie o le vostre alterne prepotenze, attingendo ad un fondo comune, che era a disposizione. Così all’Italia avete ridotto a poco più che forza di polizia interna l’esercito, diviso tra voi la flotta che con voi e per voi aveva combattuto, aperto le sue frontiere vietandole di armarle a difesa, toltole popolazioni italiane contro gli impegni della cosiddetta Carta atlantica, introdotto clausole che violano la sua sovranità sulla popolazioni che le rimangono, trattatala in più cose assai più duramente che altri Stati ex nemici, che avevano tra voi interessati patroni, toltole o chiesta una rinunzia preventiva alle colonie che essa aveva acquistate col suo sangue e amministrate e portate a vita civile ed europea col suo ingegno e con dispendio delle sue tutt’altro che ricche finanze, impostole gravi riparazioni anche verso popoli che sono stati dal suo dominio grandemente avvantaggiati; e perfino le avete come ad obbrobrio, strappati pezzi di terra del suo fronte occidentale da secoli a lei congiunti e carichi di ricordi della sua storia, sotto pretesto di trovare in quel possesso la garanzia contro una possibile irruzione italiana, quella garanzia che una assai lunga e assai fortificata e assai vantata linea Maginot non seppe dare.

Non continuo nel compendiare gli innumeri danni ed onte inflitte all’Italia e consegnati in questo documento, perché sono incisi e bruciano nell’anima di tutti gli italiani; e domando se, tornando in voi stessi, da vincitori smoderati a persone ragionevoli, stimate possibile di avere acquistato con ciò un collaboratore in piena efficienza per lo sperato nuovo assetto europeo.

Il proposito doveroso di questa collaborazione permane e rimarrà saldo in noi e lo eseguiremo, perché corrisponde al nostro convincimento e l’abbiamo pur ora comprovato col fatto: ma bisogna non rendere troppo più aspro all’uomo il già aspro suo dovere, né dimenticare che al dovere giova la compagnia che gli recano l’entusiasmo, gli spontanei affetti, l’esser libero dai pungenti ricordi di  torti ricevuti, la fiducia scambievole, che presta impeto ed ali.

Noi italiani, che non possiamo accettare questo documento, perché contrario alla verità, e direi alla nostra più alta coscienza, non possiamo sotto questo secondo aspetto dei rapporti fra i Popoli, accettarlo, né come italiani curanti dell’onore della loro Patria, né come europei: due sentimenti che confluiscono in uno, perché l’Italia è tra i popoli che più hanno contribuito a formare la civiltà europea, e per oltre un secolo ha lottato  per la libertà e l’indipendenza sua, e, ottenutala, si era per molti decenni adoperata a serbare con le sue alleanze e intese difensive la pace in Europa. E cosa affatto estranea alla costante sua tradizione è stata la parentesi fascistica, che ebbe origine dalla guerra del 1914, non da lei voluta ma da competizioni di altre potenze; la quale, tuttoché essa ne uscisse vittoriosa, nel collasso che seguì dappertutto, la sconvolse a segno da aprire la strada in lei alla imitazione dei nazionalismi e totalitarismi altrui. Libri stranieri hanno testé favoleggiato la sua storia nei secoli come una incessante aspirazione all’imperialismo, laddove l’Italia una sola volta fu imperiale, e non propriamente essa, ma l’antica Roma, che peraltro valse a creare la comunità che si chiamò poi l’Europa e, tramontata quell’egemonia, per la sua posizione geografica divenne campo di continue invasioni e usurpazioni dei vicini popoli e stati. Quei libri, dunque, non sono storia, ma deplorevole pubblicistica di guerra, vere e proprie falsificazioni. Nel 1900 un ben più sereno scrittore inglese, Bolton King, che con grande dottrina narrò la storia della nostra unità, nel ritrarre l’opera politica dei governi italiani nel tempo seguito all’unità, riconosceva nella conclusione del suo libro che, al confronto degli altri popoli d’Europa, l’Italia “possedeva un ideale umano e conduceva una politica estera comparativamente generosa”.

Ma se noi non approveremo questo documento, che cosa accadrà? In quali strette ci cacceremo? Ecco il dubbio e la perplessità che può travagliare alcuno o parecchi di voi, i quali, nel giudizio di sopra esposto e ragionato del cosiddetto Trattato, so che siete tutti e del tutto concordi con me ed unanimi, ma pur considerate l’opportunità contingente di una formalistica ratifica.

