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Si fa presto a dire fame (per colpa di Putin)


24 Giu , 2022| |

Da svariati decenni la fame è un tema che compare nel novero delle analisi delle dinamiche globali; probabilmente dalla diffusione mondiale del famoso libro del nutrizionista, geografo e uomo politico brasiliano Josué de Castro, La geografia della fame (1946), tradotto dappertutto negli anni Cinquanta. Oggi si ripropone l’ombra di una nuova crisi alimentare, ma stavolta i media globali hanno trovato un facile capro espiatorio. La responsabilità non sarebbe del capitalismo occidentale, del sottosviluppo o di qualche fattore impersonale, ma di Vladimir Putin.

Tutta colpa di Mosca?

A marzo la FAO ha registrato un eccezionale aumento dei prezzi del 13%; Coldiretti ha denunciato il fatto che tali costi e le politiche di limitazione dell’export di Stati come l’India avrebbero potuto portate a carestie in 53 paesi.

Non è uno scenario del tutto nuovo. Circa dieci anni fa gli eventi innescati dalla Grande Recessione del 2007-08 e segnatamente l’inflazione dei beni alimentari hanno portato a tumulti e rivolgimenti in decine di paesi, influendo potentemente sulle cosiddette “Primavere arabe” del 2010-11 che hanno cambiato la mappa geopolitica della sponda sud del Mediterraneo.

La Federazione Russa e l’Ucraina sono in effetti fra i maggiori esportatori di grano – secondo i dati FAO rispettivamente il primo e il quinto a livello mondiale – per tonnellate.

Si fa presto a dire fame (per colpa di Putin)

Come riporta Politico, le ingenti quantità di grano disponibili in Ucraina potrebbero essere trasferite verso diversi paesi che contano su tali rifornimenti per il loro approvvigionamento alimentare ma per via terra è impossibile, e i maggiori porti, in particolare Odessa, coincidono con punti caldi del fronte. Ciò ha dato luogo ad inquadrare la questione secondo gli schemi della narrativa bellica attualmente dominante in Occidente, buttando in braccio ai russi l’intera colpa. Tanto da dar luogo a titoli equilibrati e rassicuranti quali “Putin e il grano ucraino, gli analisti: «Vuole la carestia in Africa e per un’ondata di profughi verso l’Occidente” (peraltro “gli analisti” erano ben un singolo giornalista) o “Grano bruciato, rubato e sequestrato: la terza guerra di Putin”.

Non è difficile vedere da chi sono stati ispirati i campioni della stampa “libera”. A Davos la presidente della Commissione europea von der Leyen, con raro sprezzo del ridicolo aveva detto che “la Russia sta deliberatamente usando il cibo come arma, affamando intere popolazioni. Dopo aver strumentalizzato le forniture di fonti energetiche, la Russia sta seguendo lo stesso spartito nel campo della sicurezza alimentare”.

I fatti stessi suggeriscono una situazione più complessa: per esempio che è stato l’esercito ucraino a minare Odessa, e che lo sminamento non potrebbe avvenire senza un accordo fra le parti.

Al momento in cui scriviamo la situazione non si è sbloccata, nonostante il tentativo di mediazione della Turchia. Vero è che Mosca ha chiesto la cancellazione delle sanzioni inerenti il blocco delle sue derrate, mettendo (chissà quanto in modo intenzionale) il dito sulla piaga: chiarire se prevale la nozione super partes di emergenza umanitaria che spinge allo sblocco del grano ucraino – e in tal caso perché non dovrebbe permettere l’invio di quello russo (che peraltro è più del doppio?) – o la volontà occidentale di punire Mosca?

 Ma al di là di questo, la posizione dell’establishment europeo e dei media che ne ripetono stancamente gli slogan è criticabile da un altro punto di vista. Dalle loro parole parrebbe che l’unico problema sia la strozzatura della rete di distribuzione – cioè il blocco dei porti sul Mar Nero – unico neo di un meccanismo agroalimentare adeguato e appropriato. Tale visione è saldamente inscritta in un orizzonte corporativo e mercatista portato avanti soprattutto da Ue e Usa che nei decenni hanno costruito un sistema alimentare mondiale funzionale alle loro aziende più forti e fortemente disfunzionale rispetto alle necessità nutritive di gran parte dell’umanità.

