I nuovi sbarchi di migranti hanno riacceso la solita polemica sulla genuinità delle intenzioni delle Ong e delle associazioni del terzo settore che si occupano di beneficienza e soccorso alle persone in difficoltà, che nel caso dei migranti sarebbero finalizzate al guadagno e al fare guadagnare chi sul territorio italiano con l’accoglienza ci vive.
Io rispondo: certo. Dal momento che si sceglie di lasciare un campo di intervento FONDAMENTALE per i valori della nostra società a degli enti privati, c’è poco da lamentarsi per il fatto che essi non lo facciano per genuini valori umanitari.
La campagna da fare (ma che non si fa) sarebbe di internalizzare nel pubblico tutti questi servizi in modo da espellere lo scopo del profitto dal campo e manovrare tali organizzazioni a seconda delle scelte morali e politiche della collettività.
Tuttavia, spesso tale polemica non centra neanche i temi più gravidi di contraddizioni. Uno di essi è il funzionamento interno delle Onlus che raccolgono soldi per beneficenza e, spesso, appaltano la raccolta di tali fondi ad agenzie private che funzionano come vere e proprie società strutturate in maniera verticistica e piramidale, con una prassi tossica e competitiva ai livelli del peggior capitalismo schiavistico, a prescindere dal fatto che siano formalmente senza scopo di lucro (il che non significa che non ci sia una retribuzione per chi ne fa parte) o società vere e proprie.
Un lavoro di osservazione molto interessante in tal senso lo si può trovare nella tesi di laurea di Zoe Vicentini, “Lavorare per beneficenza. Un'etnografia della precarietà tra i dialogatori umanitari”, nella quale l’autrice analizza la sua esperienza con una di queste agenzie e descrive, anche attraverso interviste, le condizioni di lavoro e sfruttamento dei lavoratori.
Essi, infatti, sono assunti tramite un contratto da autonomo, anche se di fatto hanno regole e orari rigidi da seguire, spinti a lavorare per “costruire sé stessi” ed “investire su sé stessi”, con la classica nauseante retorica liberale del successo personale meritocratico, inseriti in una struttura a piramide, simile a quella delle tante truffe che girano negli annunci di lavoro.
Tu hai come obiettivo fare firmare dei contratti di donazioni ai passanti, se hai un certo “successo” vieni promosso a leader e il tuo obiettivo diventa spronare i tuoi sottoposti oltre che continuare a fare contratti, anche perché ad ogni contratto dei tuoi sottoposti ne ricavi una percentuale e così via, in crescendo, risalendo la piramide.
Una condizione che fa scaturire ansia, autodistruzione, alienazione e cinismo disumani.
Con le parole dell’autrice:
«Da contratto, come dialogatori lavoriamo a provvigioni, in assenza totale di stipendio fisso, rimborsi spesa, buoni pasto o ammortizzatori economici di qualsiasi altra forma.
Così, una volta stabiliti i nostri obiettivi, avvenuta la formazione gratuita, sia per l'agenzia che non ci retribuisce in alcun modo le ore passate in ufficio, sia per noi venditori che non paghiamo per imparare, ci viene richiesto il numero preciso di obiettivi da raggiungere a settimana e tutto il nostro lavoro è incentrato su noi stessi, dato che, dettaglio affatto trascurabile definire quanto sia meritevole la nostra strategia di saluto, sorriso, fermata, introduzione e presentazione del progetto umanitario in questione e soprattutto chiusura ne vale del nostro tempo, dato ad ogni contratto firmato abbiamo un corrispettivo economico, ad ogni contratto recesso ne vale della decurtazione dal nostro – già esiguo – stipendio, che ci arriverà dopo la metà del mese dopo successivo alla donazione chiusa.
[…]
Se, miracolo ha voluto, il mio primo mese di attività sono riuscita a far chiudere un contratto, dunque una donazione a un nuovo sostenitore e tale donazione era di 15 euro al mese, pari per me a 30 euro di guadagno effettivo (la così detta provvigione) ma, sfortuna vuole, che tale nuovo sostenitore decida, per qualsiasi ragione su cui io, povera dialogatrice, non posso in alcun modo influire, tale piccola provvigione mi viene agilmente decurtata dalla paga, o meglio paghetta. Così, in uno scenario distopico e paradossale, ma forse non troppo lontano dalla realtà, se in un mese non sono riuscita a chiudere altri contratti il mio ricavo è pari a zero, e se il mio conto bancario risulta privo della somma di cui ha bisogno la Onlus, ne divento debitrice».
Le agenzie che lavorano per beneficenza, così, creando un ambiente pieno di aspettative e promesse per il futuro immediato (“se sei bravo guadagnerai moltissimo, anche con le provvigioni dei tuoi sottoposti”) e costruendo una narrativa per cui il fallimento di ognuno è da attribuire solo alle colpe individuali (e non al caso, o alla mancanza di cooperazione, o alla oggettiva difficoltà dell’incarico), riescono a fare lavorare di fatto gratis per 10 o più ore al giorno questi “dialogatori”, finchè non reggono più e gettano la spugna (di solito avviene sempre prima dei 4 mesi).
Vi consiglio la lettura della tesi che ho citato http://dspace.unive.it/.../10579/9731/855481-1198972.pdf...
Sta di fatto che, finchè la beneficenza e le donazioni non saranno un affare PUBBLICO e trasparente, sarà sempre legittimo e normale avere dubbi e sospetti sul loro vero valore morale ed umanitario. Dubbi più che fondati in molti casi.
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