
Di Davide Gionco
Dopo alcuni decenni di tregua, siamo tornati a fare i conti con l’inflazione.
Come tutti i fenomeni monetari, i sistemi di formazione e di
informazione fanno di tutto per spiegarlo in modo falso al popolo che
subisce gli aumenti dei prezzi.
Già il nome è un inganno. “Inflazione” deriva dall’inglese inflation, che a sua volta deriva dal latino in-flare, che significa “soffiare dentro”. Quindi già il nome dà per scontato che si tratti di qualcosa che ha a che fare con il fatto di “soffiare del denaro” nell’economia, come se il denaro fosse dell’aria e come se l’economia fosse un contenitore.
In realtà l’inflazione viene misurata rilevando la differenza di
costo di un certo “paniere dei beni e servizi”, assunto come valore
assoluto costante nel tempo, in un certo intervallo di tempo.
Ovvero si assume che il valore del paniere sia costante, inteso come
valore d’uso, e che sia il valore del denaro a cambiare nel tempo.
Se oggi mi occorrono 100 € per acquistare il paniere e dopo un anno mi
occorrono 105 € per acquistare lo stesso paniere, abbiamo un tasso di
inflazione del 5%. Poiché il denaro si è svalutato rispetto al valore
del paniere, dopo un anno mi occorre il 5% di più di denaro per
acquistare lo stesso paniere.
Fino a qui siamo alla definizione statistica. Ma la misura statistica
rileva l’effetto, non le cause. Rileva l’aumento dei prezzi, non la
causa che li ha fatti aumentare.
Attribuire ad una eccessiva quantità di denaro in circolazione l’aumento
dei prezzi è come se volessimo stabilire che fuori piove perché abbiamo
trovato una persona entrata dall’esterno dell’edificio con i vestiti
tutti bagnati.
Quella persona potrebbe essersi bagnata i vestiti per altri motivi, ad
esempio uno scherzo (il classico gavettone), o potrebbe avere indossato
deliberatamente degli abiti bagnati.
E se anche fuori piovesse, avrebbe potuto usare l’ombrello o un impermeabile per non bagnarsi.
Quindi chiamare “inflazione” un rilevamento dell’aumento del prezzo del paniere significa già avere determinato la causa, escludendo tutte le altre possibili. Una volta di più ci troviamo di fronte ad un inganno nella conoscenza dell’economia, diffuso ad arte per impedire alla popolazione di escludere dal proprio immaginario le possibili vere cause degli aumenti dei prezzi, che potrebbero anche non essere legate ad un generico “eccesso di denaro in circolazione”, ma legate a precise responsabilità aventi nome e cognome su cui rivalersi, giuridicamente o politicamente parlando.¨
La falsa narrazione accademica
La maggior parte di coloro che ha ricevuto un minimo di formazione o
di informazione economica ha ricevuto come unica spiegazione del
fenomeno “inflazione” quella legata all’origine etimologica. I prezzi
dei beni di consumo aumentano perché c’è troppo denaro in circolazione.
Troppo denaro ha fatto aumentare la domanda, mettendo troppi soldi
nelle tasche dei consumatori. Ma la produzione di beni è limitata, per
cui un aumento della domanda scatena una sorta di asta al rialzo per
aggiudicarsi i relativamente pochi beni disponibili.
Il ragionamento sembra avere una sua logica. E’ certamente
possibile che si verifichino dei casi del genere. Ma con un minimo di
ragionamento possiamo renderci conto dei macroscopici errori contenuti
in questo ragionamento.
Innanzitutto quando viene immessa in circolazione una maggiore
quantità di denaro non è affatto detto che arrivi automaticamente a
tutti i consumatori, riempiendo le loro tasche.
Anzi, soprattutto negli ultimi anni, le banche centrali hanno creato
moltissimo denaro, ma non possiamo dire, almeno in Italia, che questo
denaro sia arrivato nelle tasche dei consumatori.
Secondo i dati OCSE l’Italia è l’unico paese in Europa in cui i redditi
al netto dell’inflazione sono diminuiti rispetto al 1990. Quindi se la
Banca Centrale Europea ha messo in circolazione troppo denaro tramite il
Quantitative Easing, questo denaro non è certamente andato ad
incrementare i salari degli italiani, quindi il loro potere di acquisto.