I numeri della fame

Prima di tutto cerchiamo di capire i termini numerici della fame. Secondo il recente 2022 Global Report on Food Crises – frutto della collaborazione dei maggiori organizzazioni internazionali, da FAO a WFP, e simili – il numero di persone denutrite è aumentato tanto in termini assoluti (quasi raddoppiato) che relativi dal 2016, soprattutto concentrati  in un piccolo numero di paesi (Siria, Afghanistan, Congo, Yemen, Etiopia, Sudan).

Si fa presto a dire fame (per colpa di Putin)

Le cause sono diverse, ma il rapporto stabilisce una correlazione forte con una in particolare: la guerra. Superiore a shock economici e crisi climatiche (da segnalare che gli eventi meteorologici estremi sono violentemente in ascesa, seppur come fattore non prevalente).

I dati si prevede che peggiorino nel corso del 2022 per la guerra in Ucraina: per le conseguenze dirette nelle zone interessate, per le difficoltà di distribuzione e per la crescita dei prezzi di cibo e non solo: la Federazione Russa è il primo esportatore al mondo di fertilizzanti a base di azoto, il secondo per quelli a base di potassio e il terzo di quelli a base di fosforo.

Più di trenta paesi dipendono da Russia e Ucraina per oltre il 30% del loro fabbisogno di grano, e 20 di essi oltre il 50%. Come si vede si tratta in massima parte di realtà molto povere e fragili.

Si fa presto a dire fame (per colpa di Putin)

Su questo scenario drammatico si innestano i problemi che la crisi del Covid ha visto per  l’incepparsi della famose catene globali del valore e l’aumento dei prezzi globali. Secondo uno studio di ING Economics, essi stanno aumentando rapidamente in tutto il mondo, variando considerevolmente da paese a paese, ma con un trend preoccupante dal 2021.

Si fa presto a dire fame (per colpa di Putin)

Caratteri del sistema alimentare globale

La radice ultimativa di tali problemi è la riduzione del cibo in maniera crescente ad una commodity sul mercato internazionale. Ciò ha determinato un sistema dominato da tre grandissimi guasti di carattere strutturale: l’aumento della dipendenza da circuiti export-import, sistemi assai legati ai pacchetti tecnologici occidentali e un sistema di formazione dei prezzi opaco, disfunzionale e prono alla speculazione. Questi aspetti si erano già dimostrati evidenti all’indomani della crisi del 2007-08 ma niente è stato fatto per modificarli a fondo. Vediamoli più concretamente.

Molti paesi che avevano una produzione interna in grado di sopperire alle necessità della popolazione sono scivolati verso la dipendenza da esportatori esteri, in parte per il cambiamento della dieta, in parte per le pressioni internazionali: diversi Stati africani negli anni Ottanta hanno subito i temibili Programmi di Aggiustamento Strutturale, venendo spinti dalla istituzioni finanziarie globali a sostituire le proprie colture con altre più adatte all’esportazione. Ma a quel punto il fabbisogno alimentare andava importato. A ciò si deve aggiungere che il mercato internazionale di grano è estremamente concentrato, con 7 paesi che ne producono il 90% e 4 aziende multinazionali che controllano il 70-90% del commercio: Archer Daniels Midland (USA),  Bunge (USA, residenza legale nelle Bermuda),  Cargill (USA), Louis Dreyfus (franco-olandese). Questa situazione presenta aspetti di fragilità evidenti, soprattutto per il meccanismo dei prezzi, ma anche per le restrizioni all’export che le autorità nazionali possono imporre. A maggio 2022 circa venti Stati hanno adottato tali misure, tipicamente nel tentativo di preservare il loro accesso al grano rispetto ad un mercato globale i cui prezzi stanno impazzendo; ma a livello mondiale tali politiche acutizzano le cause che le hanno generate, spingendo ancora più in alto i prezzi. In altri termini chi ha una produzione interna tenta di sganciarsi dal sistema globale dei prezzi, ma così facendo ingrandisce il problema per chi non può farlo. Esattamente quello che sta succedendo adesso.

