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Ecco come multinazionali e governi stanno facendo finta di salvare il pianeta

 

Marco Cedolin

Da ormai un paio di decenni tutti i grandi poteri, politici, finanziari e industriali, che hanno contribuito alla devastazione del pianeta, fagocitandone le risorse, inquinando l’ambiente e portando la biosfera al limite della catastrofe, si sono resi conto di una realtà incontrovertibile. 

Nei decenni futuri sarà impossibile accumulare profitti miliardari paragonabili a quelli del passato, semplicemente replicando l’atteggiamento predatorio attuato finora. 

Ragione per cui, per continuare ad arricchirsi, come e più di prima, occorre un approccio completamente differente, che tenga conto del fatto che le risorse non rinnovabili si stanno progressivamente esaurendo e il problema dei cambiamenti climatici si è ormai tradotto in realtà.


Quando un problema non può più essere ignorato, né combattuto semplicemente minimizzandolo, non resta che cavalcarlo trasformandolo nella propria battaglia, assicurandosi che la battaglia in questione possa garantire un futuro di profitti miliardari, sulla base di scelte “ambientaliste” che sicuramente non salveranno il pianeta, ma rimpingueranno adeguatamente le tasche delle stesse persone che ci hanno condotto fino a questo punto...

A grandi linee, proprio in questo senso si sta muovendo tutto il progetto Agenda 21, con il suo corollario di trattati, obiettivi, vertici e progetti di svariata natura. Poco importa se per costruire le auto elettriche, assai più inquinanti nel loro ciclo di vita rispetto a una vettura tradizionale, occorre sacrificare oltre 40 mila piccoli schiavi del Congo che a partire dai 6 anni scavano a mani nude il cobalto. 

Così come poco importa se per la costruzione di grandi opere come il TAV, ritenute a torto “ecologiche”, si sventrano le montagne devastando l’ambiente e mettendo a repentaglio il futuro delle popolazioni locali. L’unica cosa che conta è dipingere di “verde” nell’immaginario collettivo ogni business che s’intenda intraprendere, ben consci del fatto che i benefici sul piano ambientale risulteranno una chimera, ma i miliardi ricavati dall’operazione saranno al contrario tangibili alla stessa stregua di quelli ottenuti con la trivellazione petrolifera.

Muovendosi in questo stesso solco, durante il One Planet Summit, organizzato in Francia e presieduto da Emmanuel Macron nello scorso mese di Gennaio è stata annunciata l’adesione di 50 Paesi, compresa l’Italia alla “High Ambition Coalition for Nature and People” che fra gli altri si pone l’obiettivo di trasformare entro il 2030 il 30% dell’intero globo in fantomatiche “aree protette” all’interno delle quali sarà impedito di vivere alle persone che vi abitavano ed avevano un rapporto simbiotico con la natura, utilizzandola per nutrire le proprie famiglie ma al tempo stesso custodendola. Sarà messa in gioco la vita di oltre 300 milioni di persone, buona parte delle quali facenti parte dei popoli indigeni incontattati che fino ad oggi hanno rivestito un ruolo basilare nel contribuire fattivamente alla conservazione della natura e delle biodiversità.

Sulla base di un ragionamento perverso, ma non certo privo di un adeguato tornaconto, l’elité mondiale che fa capo all’ONU e ai vari organismi che le fanno da corollario, anziché mettere al centro della battaglia per la conservazione delle biodiversità proprio i popoli indigeni che operano in questo senso da sempre, preferisce sfrattarli dai luoghi in cui vivono, confidando nel fatto che essa sola (la stessa congrega che nell’ultimo mezzo secolo ha devastato il pianeta) sia in grado realmente di preservare la salute dell’ambiente.

Fortunatamente a livello mondiale sono molte le esternazioni di dissenso nei confronti di questo progetto scellerato e circa 200 fra organizzazioni ed esperti hanno sottoscritto una dichiarazione di Survival International, Minority Rights Group e Rainforest Foundation UK che denuncia le gravi conseguenze che l’obiettivo del 30% potrebbe avere per i popoli indigeni e le comunità locali se non verranno adottate garanzie vincolanti sui diritti umani e se i diritti territoriali di questi popoli non saranno posti al centro degli sforzi di conservazione.

La speranza è quella che l’opinione pubblica prenda sempre più consapevolezza del fatto che il problema ambientale è una questione seria, che travalica il business delle grandi corporation che hanno contribuito a innescarlo e ora promettono di risolverlo, nonostante non esista soluzione che prescinda dal cambio radicale del modello di sviluppo attuale e dal coinvolgimento di tutti, soprattutto di quei popoli indigeni che con la natura hanno sempre vissuto in perfetta sinergia.

 Fonte: DolceVita online

 

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