La conclusione è che in Italia i prezzi non possono essere aumentati a causa del troppo denaro nelle tasche dei cittadini.
Basta peraltro ricordarci che il denaro non viene solo usato per
pagare gli stipendi, ma viene anche usato come forma di risparmio e per
gli investimenti finanziari.
Se viene messa in circolazione molta moneta, è possibile che questa
finisca sui conti bancari delle persone più ricche o investita in
prodotti finanziari, senza comportare un aumento della domanda di beni e
servizi, quelli che vengono usati per il paniere statistico dell’ISTAT
per il calcolo dell’inflazione. In questo caso potrà aumentare il valore
delle azioni in borsa, potrà aumentare la quotazione dell’oro o del
bitcoin, senza per questo interferire con i prezzi al consumo.
E’ solo il caso di far notare come se una persona che ha uno
stipendio di 1000 euro al mese riceve un aumento di stipendio di 200
euro, molto probabilmente andrà ad aumentare le proprie spese per
vivere, portando ad un aumento della domanda di beni e servizi.
Ma se una persona già benestante, magari con un reddito di 15 mila euro
al mese, percepisce un aumento di stipendio di 200 euro o anche di 3000
euro, questa persona non userà quel reddito aumentato per spendere di
più, ma probabilmente lo userà per incrementare il proprio risparmio o i
propri investimenti.
E se anche la popolazione ricevesse davvero un aumento di stipendio,
portando ad un aumento della domanda, non è affatto vero che la
produzione di beni e servizi è costante e che non può essere aumentata.
Se un panettiere vede aumentare il proprio numero di clienti, prima di
aumentare il prezzo del pane (che porterà all’aumento dell’inflazione),
cercherà di produrre più pane, assumendo dei dipendenti o acquistando un
forno più grande. Se, infatti, aumentasse il prezzo del pane,
rischierebbe di perdere dei clienti, che andrebbero dai concorrenti che
praticano ancora il vecchio prezzo.
Certamente esiste un limite alla capacità produttiva, che non è
infinita, ma fino a che esiste la possibilità di assumere nuovo
personale (compresi gli immigrati dall’estero), di investire in
macchinari più efficienti o di importare più merci dall’estero, un
imprenditore saprà sempre rispondere ad un aumento della domanda con un
aumento della produzione, senza dovere necessariamente aumentare i
prezzi.
La narrativa comune, televisiva, giornalistica e spesso anche accademica sull’inflazione è quindi palesemente falsa.
Potrebbe rivelarsi vera solo in casi molto particolari, nei quali
effettivamente la maggiore quantità di denaro viene equamente
distribuita, portando ad un aumento effettivo della domanda e con un
sistema produttivo che, per una qualche ragione, non ha la possibilità
di aumentare la produzione dei beni richiesti.
I falsi casi storici
Coloro che ritengono di conoscere le cause dell’inflazione citano sempre gli esempi storici della Repubblica di Weimar (Germania 1921-1923) e l’esempio dello Zimbabwe (2000-2009).
Effettivamente nella Repubblica di Weimar si arrivò a stampare
banconote da 20 miliardi di marchi, con prezzi che variavano dalla
mattina al pomeriggio e con gente che girava con le carriole piene di
banconote.
In Zimbabwe si è persino arrivati a stampare banconote da un trilione di dollari ovvero 100 mila miliardi di dollari.
Casi simili sono stati riscontrati in Argentina e Venezuela.
In tutti questi casi vi è effettivamente stato un problema di
rapporto fra domanda e offerta, strutturale, che ha portato all’aumento
incontrollato dei prezzi.
Ma il fenomeno non è mai stato innescato dalla messa in circolazione di folli quantità di denaro.
E’ avvenuto piuttosto il contrario.
Si è ridotta la disponibilità di beni di primo consumo per ragioni
strutturali. La gente non poteva ridurre la domanda, trattandosi di beni
di prima necessità, quindi la signora Bauer (la casalinga di Voghera
tedesca) andava comunque ad acquistare il pane. Il panettiere, di fronte
alla richiesta di 100 kg di pane al giorno, ma disponendo solo di 80 kg
al giorno, aumentava il prezzo del pane. Anche perché gli era già
aumentato il prezzo della farina.