Ora non dirò ciò che voi ben conoscete; che vi sono questioni che si sottraggono alla spicciola opportunità e appartengono a quella inopportunità opportuna o a quella opportunità superiore che non è del contingente ma del necessario; e necessaria e sovrastante a tutto è la tutela della dignità nazionale, retaggio affidatoci dai nostri padri, da difendere in ogni rischio e con ogni sacrificio. Ma qui posso stornare per un istante il pensiero da questa alta sfera che mi sta sempre presente e, scendendo anch’io nel campo del contingente, alla domanda su quel che sarà per accadere, risponderei, dopo avervi ben meditato, che non accadrà niente, perché in questo documento è scritto che i suoi dettami saranno messi in esecuzione anche senza  l’approvazione dell’Italia: dichiarazione in cui, sotto lo stile di Brenno, affiora la consapevolezza della verità che l’Italia ha buona ragione di non approvarlo. Potrebbero bensì, quei dettami, venire peggiorati per spirito di vendetta,  ma non credo che si vorrà dare al mondo di oggi, che proprio non ne ha bisogno, anche questo spettacolo di nuova cattiveria, e, del resto, peggiorarli mi par difficile, perché non si riesce a immaginarli peggiori e più duri.

Il governo italiano certamente non si opporrà alla esecuzione del dettato; se sarà necessario, coi suoi decreti o con qualche suo singolo provvedimento legislativo, la seconderà docilmente, il che non importa approvazione, considerato che anche i condannati a morte sogliono secondare docilmente nei suoi gesti il carnefice che li mette a morte.

Ma approvazione, no! Non si può costringere il popolo italiano a dichiarare che è bella una cosa che esso sente come brucia, e questo con l’intento di umiliarlo e di togliergli il rispetto di se stesso, che è indispensabile ad un popolo come a un individuo, e che solo lo preserva dall’abiezione e dalla corruttela.

Del resto, se prima eravamo soli nel giudizio dato di sopra del trattamento usato all’Italia, ora spiritualmente non siamo più soli: quel giudizio si avvia a diventare un’opinio communis e ci viene incontro da molti altri popoli e perfino da quelli vincitori, e da minoranze dei loro parlamenti che, se ritegni molteplici non facessero per ora impedimento, diventerebbero maggioranze, E fin da ora ci si esorta a ratificare sollecitamente il Trattato per entrare negli aeropaghi internazionali, da cui siamo esclusi e nei quali saremmo accolti a festa, se anche come scolaretti pentiti, e ci si fa lampeggiare l’incoraggiante visione che le clausole di esso più gravi e più oppressive non saranno eseguite e tutto sarà sottoposto a revisione.

Noi non dobbiamo cullarci nelle facili speranze e nelle pericolose illusioni e nelle promesse più volte trovate fittizie, ma contare anzitutto e soprattutto su noi stessi; e tuttavia possiamo confidare che molti comprenderanno la necessità del nostro rifiuto dell’approvazione, e l’interpreteranno per quello che esso è: non un’ostilità contro il riassetto pacifico dell’Europa, ma, per contrario un ammonimento e un contributo a cercare questo assetto nei modi in cui soltanto può ottenersi; non una manifestazione di rancore e di odio, ma una volontà di liberare noi stessi dal tormento del rancore e dalle tentazioni dell’odio.

