Il 6 gennaio del 1914 nasceva Federico Caffè, il più importante economista italiano del Novecento. Tra qualche mese uscirà il mio libro "Una civiltà possibile. La lezione dimenticata di Federico Caffè", che ricostruisce per la prima volta l’evoluzione del pensiero “eretico” di Caffè, restituendolo alla comunità in tutta la sua straordinaria lucidità e radicalità.
Un modo per rendere finalmente giustizia all'eredità di Federico Caffè, vittima in questi anni - e soprattutto nell'ultimo anno - di una vergognosa operazione di revisionismo storico, finalizzata ad addomesticare e istituzionalizzare il suo pensiero.
Basti pensare ai ridicoli parallelismi tracciati tra Caffè e Draghi in seguito alla notizia dell’incarico di governo a quest'ultimo. Peccato che la differenza tra i due non potrebbe essere più marcata.
Da un lato abbiamo un uomo, Draghi, che per molti versi rappresenta l’incarnazione letterale dello “spirito del mondo”, la cui storia personale è indissolubilmente intrecciata alla storia degli ultimi quarant’anni dell’Occidente e dell’Italia.
La storia di Draghi, infatti, è la storia dell’ascesa e della crisi dell’egemonia neoliberale. Del passaggio dal keynesismo al monetarismo. È la storia dell’Europa di Maastricht. Del passaggio epocale, in Italia, dalla prima alla seconda repubblica. Dello svuotamento della nostra sovranità democratica a favore del “vincolo esterno” dell’euro. Della trasfigurazione economica, sociale, politica, costituzionale che quel passaggio ha comportato. Dello strapotere della finanza, che ha finito per inghiottire l’economia reale. Di come quel modello sia andato in crisi, trascinando giù con sé l’economia mondiale. E di come gli artefici di quella crisi (tra cui Draghi) siano riusciti a farla franca, e anzi oggi vengano persino accolti come salvatori della patria (vedi sempre Draghi).
Dall’altra parte, invece, abbiamo Federico Caffè, un uomo che più che il “maestro” di Draghi, sembrerebbe rappresentarne quasi l’antitesi: un uomo umile che non solo ha dedicato la sua vita quasi unicamente all’insegnamento dell’economia, rifuggendo sempre dai riflettori (fino al punto di scomparire, letteralmente), ma che si è battuto tutta la vita contro quello “spirito del mondo” che invece Draghi ha sempre cavalcato, fino ad arrivare ai massimi vertici del potere globale. Caffè, infatti, apparteneva a quei “keynesiani della prima generazione” che fecero proprie le nobili aspirazioni ideali e le implicazioni più rivoluzionarie del pensiero di Keynes.
Come Keynes, anche Caffè considerava intollerabili la disoccupazione e le «sofferenze umane non contabilizzate» su cui poggia il capitalismo, e riteneva che «nessun male sociale può superare la frustrazione e la disgregazione che la disoccupazione arreca alle collettività umane».
Come Keynes, credeva che la piena e buona occupazione dovesse essere un obiettivo imprescindibile della politica. Come Keynes, credeva nello «Stato garante del benessere sociale». Come Keynes, credeva nella difesa dei beni comuni e del welfare state. Come Keynes, si batté per tutta la vita contro l’illusione liberista della “mano invisibile” e provvidenziale del “mercato”, e soprattutto contro la recrudescenza di queste «idee antiquate», a partire dagli anni Ottanta, con l’offensiva neoliberista.
Come Keynes, aborriva la tecnocratizzazione della politica economica e credeva nella capacità dei popoli di autogovernarsi democraticamente. Come Keynes, credeva nella necessità di abolire la finanza speculativa e di “eutanizzare” quelli che chiamava «gli incappucciati della finanza».
Come Keynes, riteneva che il compito dell’intellettuale fosse «quello di indicare un modello alternativo e di dimostrare che si tratta di un modello possibile». Come Keynes, anche Caffè, in ultima analisi, dedicò la sua vita a dimostrare la realizzabilità di una «civiltà possibile» ma mai pienamente realizzata.
L'opposto, letteralmente, di Draghi, che invece ha passato tutta la sua esistenza - lo vediamo anche oggi - a difendere l'idea che non esista alternativa. Se oggi Caffè fosse ancora tra noi, ci ricorderebbe che questa è la grande menzogna su cui si reggono tutti i regimi, incluso quello del suo allievo.
Ci manchi, professore.
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