Inevitabilmente qualche signora Bauer restava senza pane, per cui il
giorno dopo., presa dalla fame, proponeva al panettiere di pagarlo
ancora di più, pur di mangiare.
Dovendo far fronte a prezzi più alti, tutti chiedevano aumenti di stipendi.
Per pagare più stipendi serviva ovviamente più denaro, che veniva quindi
richiesto alle banche, che lo emettevano facendo credito ed alla banca
centrale, che stampava più banconote.
Ma, siccome in panetteria continuavano a mancare 20 kg di pane al
giorno, i prezzi continuavano ad aumentare, in modo strutturale,
portando alla nuova stampa di denaro, in una spirale crescente senza
fine, in cui il denaro alla fine non valeva più nulla.
La causa di tutto questo non era la stampa del denaro, ma la mancanza
di pane (e di grano, di carbone per scaldarsi, di verdure, ecc.).
Nel caso della Germania la causa strutturale era che la Germania era
obbligata ad esportare una parte importante della produzione interna per
saldare i debiti di guerra (Trattato di Versailles del 1919), per cui
la produzione interna era insufficiente a soddisfare la domanda, anche
se tutti i tedeschi lavoravano per produrre. E non era possibile
aumentare la produzione interna in tempi brevi, tramite investimenti, a
causa dei vincoli imposti dalle sanzioni di guerra.
L’aumento dei prezzi era quindi inevitabile e non causato dall’eccesso
di denaro in circolazione (che era una conseguenza). Non a caso
l’iperinflazione di Weimar ebbe fine quando furono mitigate le sanzioni
di guerra da parte di Francia e Inghilterra.
Nel caso dello Zimbabwe la causa scatenante fu l’esproprio delle
terre agricole dei latifondisti bianchi da parte del dittatore Mugabe.
Le terre furono affidate a persone incapaci di organizzare la produzione
agricola, da cui la conseguente carenza di beni di prima necessità nel
paese e l’aumento dei loro prezzi.
Nei casi di Argentina e Venezuela le cause dell’inflazione fuori
controllo sono sempre state legate a gravi carenze della produzione
interne ed a rapporti commerciali squilibrati (nel caso del Venezuela a
causa del boicottaggio USA) con i paesi esteri.
Ogni volta che questi casi vengono citati come esempi per dimostrare
che la stampa eccessiva di denaro sia sempre la causa scatenante
dell’aumento incontrollato dei prezzi, si dà una narrativa falsa del
fenomeno, essendo le cause tecniche ben altre.
La domanda è: ma perché insistere tanto con questa falsa narrativa?
La falsa narrativa e i creatori del denaro
La risposta è che questa falsa narrativa serve a giustificare l’affidamento della responsabilità di quanto denaro creare a degli “esperti”, facendo intendere che il potere politico, ogni volta che ha avuto la possibilità di decidere quanto denaro creare, ha fatto disastri ed ha portato all’iperinflazione. Quindi è molto meglio se della creazione del denaro se ne occupano le banche centrali, che sono rette da “economisti competenti e responsabili”. Tuttavia in questo articolo non intendiamo occuparci del perché sia sbagliato affidare alle banche centrali, come oggi funzionano, la creazione del denaro, ma solo della falsa narrativa sull’inflazione.
Una seconda ragione per cui questa falsa narrativa viene divulgata è
che questa falsa risposta accontenta la popolazione, da sempre abituata
ad addossare ai politici, e non al mondo della speculazione finanziaria,
le cause di tutti i problemi economici.
La popolazione alle prossime elezioni voterà contro gli attuali partiti al governo oppure non andrà a votare per protesta.
Nel mentre non si preoccuperà di conoscere le reali cause degli aumenti dei prezzi e di agire di conseguenza.
Le vere cause dell’inflazione
Una volta rimossa dalla mente la falsa narrativa, possiamo dedicarci ad indagare le vere cause dell’inflazione.
