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Il lavoro si è rotto. L’unico modo per salvarlo? Separarlo dal reddito

Il lavoro si è rotto. L’unico modo per salvarlo? Separarlo dal reddito

E così è di nuovo il primo maggio. Un’altra festa dei lavoratori in cui, ancora una volta, si dibatterà di retribuzioni e di sicurezza sul lavoro; di lavoro precario e di investimenti sulle competenze; di sindacato e di impresa. Anzi no. Perché il primo maggio oggi è perlopiù un pretesto: un momento in cui alcuni slogan vengono ripetuti, alcune parti sociali espletano i propri riti, e poi si può passare ad altro. Perché il lavoro oramai si è ridotto ad essere quella cosa che interessa tutti ma non attrae nessuno; che tanti vogliono e pochi desiderano; che tutti devono ma in fondo quasi nessuno vuole davvero fare.

Già questo costituisce un grosso campanello d’allarme, e dovrebbe dirci che il nostro concetto, la nostra definizione e la nostra prassi di lavoro, ha più di qualche problema. Ma le crepe oramai sono ben più evidenti di così, e dal cuore sono risalite in superficie. Non è solo che, se ci fermiamo a pensarci, non sappiamo di cosa parliamo quando parliamo di lavoro; è proprio che esso non mantiene più le sue premesse e promesse. Non è più credibile; non “funziona” più. E lo si vede molto bene nelle due narrazioni imperanti e opposte che oggi si sentono a riguardo: da una parte il “lavoro che non paga”, e dall’altra le persone “che non vogliono lavorare”.

La risposta infatti più “popolare” alla domanda «A cosa serve il lavoro?» si compone di due parti: «A permettere alla gente di mangiare» e «A far crescere l’economia». Due compiti basilari, speculari alle due parti del mercato capitalistico, ma che il lavoro fa sempre più fatica ad assolvere – e la gente se ne sta sempre più rendendo conto. Chi entra nel mercato del lavoro, specie se per la prima volta, fa sempre più difficoltà a ottenere un reddito che gli consenta di vivere autonomamente. Dall’altra parte, a causa della concorrenza globale, della crescente automazione, dell’imprevedibilità dei mercati, sempre più le aziende faticano a creare vero valore aggiunto; una vera crescita economica – senza nemmeno scomodare quella sociale.

A ben guardare gli ultimi 15-20 anni hanno rappresentato un continuo tentativo da parte dei governi occidentali di piazzare toppe sempre più evidenti alle crepe del capitalismo. A partire dal mercato del lavoro, spendendo svariati miliardi da una parte per formare le persone alle arrembanti nuove tecnologie e tendenze, dall’altra varando incentivi in favore delle aziende perché assumessero, si rinnovassero, investissero a loro volta. I risultati sono lì da guardare: più passano gli anni e più il divario tra la preparazione dei lavoratori e i desiderata delle aziende si allarga, mentre diventa sempre più evidente che incentivi e sgravi statali – pur se talora efficaci nel breve – non riescono a innescare una vera crescita economica e produttiva di lungo termine.

Non vedendo però alternative e talora travolti da crisi impreviste, gli Stati occidentali hanno sostenuto cittadini e aziende in maniera sempre più massiccia. Negli ultimi anni in Italia, tra reddito di cittadinanza, cassa integrazione, bonus e incentivi vari, lo Stato ha aumentato enormemente il suo intervento nell’economia. E ora si pensa a un ulteriore scostamento di bilancio per sostenere i consumi, limitare gli effetti di inflazione e guerra, tagliare il cuneo fiscale. Un ulteriore intervento che andrà ad alimentare un debito mostruoso, che non si sa bene chi, quando e soprattutto come sarà ripagato in futuro.

