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Vi spiego la vergogna del pareggio di bilancio in Costituzione

Nel lontano 2012, sotto il Governo Monti, il Parlamento approva una delle riforme costituzionali – dopo quella del 2001 – più vergognose della storia repubblicana: il pareggio di bilancio (ne parlai di già all’epoca, sul mio vecchio blog). Se infatti la riforma del 2001 introduce il vincolo dell’ordinamento comunitario, sicché una legge nazionale che si ponga in contrasto con una legge europea deve essere disapplicata (o meglio: non applicata) in favore della norma europea, con la riforma del 2012, viene introdotto il pareggio di bilancio (rectius: equilibrio di bilancio), e cioè l’obbligo dello Stato di pareggiare le entrate e le uscite.
Vero è che l’obbligo inserito nel nuovo testo dell’art. 81 Cost. lascia aperta l’ipotesi di un «ricorso all’indebitamento … consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali», ma è pure vero che tale ricorso è comunque residuale, in quanto deve essere adottato con una procedura aggravata e solo al verificarsi di eventi (davvero) eccezionali.

Un colpo al cerchio (molto forte) e uno alla botte (piuttosto debole). La norma – che, ricordo, passò sostanzialmente sotto silenzio e sulla quale non vi fu alcun dibattito pubblico – rappresenta una delle imposizioni più smaccate dell’Unione Europea all’Italia, a seguito della crisi sul debito pubblico del 2011, di cui vi ho già raccontato la storia; questa è infatti figlia del scellerato accordo sul “Fiscal Compact” (o Patto di Bilancio Europeo), siglato dall’Italia e dagli altri paesi dell’eurozona nel marzo del 2012, il quale – tra le polpette avvelenate che dispensa – sancisce definitivamente l’obbligo del rapporto Debito/PIL al 60% e il divieto di operare in deficit oltre lo 0,5% del PIL. Come disse Cameron – che di lì a qualche anno avrebbe portato la Gran Bretagna fuori dalla UE – il “Fiscal Compact” è vietare Keynes per legge.

Ecco dunque la ragione profonda del pareggio di bilancio in Costituzione: strozzarsi costituzionalmente con i parametri di Maastricht. Una norma politicamente suicida, ma che ha una sua razionalità nell’ideologia neoliberista (v. qui e qui); una razionalità che se da una  parte certifica pienamente la cessione di sovranità all’Unione Europea, dall’altra – tramite questa cessione – intende sconfessare in pieno il modello economico costituzionale, che, chiaramente, va nella direzione opposta e non prevede certo il pareggio di bilancio; roba folle da Stato liberale ottocentesco.

Eppure, all’epoca in cui questa insana proposta venne fatta in USA (2010), l’amministrazione Obama decise di rispedirla al mittente, ma solo perché molti autorevoli economisti fecero sentire la loro voce. E questa voce fu chiara e cristallina: il pareggio di bilancio avrebbe avuto effetti perversi su una eventuale recessione; oppure, perché il pareggio avrebbe portato a manovre contabili dubbie, come le privatizzazioni e la svendita degli assets pubblici (vi ricorda qualcosa?); o infine, perché anche durante le fasi espansive, il vincolo di bilancio avrebbe potuto danneggiare la crescita economica perché l’aumento dei rendimenti derivanti da investimenti, anche quelli interamente pagati con entrate aggiuntive, sarebbe considerati incostituzionali, se non compensati da altre riduzioni di spesa.

Evidentemente i nostri politici, ansiosi di compiacere l’Unione Europea controllata dalle élite capitalistiche, ignorarono le ragioni degli economisti americani che indussero l’allora amministrazione USA a rigettare la proposta. E quello che ne è derivato è una pericolosa catena a cui siamo legati mani e piedi ancora oggi. Spezziamola, prima che sia troppo tardi.

 

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