La prima cosa da evidenziare che non serva una laurea in economia per
capirle. Serve solo ragionare sulle voci che vanno a determinare il
costo di una merce o di un servizio.
Se il prezzo del pane sale da 3 €/kg a 4 €/kg, con un aumento del 33%, quali potrebbero essere le cause?
Proviamo ad elencarne alcune:
- Il panettiere ha deciso di guadagnare di più
- Sono aumentate le tasse
- E’ aumentato il tasso di interesse sui crediti bancari
- E’ aumentato l’affitto della panetteria
- E’ aumentato il prezzo della farina
- E’ aumentato il prezzo dell’energia (che alimenta il forno)
L’unica causa che potrebbe essere legata a fenomeni monetari è la “a”, ma come abbiamo visto sopra è piuttosto improbabile, soprattutto oggi in Italia. Non ci risulta che vi siano molti panettieri che ultimamente viaggiano in Ferrari, dopo avere aumentato il prezzo del pane.
In Italia le tasse sono altissime e certamente l’aumento delle tasse
può portare ad aumenti dei prezzi. Lo Stato è monopolista nella
tassazione ed ha il potere coercitivo di imporne il pagamento.
Tuttavia non possiamo dire che nell’ultimo anno gli aumenti di tasse
tali da portare al 33% di aumento del prezzo di vendita del pane.
Anche il costo del denaro, del credito bancario, è una variabile importante nella determinazione dei prezzi finali di vendita, ma non possiamo dire che negli ultimi mesi i tassi di interesse bancari siano aumentati a tal punto. Casomai ci sarà da vedere quali saranno le conseguenze per i consumatori dell’aumento del tasso di sconto deciso dalla BCE.
In alcuni casi l’aumento degli affitti può effettivamente portare ad aumenti dei prezzi di vendita, soprattutto in luoghi di pregio. Per questo, ad esempio, il pane costa più caro al centro di Milano che in periferia di Enna. Non si tratta di un fenomeno monetario, ma delle conseguenze di una situazione di oligopolio, in quanto i proprietari di immobili nel centro di Milano posso creare una sorta di cartello, per cui tutti aumentano gli affitti e chiunque voglia aprire una panetteria in centro a Milano dovrà adeguarsi alla situazione. Sanno di poterlo fare, perché non hanno concorrenza.
Un altro esempio classico di cartello è quello delle società che hanno in gestione le autostrade in Italia, le quali possono unilateralmente imporre aumenti tariffari, avendo come unico freno il debole contraltare del governo di turno (abbiamo visto cosa è successo con il ponte di Genova).
Gli aumenti delle materie prime ed il ruolo della finanza
E’ noto che sono aumentati notevolmente i prezzi della farina.
Il prezzo della farina dipende, a sua volta, dal prezzo del grano, ma
anche dal costo dell’energia che viene utilizzata per lavorare i cereali
e dei carburanti che alimentano le navi ed i camion che prima
trasportano il grano dai luoghi di produzione al mulino e poi la farina
lavorata dal mulino alla panetteria.
Quindi è certamente rilevante l’aumento di prezzi dell’energia, che si
tratti di energia elettrica, gas o petrolio, sia nella produzione della
farina, sia nella produzione finale di pane.
E i prezzi dell’energia, perché sono aumentati?
Su tv e giornali ci dicono che è a causa della guerra. In realtà, almeno
per il momento, la quantità di energia che ci arriva è sempre la stessa
di prima. La produzione di petrolio è adeguata alla domanda, cosi come
la produzione di gas.
Se nei prossimi mesi le sanzioni alla Russia porteranno effettivamente
alla riduzione della quantità di energia disponibile, si rischia di
innescare una spirale di iper-inflazione simile a quella della
Repubblica di Weimar, perché dell’energia non possiamo fare a meno. Se
c’è meno energia di quella necessaria, ci sarà una corsa inarrestabile
al rialzo dei prezzi, fino a che qualcuno dovrà rinunciare, a causa del
costo eccessivo, ad usare l’energia. Quindi avremo persone che
passeranno il prossimo inverno al freddo e fabbriche che chiuderanno.
Per il momento, però, non siamo ancora in questa situazione.