Questi interventi appaiono di volta in volta irrinunciabili per affrontare le crisi cogenti, ma in fondo sono solo dei palliativi. Perché il problema è più profondo; strutturale. La verità è che da una parte formare le persone solo sulla promessa di un futuro stipendio non funziona, soprattutto se per competenze specialistiche; dall’altra, i margini per le aziende sono sempre più ridotti, e oggi l’unico vero spazio che tante di loro hanno per tagliare i costi e rimanere competitive è il lavoro. Insomma, l’aspetto “vocazionale” nel lavoro è oramai ineludibile (non si può fare bene un lavoro qualificato a lungo per il solo reddito) e l’impatto di globalizzazione e automazione rendono sempre meno redditizia l’attività imprenditoriale.

Negli ultimi anni mentre gli Stati cercavano di salvare il capitalismo questo cercava anche di salvare sé stesso. Da una parte generando e alimentando culture come quella della start-up o dello smart-working, cioè modelli che incentivano i lavoratori a farsi imprenditori; dall’altra spingendo sempre di più sulla finanziarizzazione delle imprese, cioè invitandole a concentrarsi più sulla raccolta di capitali che sulla creazione di utili. Ma anche queste “soluzioni” si stanno rivelando molto limitante, essendosi oramai incarnate in derive parossistiche come il play-to-earn o la totale dominanza delle logiche finanziare su quelle economiche in molte aziende di punta.

Forse dovremmo realizzare che il capitalismo oggi è come una vecchia auto: ha fatto tanta strada, portato anche grandi risultati, ma oramai funziona a malapena e consuma uno sproposito. Non la si abbandona solo perché qualcuno le si è (anche comprensibilmente) molto affezionato e non si vedono (o non si vogliono vedere) alternative. Si può quindi continuare a usarla spendendo un capitale dal meccanico (per esempio introducendo il salario minimo o il reddito di formazione) per poi un giorno non troppo lontano trovarsi a piedi magari in mezzo ai boschi, oppure si può fare un atto di realtà e cambiare.

Oggi lo stato italiano spende circa 700 miliardi di euro l’anno, di cui circa 650 in welfare. Di questi ultimi, più della metà sono impiegati nella previdenza (pensioni) e un quinto in politiche sociali (sostegni al reddito) per un totale di circa 435 miliardi. Inoltre, lo Stato spende quasi 140 miliardi l’anno di investimenti, di cui circa 50 tra contributi e trasferimenti vanno direttamente alle imprese. In Italia ci sono circa 25,7 milioni di famiglie, di cui un terzo costitute da un solo componente, e una media di 2,3 persone per famiglia. Quanto costerebbe dare loro una media di 1.500 euro a testa al mese? 462,6 miliardi l’anno.

Quindi, se semplicemente prendessimo quello che spendiamo oggi in pensioni, politiche sociali e incentivi alle imprese e dessimo ad ogni famiglia 1.500 euro al mese, lo Stato risparmierebbe. Già oggi, ma ancora di più in futuro, dal momento che la popolazione sta inesorabilmente invecchiando. E senza andare a toccare nessuna voce di spesa fondamentale di welfare: come la sanità, i trasporti, l’istruzione, l’ordine pubblico. Sarebbe quello che viene chiamato un reddito base universale: un’idea che da decenni è teorizzata, discussa e sperimentata in tutto il mondo, e che prevede “semplicemente” di dare a tutti i cittadini una certa somma di denaro sufficiente a condurre una vita dignitosa, a prescindere dal censo o dalla situazione occupazionale.

Si penserà che se ci fosse un reddito base universale nessuno vorrà più lavorare, restando a casa a godersi consumi improduttivi come bere, guardare la tv e giocare ai videogiochi. È vero semmai il contrario: sono moltissimi oramai gli studi e gli esperimenti sul campo che dimostrano che quella del “sussidiato pigro” è una leggenda, e lo è tanto più quando il sussidio è incondizionato. Se infatti è percepito svincolato da requisiti o azioni, viene molto più onorato perché si svuota della sua accezione sociale colpevolizzante e negativa, oltre a non essere soggetto a quella che viene chiamata la “trappola della povertà”.