Signori deputati, l’atto che oggi siamo chiamati a compiere, non è una deliberazione su qualche oggetto secondario e particolare, dove l’errore può essere sempre riparato e compensato; ma ha carattere solenne, e perciò non bisogna guardarlo unicamente nella difficoltà e nella opportunità del momento, ma portarvi sopra quell’occhio storico che abbraccia la grande distesa del passato e si volge riverente e trepido all’avvenire. E non vi dirò che coloro che questi tempi chiameranno antichi, le generazioni future dell’Italia che non muore, i nipoti e pronipoti ci terranno responsabili e rimprovereranno la generazione nostra di aver lasciato vituperare e avvilire e inginocchiare la nostra comune Madre a ricevere rimessaménte un iniquo castigo; non vi dirò questo, perché so che la rinunzia alla propria fama è in certi casi estremi richiesta all’uomo che vuole il bene o vuole evitare il peggio; ma vi dirò quel che è più grave, che le future generazioni potranno sentire in se stesse la durevole diminuzione che l’avvilimento, da noi consentito, ha prodotto nella tempra italiana, fiaccandola. Questo pensiero mi atterrisce, e non debbo tacervelo nel chiudere il mio discorso angoscioso. Lamentele, rinfacci, proteste, che prorompono dai petti di tutti, qui non sono sufficienti. Occorre un atto di volontà, un esplicito  ‹‹ no ››. Ricordare che, dopo che la nostra flotta, ubbidendo all’ordine del re ed al dovere di servire la Patria, si fu portata a raggiungere la flotta degli alleati e a combattere al  loro fianco, in qualche  loro giornale si lesse che tal cosa le loro flotte non avrebbero mai fatto. Noi siamo stati vinti, ma noi siamo pari, nel sentire e nel volere, a qualsiasi più intransigente popolo della terra.

Il Trattato di Parigi del 1947 e le limitazioni della sovranità italiana

Anche grazie al saggio storico di Sara Lorenzini -docente di Storia contemporanea a Trento – dal titolo “L’Italia e il trattato di pace del 1947“ (Il Mulino, 2007) – diventa a nostro avviso certamente più comprensibile l’origine storica della assenza di sovranità militare e politica italiana nel dopoguerra.

Infatti le rilevantissimi limitazioni, a livello di sovranità militare e politica del nostro paese, sono da individuarsi già nel gennaio del ‘43 durante la Conferenza di Casablanca quando le potenze vincitrici si accordarono sulla base del principio della resa incondizionata: la Germania infatti e i suoi alleati non avrebbero in alcun modo avuto il diritto di negoziare alcun accomodamento con i vincitori. La seconda tappa relativa alla limitazione della sovranità del nostro paese fu l’armistizio firmato dal Maresciallo Badoglio e alludiamo, per essere più precisi, sia a quello del 3 settembre sia quello del 29 settembre. Entrambi infatti costituirono il presupposto per quella che sarà poi la pace punitiva del trattato di pace del ‘47. D’altronde l’8 settembre l’esercito italiano composto da 1.750.000 uomini si dileguò e ben 600.000 italiani finirono per diventare prigionieri tedeschi. Proprio per questo l’8 settembre rimane un giorno funesto per l’Italia, il giorno che rappresentò per il nostro paese la morte della patria. 

Come opportunamente rileva l’autrice del saggio uno dei numerosi episodi che contraddistinsero l’atteggiamento punitivo nei confronti dell’Italia fu da un lato l’occupazione francese della Valle d’Aosta e soprattutto l’occupazione jugoslava di Trieste. Ma anche la proposta di William Morgan in base alla quale tutta l’Istria passava sotto l’amministrazione Jugoslavia rappresentò una umiliazione per il nostro paese.

Il terzo episodio, opportunamente sottolineato da numerosi storici che a lungo si sono occupati sia del trattato che delle clausole in esso presenti, è il fatto che la bozza del trattato che poi sarà firmato era stato già preparato prevalentemente dagli inglesi che avevano in mente di togliere all’Italia tutte le colonie del Mediterraneo orientale e del Corno d’Africa. Il quarto aspetto che va sottolineato è quello relativo al fatto che fin dall’inizio gli inglesi avevano deciso che l’Italia avrebbe potuto esprimere il suo parere solo una volta sentiti tutti gli altri componenti e cioè i dominios’, gli Stati Uniti, l’URSS, la Francia, la Grecia, la Jugoslavia e l’Etiopia. D’altronde, come hanno rilevatom gli storici che hanno a fondo analizzato la documentazione originaria, a decidere le sorti dell’Italia furono sostanzialmente tre personaggi politici e cioè l’americano James Byrnes, il sovietico Molotov e il britannico Bevin.

Un ruolo di rilievo, seppure marginale, fu svolto anche dal rappresentante francese Georges Bidault. Proprio per questo non pochi uomini politici e diplomatici compresero che il trattato che si sarebbe firmato a Parigi non sarebbe stato uno strumento di riconciliazione ma un vero e proprio diktat analogo a quello che fu imposto ai tedeschi con la pace di Versailles. Lo dimostra il fatto che le richieste italiane non furono tenute in alcuna considerazione dai diplomatici dei paesi vincitori i quali avevano come unico obiettivo quello di salvaguardare il loro interesse nazionale a danno dell’Italia.