Non esiste la “libera concorrenza” fra i molti produttori e i molti
consumatori finali che determina i prezzi, perché per portare l’energia o
i cereali o le materie prime dai produttori ai consumatori finali ci
sono dei passaggi intermedi: l’acquisto all’ingrosso delle materie
prime, la vendita all’ingrosso delle materie prime, la negoziazione dei
prezzi fra venditori e distributori all’ingrosso ed il trasporto dai
luoghi di produzione ai luoghi di distribuzione.
In ciascuno di questi passaggi si possono creare le condizioni per degli
aumenti, anche molto rilevanti, dei prezzi, soprattutto quando pochi
soggetti costituiscono un cartello, esattamente come avviene per
l’affitto degli immobili al centro di Milano.
Chi produce cereali li deve necessariamente vendere alle poche
centrali di acquisto, le quali hanno il potere contrattuale di pagare il
meno possibile i produttori, ma di applicare alti ricarichi, non
esistendo concorrenti. Per comprenderci: in Francia le centrali di
acquisto per le materie prime agricole sono solo 3 aziende.
A quel punto il grossista che ha acquistato i cereali si reca in borsa,
dove la domanda dei grossisti della distribuzione incontra quella dei
grossisti della produzione.
L’andamento delle contrattazioni è complicato dal fatto che non vengono
solo scambiate quote reali di cereali (o di petrolio o di gas naturale, è
la stessa cosa), ma vengono anche scambiate quote virtuali ovvero dei
“diritti di acquisto” della materia prima. In questo modo la domanda e
l’offerta in borsa non sono più vincolate alla disponibilità reale di
cereali ed alla domanda reale di cereali, ma variano anche in funzione
delle spinte speculative degli investitori finanziari, che oggi decidono
di raddoppiare la domanda di cereali, facendo salire alle stelle i
prezzi, senza essere realmente vincolati ad acquistare dei quantitativi
di cereali. La domanda, infatti, riguarda i diritti di acquisto di
cereali, che salgano di prezzo, per poi essere rivenduti il giorno dopo
al miglior offerente.
Il problema è che questi prezzi virtuali relative a quote virtuali di
materie prime vengano applicati anche alle materie prime reali ovvero ai
cereali (o al petrolio o al gas naturale) che qualche grossista
acquista realmente, per poi distribuirli agli utilizzatori finali, che
sono i mulini.
Quindi oltre ai ricarichi aggiunti unilateralmente, in assenza di
concorrenza, dalle poche centrali di acquisto e di distribuzione, si
aggiungono i ricarichi generati dalle dinamiche della speculazione
finanziaria in borsa.
Per questo motivo accade che del grano, che viene pagato una miseria ai
produttori, arrivi a costare carissimo quando arriva al mulino per
essere trasformato in farina, causando a catena anche l’aumento del
pane, senza che, in realtà, nessuno dei piccoli operatori reali (chi
produce il grano, chi lo macina e chi usa la farina) abbia avuto alcun
ricarico di prezzo.
Ovviamente tutto questo potrebbe essere evitato con opportune
regolamentazioni e controlli oppure se fosse lo stato, tramite società
monopoliste, ma a controllo pubblico, a fare da centrale di acquisto e
di distribuzione, stabilendo dei prezzi equi, soddisfacenti sia per i
produttori che per gli acquirenti finali.
Potrebbe essere evitato, ma non avviene, perché ci troviamo in un mondo
in cui il neoliberismo regna sovrano e si impone sul potere politico.
Il cartello dei trasporti marittimi
Negli ultimi mesi si è aggiunta una nuova voce sulle cause dei rincari, che è legata ai trasporti.
Non al costo dei trasporti, ma alla creazione di un cartello dei trasporti marittimi.
Per anni i governi occidentali sono stati spinti a liberalizzare il
mercato mondiale, a chiudere le fabbriche in USA e Europa e ad aprire
nell’Est asiatico, dove la manodopera costava di meno. Questo ha
riguardato soprattutto la produzione di semilavorati, quali sono
l’acciaio, l’alluminio, ma anche i cheap per i computer e
componentistica varia.