Con un reddito base universale le persone quindi non smetterebbero di lavorare: anzi, si dedicherebbero ad attività per cui sentono maggiore spinta e vocazione, portando un maggior valore aggiunto nel lungo periodo. Certo, alcuni lasceranno il proprio lavoro, ma sarà un bene più che un male: si farà pulizia di tanto lavoro a scarsa o nulla produttività, creato nel tempo per ragioni sociali e politiche e che molte (forse moltissime) persone mantengono solo per paura di perdere il reddito. E, ovviamente, tutto il lavoro sfruttato e sottopagato sparirebbe.

Non solo: con un reddito base sostanzialmente si eliminerebbe la povertà, e quindi la devianza diminuirebbe sensibilmente, colpendo duramente la criminalità organizzata; le persone si curerebbero meglio e prima, e investirebbero di più nella loro formazione o nell’apertura di attività in proprio. Infine, diminuirebbe anche moltissimo consumismo “consolatorio”: quelle spese effimere e spesso pure deleterie (come l’alcol, il fumo, il gioco d’azzardo) che le persone spesso fanno per trovare distrazione da una vita deludente, magari proprio a causa di un lavoro frustrante, sfruttato o poco riconosciuto. Sarebbe invece nobilitato tutto quel lavoro di cura e di cultura che oggi viene svolto da milioni di persone ma che spesso viene snobbato o considerato sub-lavoro – e di cui oggi e ancora di più domani avremo un disperato bisogno.

A regime quindi il reddito di base universale comporterebbe non solo un enorme risparmio per lo Stato in termini di spesa sanitaria, ordine pubblico, istruzione, ma potrebbe anche far fare un balzo in avanti all'economia. Secondo uno studio, se fosse introdotto negli Stati Uniti il PIL aumenterebbe addirittura del 12%! Questo anche perché costituirebbe un enorme aiuto alle aziende, che potrebbero tagliare di molto il costo delle risorse umane, per magari investirlo in ricerca, sicurezza e innovazione. Il salario andrebbe infatti a sommarsi al reddito base, mantenendosi quindi come un incentivo e preservando tutte le logiche di mercato, ma introducendo una formidabile base di equità. E magari anche premiando una produzione più sana, più sostenibile, e non massificata e massificante.

Il reddito base universale quindi non sarebbe una negazione del capitalismo, quanto piuttosto una sua evoluzione “gentile”; meno feroce e competitiva e più equa e generativa. Dopotutto va ricordato che la funzione fondamentale dell’economia non è aumentare la ricchezza e la produzione, ma preservare il patto sociale. In passato le due cose coincidevano, perché il lavoro riusciva appena a produrre risorse sufficienti al sostentamento della popolazione, e se la popolazione non mangiava il patto sociale non reggeva. Ma oggi il lavoro è enormemente più produttivo. Creiamo già più che sufficiente ricchezza per poter coprire i bisogni di base di tutti, se la distribuissimo appena un po’ più equamente.

Non è quindi questione di scegliere la soluzione del reddito base universale, ma di non ritardare troppo il suo arrivo. Le questioni demografiche e ambientali imporranno prima o poi la sua adozione. Gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione quindi non sono tanto economici, quanto culturali e politici. Va anzitutto abbandonata quella concezione per cui il lavoro è una commodity e un mezzo di sussistenza; un dovere spiacevole per poter accedere a un minimo sostentamento e rispetto sociale. Dovremmo quindi svincolare il lavoro dalla sua funzione più evidente e basilare per invece nobilitare le altre due sue funzioni fondamentali: quelle della costruzione identitaria sociale e della auto-realizzazione e trascendenza. Insomma, dargli un nuovo senso.

E poi sì, dovremmo anche vincere le resistenze politiche e giudiziarie di chi si opporrà per difendere le proprie rendite; i propri diritti acquisiti. Ma d’altronde siamo in una democrazia, no? Se una maggioranza si esprime chiaramente per una soluzione, questa dovrebbe essere adottata. La raccolta di firme europea in questo momento in corso per l’istituzione di redditi di base in tutta l’Unione – e che negli ultimi giorni in Italia sta vedendo un’impennata di sottoscrizioni – potrebbe essere il primo consistente passo in questa direzione.

 

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