Non meno significativo, perché implicitamente antinazionale, fu l’atteggiamento della Chiesa che si dimostrò neutrale: il Nunzio Apostolico Angelo Roncalli fece infatti presente ai propri connazionali che si trovavano a Parigi che il Vaticano non poteva impegnarsi a favore del nostro paese. Uno degli aspetti che emerge con maggiore chiarezza nel trattato fu il fatto che il nostro territorio fu privato della sua unità: a occidente infatti esso subiva delle rettifiche a favore della Francia per quasi 770 km mentre quelle più considerevoli erano sul confine orientale dove l’Italia aveva ceduto più di 8000 km abitati da circa 445.000 italiani.

Fra i numerosi diktat imposti vi fu la perdita a ovest degli impianti dell’alta Valle Roja e del controllo della diga del Moncenisio e a est dei giacimenti carboniferi dell’Arsa, delle miniere di bauxite e mercurio dell’Istria, delle industrie e del grande potenziale commerciale di Trieste oltre naturalmente all’abbandono di tutte le attività economiche che l’Italia aveva costruito in tutte le sue colonie. Uno dei commenti maggiormente significativi, a nostro modo di vedere, fu quello del 26 luglio di Francesco Saverio Nitti il quale sottolineò come il fascismo non fu affatto un fenomeno solo italiano ma fu anche europeo e perfino americano. Tanto è vero che i giornali conservatori britannici – e gran parte dell’establishment americano – avevano appoggiato fino alla fine il regime fascista in funzione anticomunista. Quanto alla altisonante retorica della Società delle Nazioni – commentava Notti – questa non era forse stata una borsa dei valori dei vincitori oltre a essere un vero e proprio cumulo di tutti gli intrighi di tutti i grandi affari?

Quanto infine al piano Marshall, secondo l’autorevole esponente italiano, questo serviva solo all’America per trovare sbocchi per i suoi prodotti. In altri termini se gli Stati Uniti si serviranno della collocazione geografica italiana come un fondamentale avamposto per contrastare l’espansionismo sovietico e si serviranno del piano Marshall per trasformare l’Italia in una colonia economicamente parlando americana, gli inglesi – imponendo lo smantellamento delle infrastrutture sul Mediterraneo e promuovendo l’autodeterminazione di tutte le colonie italiane in Africa – riuscirono a ottenere non tanto l’indebolimento della marina italiana quanto la sua impotenza. Per quanto riguarda l’URSS questa, oltre a promuovere da un punto di vista ideologico il comunismo, vedeva nella Jugoslavia una importante via d’accesso al possibile dominio militare dell’Italia.

Per quanto concerne la Francia questa riuscì a ottenere compensazioni di carattere economico relative sia al commercio sia allo sfruttamento dell’energia idroelettrica. Per quanto riguarda la Grecia tutte le isole che le appartenevano ritorneranno sotto la sua sovranità ma anche sotto l’influenza britannica impedendo quindi all’Italia qualunque tipo di proiezione di potenza sul Mediterraneo. Perfino le concessioni stipulate per trarre vantaggio a livello economico che l’Italia aveva posto in essere con la Cina – alludiamo alle concessioni internazionali di Shanghai e di Amoy –furono abrogate. Per quanto riguarda le clausole di carattere militare lo smantellamento delle infrastrutture militari sia lungo la frontiera franco -italiana sia lungo la frontiera con la Jugoslavia priveranno l’Italia di qualunque possibilità di pianificare in modo autonomo la difesa del proprio territorio. Persino nella penisola delle Puglie all’Italia sarà proibito di costruire installazioni permanenti militari salvo poi consentire, in un secondo momento, agli americani di costruire le infrastrutture per i missili nucleari Jupiter in funzione antisovietica. La smilitarizzazione delle isole come Pantelleria, Lampedusa, Linosa e soprattutto di quelle presenti in Sicilia e Sardegna se da un lato priveranno l’Italia di qualunque possibilità di proiezione di potenza sul Mediterraneo dall’altro lato però consentiranno agli Stati Uniti di costituire il fianco sud della Nato. Quanto alla proibizione sancita nell’articolo 51 di costruire o sperimentare armi atomiche questo non impedirà agli Stati Uniti, alla Francia e all’URSS di sviluppare l’energia nucleare sia sul piano militare che sul piano civile.