Ora che USA ed Europa non dispongono più di fabbriche per la produzione
di queste “merci intermedie”, alcuni potenti soggetti del mondo della
finanza hanno pensato bene di limitare i trasporti marittimi, in modo da
rendere scarsa negli USA e in Europa la disponibilità di semilavorati.
Difficilmente una azienda, anche grande, sarà in grado di acquistare
delle navi per trasportare merci da Shangai a Rotterdam. Chi ha preso il
controllo di buona parte dei trasporti marittimi lo sa bene. Per questo
motivo da alcuni mesi le merci dalla Cina arrivano sempre in quantità
ridotte, con lunghi tempi di consegna e prezzi aumentati a dismisura.
Prendere o lasciare. Il cartello dei trasporti marittimi ha ricaricato la sua parte.
Francamente non mi stupirei di scoprire che fra le cause del conflitto in Ucraina vi sia anche stata la volontà di interrompere le filiere di approvvigionamento di materie prime via terra dalla Russia all’Europa, per massimizzare i guadagni dal cartello imposto sui trasporti marittimi fra Est asiatico e paesi occidentali.
Chi sono i responsabili?
I responsabili di tutti questi ricarichi di prezzi, che stanno
portando l’inflazione a livelli mai visti da oltre 30 anni, sono
naturalmente delle imprese che, legittimamente (perché le leggi
consentono questo) operano come grossisti negli acquisti o nella
distribuzione, operano come intermediari in borsa o partecipano al
cartello dei trasporti marittimi.
Potremmo dedicare alcune ore a cercare nomi e cognomi si queste imprese,
ma si tratta sempre di società per azioni, il cui pacchetto azionario
di maggioranza è controllato dalle stesse corporations chiamate
BlackRock, Vanguard, State Street Control, tanto per citare le
principali.
Queste corporations operano per garantire le rendite dei fondi di
investimento, provenienti da tutto il mondo: fondi pensioni, prodotti
finanziari venduti dalle banche, gestione finanziaria di patrimoni, ecc.
Il mandato unico di queste corporations è di garantire rendite le maggiori possibili agli investitori. Costi quel che costi.
La creazione di posizioni di oligopolio o di monopolio nei mercati è uno
dei modi migliori per assicurare tali rendite, obbligando tutti quelli
che stanno a valle della filiera a pagare profumatamente i servizi al
monopolista. E’ lo stesso principio delle bottigliette d’acqua da mezzo
litro vendute a 10 euro l’una, in mezzo al deserto. Prendere o lasciare.
Quello che per noi consumatori finali è un aumento dei prezzi, per loro
sono maggiori guadagni, da redistribuire agli investitori, oltre ai
copiosi premi produzione ai loro manager.
Queste rendite oligopoliste sono attualmente la principale ragione degli aumenti dei prezzi. Coloro che conseguono tali rendite faranno ovviamente oculati investimenti di manipolazione degli organi di stampa, in modo che la gente venga a conoscere il meno possibile chi sono i reali responsabili degli aumenti dei prezzi.
Quali soluzioni nel breve termine?
Se il potere politico intende realmente rispettare la Costituzione, deve immediatamente intervenire per difendere il potere d’acquisto dei cittadini, per evitare che precipitino nella povertà a causa degli aumenti dei prezzi.
Tuttavia, finché permangono le cause strutturali dell’esistenza di
oligopoli nelle filiere di approvvigionamento, l’unica cosa che il
potere politico può fare, nel breve termine, è introdurre dei meccanismi
automatici di adeguamento dei salari, per difendere il tenore di vita
dei consumatori.
In quale modo?
Aumentando i salari netti dei dipendenti pubblici, adeguando
unilateralmente al tasso di inflazione i contratti in essere con i
fornitori del settore pubblico.
Per quanto riguarda il settore privato, il modo più rapido di
intervenire è abbattere il carico fiscale, sia quello sui redditi da
lavoro, sia quello sugli acquisti (IVA).
Con quali soldi?
Se disponessimo di una banca centrale pubblica, i soldi basterebbe
stamparli o scriverli sui computer, come fanno quotidianamente le banche
quando creano denaro.
Ma siccome l’Italia ha aderito all’euro, che avrebbe dovuto difendere i
nostri salari dall’inflazione e non lo fa, abbiamo deciso di non
possedere più una banca centrale.
