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“primum movens”

Tutte le teorie economiche classiche fanno discendere lo sviluppo economico da fattori produttivi come il lavoro o il capitale. Marx individuò nei rapporti di produzione tra capitalisti e lavoratori la “sovrastruttura” da cui dipendono la struttura e i comportamenti delle società umane.

Ma anche lui si sbagliava, perché il “primum movens” dell’economia è invece la disponibilità di energia, fattore indispensabile a far funzionare il sistema produttivo.

Se improvvisamente si esaurissero o non fossero utilizzabili tutte le fonti energetiche attualmente sfruttate è facile immaginare come l’umanità tornerebbe rapidamente a condizioni di vita pre – industriali o primitive.
L’economia classica ha risolto il problema togliendo dal novero delle possibilità tale evento, cioè negando il concetto di limite delle risorse e sostituendolo con il principio della continua e incessante creazione di risorse aggiuntive determinato dal quasi metafisico principio dell’equilibrio tra domanda, offerta e prezzi delle materie prime.


Per nostra sfortuna, sembra invece che l’ecosistema a cui apparteniamo ignori i principi dell’economia, preferendo affidarsi alle immutabili leggi della fisica, come ad esempio quelle della termodinamica, in cui il sistema economico è solo un sottoinsieme del sistema fisico e non viceversa. I combustibili fossili non si sottraggono a tali regole.
Hanno accumulato grandi, ma finite, quantità di energia, attraverso lunghi processi geologici di trasformazione di materia organica.


Ad esempio, il petrolio e il gas naturale, si sono formati in una finestra temporale di eventi climatici e geologici databile alcune centinaia di milioni di anni fa, quando una catastrofe climatica ante litteram determinò la comparsa nei mari di enormi quantità di microalghe che, depositatesi sui fondali e sottoposte a particolari condizioni di pressione e temperatura conseguenti a sconvolgimenti tettonici della crosta terrestre, si trasformarono gradualmente nei combustibili fossili che oggi allegramente continuiamo a sperperare.

E’ questa la teoria biotica dell’origine del petrolio, condivisa dalla quasi totalità della comunità scientifica internazionale e unanimemente accettata dagli specialisti del settore.
Per dovere di cronaca bisogna citare anche la teoria abiotica sull’origine del petrolio, sostenuta da uno sparuto gruppo di scienziati non specialisti della materia, che suppone la continua formazione del greggio nelle profondità della Terra in seguito a complicati quanto improbabili processi chimici. Il mondo è bello perché vario, ma sfortunatamente il metodo scientifico ignora questo poetico aforisma, quindi procediamo oltre.


Stabilito quindi che il petrolio (e gli altri combustibili fossili) è destinato a finire, qualcuno potrebbe commentare l’assunto con la famosa frase di Keynes “nel lungo periodo saremo tutti morti”.
Premesso che tale pragmatico concetto apparirebbe poco comprensibile a coloro che dovranno fare a meno in futuro dell’”oro nero”, pare anche che esso sia nel caso specifico logicamente e concretamente sbagliato, perché la penuria di petrolio è molto più vicina di quanto ottimisticamente si pensi e interesserà probabilmente le nostre ultime generazioni, cioè noi, i nostri figli e i nostri nipoti.


A dare un colpo micidiale alle sicurezze degli “abbondantisti” è stata la cosiddetta teoria del “picco del petrolio” che postula un andamento della produzione petrolifera a forma di campana (in termini tecnici “gaussiana”), con una crescita esponenziale, un massimo (picco) e un declino più o meno veloce.
E’ una spiegazione contro – intuitiva perché siamo abituati a considerare, con il buon senso, l’esaurimento di un prodotto finito come un processo lineare e continuo.

Possiamo dirci certi, anche con la mente annebbiata, di poter spillare da una botte fino all’ultima goccia di vino, aumentando costantemente le nostre bevute, ma nel caso del petrolio e di altre risorse fossili e minerali, la compresenza di limiti geologici ed economici all’estrazione, fa sì che superata circa la metà delle risorse disponibili, ne potremo estrarre sempre meno.