Altrettanto significativo fu l’articolo 69 che fece divieto all’Italia di non utilizzare tecnici civili ma soprattutto militari di origine tedesca e giapponese, clausola questa che non valeva per i vincitori: gli Stati Uniti e l’URSS utilizzeranno infatti le competenze professionali di ex ufficiali tedeschi per rafforzare il proprio dispositivo militare e il proprio apparato di intelligence durante la guerra fredda.

A supporto di quanto affermato nel volume dalla studiosa italiana sia sufficiente fare riferimento a un classico della storiografia militare italiana e cioè al saggio di Virgilio Ilari dal titolo Storia militare della prima Repubblica 1943-1993 (Casa editrice Nuove Ricerche, 1994) il quale opportunamente sottolinea gli aspetti punitivi che, sotto il profilo militare, furono imposti dagli alleati all’Italia. In primo luogo, commentando il trattato di pace, l’autore opportunamente ricorda come la Francia riuscì a imporre la smilitarizzazione della frontiera occidentale per una profondità di circa 20 km e soprattutto come fu vietata la costruzione di nuove basi aeree e navali e lo sviluppo di quelle presenti in Puglia; così come furono vietati il possesso, la costruzione e la sperimentazione di armi atomiche, missili di artiglieria di portata superiore ai 30 km. Giustamente Ilari ricorda una affermazione datata 27 luglio 1946 da parte di Trezzani secondo il quale le limitazioni che furono imposte all’Italia erano di tale gravità che tanto valeva abolire le forze armate e dichiarare la neutralità perpetua nel nostro paese.

Altrettanto significativo l’affermazione di Cadorna per il quale le clausole trasformarono l’Italia in un paese disarmato alla mercé di due eserciti mentre le forze disponibili avrebbero potuto solo fare una modesta copertura in corrispondenza di una delle due frontiere (pag.19). Ma tuttavia l’osservazione che a nostro avviso è di maggiore significato è quella datata 15 aprile 1946 fatta da parte dell’Ambasciatore a Mosca Quaroni che paventava che gli alleati intendessero cucinare l’Italia nella migliore salsa egiziana imponendole una bella serie di basi aeree e navali come poi di fatto accade con l’adesione dell’Italia alla Nato. A tale proposito sia sufficiente fare riferimento a quanto Ilari sottolinea nel suo volume (pag. 57) quando ricorda come in un documento del maggio del 1949 lo Stato maggiore congiunto americano suggerì al Dipartimento di Stato di chiedere all’Italia il riconoscimento di numerosi e gravosi diritti militari fra i quali quelli di chiedere al governo italiano piani militari per l’utilizzazione dei porti come basi logistiche. Un’altra rilevante richiesta da parte americana fu quella dell’11 ottobre quando fu stabilita una linea di comunicazione dal porto di Livorno a Verona allo scopo di consolidare le forze americane a Trieste e a Salisburgo; nel settembre del ‘52 gli americani chiesero – e ottennero – una base di addestramento per i marines in Sardegna e l’uso delle basi aeree di Aviano e Orio al Serio. Ma la presenza in profondità delle forze armate americane sul nostro territorio avrà modo di consolidarsi sia con la Convenzione di Londra del giugno del 1951 sia con gli accordi bilaterali che saranno di volta in volta firmati nel 1957 in merito a Sigonella, nel 1972 in merito a Lampedusa e nel 1983 in relazione a Comiso.

Mentre l’Italia, come poc’anzi accennato, dovette rinunciare allo sviluppo di armi nucleari gli Stati Uniti negli anni ‘50 svilupparono la dottrina dell’impiego delle armi nucleari (il cosiddetto first use) e li collocarono sul nostro territorio. In ultima analisi le conseguenze della pace cartaginese voluta dagli alleati hanno gettato le basi della limitazione della sovranità italiana, limitazioni che durano ancora oggi. Tuttavia la nostra breve analisi non potrebbe dirsi compiuta se non ricordassimo anche l’articolo 11 della Costituzione commentato sia da Marco Giaconi che dal Gen. Marco Bertolini 


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