Tuttavia abbiamo mantenuto il potere di emettere dei titoli di stato.
Un titolo di stato del valore nominale di 1000 euro, vale sul mercato 1000 euro (più gli interessi).
A quel punto sarà sufficiente emettere titoli di stato elettronici, con
una piattaforma pubblica di scambio per i pagamenti, e gli italiani
potranno senza problemi regolare gli scambi fra loro usando i titoli di
stato al posto degli euro.
Questa sorta di valuta parallela pubblica potrebbe essere usata per
finanziare una parte della spesa pubblica, nonostante la riduzione delle
entrate fiscali causata dalle misure anti-inflazione.
Sarebbe consentito dai trattati europei?
La mia risposta è che certamente i burocrati di Bruxelles
contesterebbero la misura, dato che agiscono unicamente negli interessi
degli investitori finanziari internazionali. Ma sarebbe sufficiente
rimandare le contestazioni al mittente, dato che noi abbiamo la priorità
di salvare gli italiani dall’impoverimento, non di tutelare i guadagni
degli investitori finanziari.
Mi auguro che a questo punto non arrivi l’esperto di turno a dire che stampando questo “nuovo denaro” andremmo ad aumentare ulteriormente l’inflazione, perché abbiamo dedicato tutto l’articolo a spiegare che l’attuale inflazione dipende da altre cause. Si tratterà semplicemente di non mettere in circolazione titoli di stato per i pagamenti in modo esagerato.
Quali soluzioni nel medio-lungo termine?
Una volta adottate le misure di emergenza per difendere il potere di
acquisto dei cittadini e per salvare le nostre imprese, si dovrebbe
passare alle misure strutturali.
Queste misure dovrebbero consistere nel porre fine, per quando possibile, alle situazioni di oligopolio.
In certi casi si potrebbe intervenire obbligando le società
oligopoliste, se hanno sede legale in Italia, a dividersi in società più
piccole, in modo che ci sia di nuovo concorrenza, eventualmente
mantenendo una partecipazione maggioritaria pubblica di controllo sulle
loro quote azionare, per evitare che si ripropongano decisioni che
mirano a realizzare degli oligopoli.
In altri casi di monopolio naturale, sarebbe bene che gli attuali
operatori oligopolisti venissero acquisiti dallo Stato, per poi creare
una società pubblica che gestisca quel monopolio secondo gli interessi
di tutti.
Nei casi in cui i rincari dipendano da oligopoli sulle filiere di
approvvigionamento internazionali, le società pubbliche dovrebbero agire
cercando, per quanto possibile, di spuntare condizioni contrattuali
migliori.
Ad esempio l’ENI rinazionalizzata (oggi lo è solo in parte) potrebbe
andare direttamente dai produttori di petrolio o di gas per stipulare
contratti a lungo termine e a prezzi garantiti, mettendo sul piatto
della negoziazione il potere contrattuale di un paesi di 60 milioni di
abitanti industrializzato. In questo modo sarà possibile evitare i
ricarichi imposti dalle contrattazioni nelle borse dell’energia.
Per quanto riguarda i trasporti marittimi, si potrebbe costituire una
compagnia di trasporti marittimi pubblica, che svolga i servizi di
trasporto merci dall’Est asiatico all’Italia, a servizio delle imprese
italiane, a tariffe congrue e non gonfiate. Qualcosa che le singole
imprese, nemmeno quelle gradi come Fiat, sarebbero in grado di
organizzare.
Oltre a questo si potrebbero riattivare le produzioni interne di semilavorati, di acciaio, di chip informatici, celle fotovoltaiche e quant’altro necessario, a servizio delle imprese italiane. Ovviamente non sarà così semplice in tutti i settori, ma sarà possibile ridurre al minimo i fattori che oggi causano i rincari nei prezzi a carico dei consumatori.
Mentre stiamo assistendo alla fine del ciclo storico del neoliberismo, del dominio della finanza e del dollaro, è ora di attrezzarci per ritornare al modello dell’economia mista che tanto bene aveva fatto al nostro paese negli anni 1960-1980.
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