La teoria, inizialmente derisa e sottovalutata, è oggi accettata largamente dagli addetti ai lavori e, in particolare, dall’autorevole Agenzia Energetica Internazionale, ed è confermata da diverse evidenze empiriche, a partire dal graduale esaurimento dei giacimenti petroliferi statunitensi, correttamente previsto dall’inventore della teoria stessa, il geologo Marion King Hubbert, che predisse il picco agli inizi degli anni ‘70 e il successivo declino, effettivamente poi realizzatisi.
Almeno per il petrolio convenzionale, perché di recente la produzione degli Stati Uniti ha avuto una effimera ripresa grazie allo sfruttamento del cosiddetto shale oil, di cui parleremo più avanti.
Ma anche altri grandi giacimenti come quelli del Golfo del Messico, del Mare del Nord, sono da tempo in costante declino.

D’altra parte, a conferma della teoria, c’è il dato inequivocabile della progressiva minore scoperta di nuove risorse petrolifere: dagli anni ’60 le nuove scoperte di petrolio sono in declino e dal 1985 il mondo consuma più petrolio di quanto ne viene scoperto.

Soprattutto, non si trovano più grandi giacimenti come quelli scoperti in passato nel Medio Oriente. Come nel famoso gioco della battaglia navale, si colpiscono con maggiore probabilità prima le navi più grandi e dopo quelle più piccole.
L’unica differenza, nel caso del petrolio, è che alla fine non ci sarà un vincitore.
Abbiamo detto che la teoria del picco è sostanzialmente accettata, le differenze di valutazione riguardano ora solo la data del picco.


Questione non marginale, considerato che quanto più in avanti si collochi tale data, tanto più tempo avremo per cercare di trovare valide alternative al petrolio. La previsione non è per niente facile, in considerazione della aleatorietà e, in alcuni casi, manomissione dei dati sulle risorse effettivamente disponibili da parte dei paesi produttori, per alterare il meccanismo di assegnazione delle quote produttive. E’ necessaria pertanto una profonda conoscenza della materia e capacità di interpretazione dei dati.

L’associazione internazionale ASPO, formata da specialisti del settore, geologici e ingegneri petroliferi, con lunghe e pregresse esperienze di lavoro in grandi compagnie petrolifere, ha elaborato un modello che prevede il raggiungimento del picco produttivo proprio negli anni che stiamo vivendo, l’AIE lo colloca più avanti nel tempo ma a condizione di individuare nuove quanto improbabili grandi risorse aggiuntive.
Veniamo infine ai giorni nostri e in particolare alla produzione di idrocarburi americana, che secondo alcuni analisti starebbe vivendo una sorta di nuova età dell’oro, con la messa in produzione di grandi quantità di petrolio non convenzionale, come lo shale oil e il tight oil.
Si tratta di risorse petrolifere recuperabili attraverso la tecnica di estrazione denominata “fracking”, che consiste nella fatturazione delle rocce porose in cui è intrappolato il greggio ed estrazione con pozzi orizzontali, resasi conveniente economicamente dopo la crescita dei prezzi petroliferi degli ultimi anni, stabilizzatisi negli ultimi tempi intorno ai 100 dollari al barile.

In effetti, la nuova produzione degli Stati Uniti sta per ora mascherando il veloce declino dei pozzi nei paesi NON OPEC, consentendo ancora una crescita della produzione globale, che oggi si attesta a 91 milioni di barili al giorno di “tutti i liquidi”, che comprendono oltre al petrolio convenzionale anche i liquidi del gas naturale e i biocombustibili (ma la produzione effettiva di greggio ha raggiunto dal 2005 un plateau di circa 74 milioni di barili al giorno).


Ma è probabile che in tempi brevi tale declino sopravanzerà le nuove aggiunte di petrolio non convenzionale e allora saranno dolori, anche perché esauritisi rapidamente i petroli da fracking più agevoli da estrarre, ci sarà nei prossimi mesi la necessità di rivedere al rialzo i prezzi, causando un prevedibile corto circuito nella domanda e nell’offerta di tali prodotti.
In buona sostanza, come spiegato bene in questo articolo, che affronta nel dettaglio queste tematiche e lo stato della discussione sul picco del petrolio, la storia degli Stati Uniti capaci di diventare “esportatori di petrolio” si rivelerà a breve soltanto una favola.
Così come apparirà una chimera anche l’altra terra promessa dello shale gas, che gli Stati Uniti vorrebbero esportare in Europa per fare un dispetto a Putin.
L’unico consiglio che mi sento di dare è quello di rimanere con gli occhi aperti, alla ricerca di reali alternative al petrolio.


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