La dipendenza si manifesta anche nell’importazione di fattori produttivi quali concimi, diserbanti, fertilizzanti, in generale dai vari “pacchetti tecnologici” che tendono ad associare alle colture da esportazione (magari sui mercati dei paesi più ricchi) una modalità focalizzata su meccanizzazione, prodotti chimici e bioingegneria – marginalizzando il lavoro contadino e la piccola proprietà.

Il terzo punto – i prezzi – è in generale e nella congiuntura il più importante. Ma va premesso che il commercio globale di cibo è lontano dall’essere dominante: se nel 1986 la quota di derrate alimentari inserita nei circuiti mondiali era il 15% del totale, nel 2009 era cresciuta solo al 23%. La maggior parte degli alimenti prodotti nel mondo continua ad essere consumata nelle frontiere in cui è stata prodotta. Tuttavia la fetta “globalizzata” è in una posizione strategica. Il grano commercializzato a tale livello è soggetto a contratti finanziari che ne aumentano patologicamente la rapidità e le oscillazioni e di prezzo. Questo è fissato in borsa (la più famosa è quella di Chicago, dal 2019 denominata NYSE Chicago) e subisce tutte le classiche dinamiche speculative: la pressione sul prezzo per via delle aspettative di mercato, l’uso della materia prima come base per vari prodotti finanziari, e simili. Come nota un rapporto di McKinsey, i futures sul grano sono aumentati del 40% fra febbraio e marzo scorsi. Si tratta di contratti che fissano il prezzo per un acquisto futuro, e potevano essere usati nelle pratiche commerciali convenzionali per assicurarsi contro un rialzo imprevisto. Ma se vengono venduti prima che la stessa transazione si compia, la differenza fra il prezzo fissato e quello che si determina sulla merce reale porta a realizzare un profitto che prescinde da essa. In altri termini si produce un surplus di domanda finalizzata alla rivendita del contratto e non del prodotto materiale in sé; ma la domanda fa alzare il prezzo al di là dell’ambito prettamente finanziario. Anche per chi il prezzo lo deve pagare per mangiare.

 L’incertezza determinata dalla guerra è il terreno di coltura ideale per tali pratiche, ed infatti nella prima settimana di marzo i fondi legati alle materie agricole hanno ricevuto 4,5 miliardi di investimenti. In sol nove giorni dopo l’inizio della “operazione speciale” in Ucraina il prezzo sul mercato dei futures alla borsa di Chicago è aumentato del 54%, per riscendere subito dopo – ma rimanendo a livelli elevati.

Tale è il risultato di non aver sufficientemente regolato tale settore dopo le disastrose risultanze di un decennio fa, anche per il lobbismo della International Swaps and Derivative Association, l’infingardo gruppo dei maggiori speculatori che ha fatto pressioni tanto sulle autorità statunitensi che europee per escludere misure penalizzanti per il loro interesse.

Diversi fattori convergono quindi a costruire una “tempesta perfetta” di cui l’invasione dell’Ucraina non è che un innesco. Le condizioni strutturali di lungo periodo rimontano da un lato alla liberalizzazione dei mercati finanziari sulle commodities partita in buona sostanza nel 2000 col Commodity Futures Modernization Act negli Usa, dall’altro con un orientamento della produzione, distribuzione e consumo del cibo particolarmente innervato di processi capitalistici e liberisti. L’emergenza prima o poi rientrerà, lasciando sul terreno un numero consistente di persone soggette a denutrizione e malnutrizione aggiuntive, in attesa che la successiva crisi porti nuovamente a riempirsi le tasche ai soliti soggetti afferenti all’Occidente – specialmente all’anglosfera – coi media che tessendo scientificamente una coltre di ignobile disinformazione e superficialità danno tutta la colpa al Putin di turno

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