L’altro giorno il “Corriere della Sera” riportava a caratteri cubitali che il team di Milena Gabanelli ha analizzato i dati ed è giunta ad una conclusione inequivocabile: per quanto i rischi di complicazioni gravi da Covid nei bambini tra i 5 e gli 11 anni siano bassissimi e di fatto statisticamente in inesistenti – 44 su 100.000 ricoverati e 1 su 100.000 in terapia intensiva, mentre i decessi sono 0 virgola qualcosa (e riguardanti quasi sempre bambini che presentavano altre patologie molto gravi) –, «anche [in questa fascia di età] i benefici [della vaccinazione] superano i rischi», dice la Gabanelli.
In molti si saranno fermati al titolo e avranno pensato: «Perbacco, se lo dice anche la Gabanelli, nota proprio per il suo approccio lucido e scientifico alle cose, allora deve essere vero: corro a vaccinare mio figlio!».
Qualcun altro, però, sull’uscio di casa, potrebbe essere stato colto da un dubbio amletico e potrebbe essersi chiesto: «Ma come fanno a conoscere quali sono i rischi da vaccino per la fascia d’età 5-11 anni?».
E allora, magari, avrebbe continuato a leggere l’articolo per trovare una risposta a questa domanda.
E avrebbe scoperto che... non lo sanno.
Su quella fascia di età, infatti, non è ovviamente stata condotta nessuna sperimentazione. Il vaccino Pfizer è stato sperimentato su un numero limitatissimo di 12-17enni, poco più di 1.000: un numero, per ammissione della stessa Pfizer, «troppo piccolo per rilevare eventuali rischi potenziali di miocardite associati alla vaccinazione», e che comunque riguarda una fascia d’età più alta di quella di cui stiamo discutendo.
(E questo senza considerare la rivelazione del “British Medical Journal”, secondo cui Pfizer, nella fase di sviluppo del vaccino, avrebbe «falsificato i dati, abolito la procedura per i test in cieco dei pazienti, impiegato vaccinatori non addestrati e ritardato il monitoraggio delle reazioni avverse»).
Pfizer, infatti, specifica che «[l]a sicurezza a lungo termine del vaccino nei partecipanti di età compresa tra 5 e <12 anni sarà studiata in 5 studi di sicurezza post-autorizzazione, incluso uno studio di follow-up di 5 anni per valutare le sequele a lungo termine di miocardite/pericardite post-vaccinazione».
In altri termini la sperimentazione verrà fatta sulla popolazione: non si tratta di un delirio cospirazionistico ma di un semplice dato di fatto, a meno di non volere negare l’evidenza.
E qualche dato cominciamo già ad averlo.
Come riporta la Gabanelli, negli Stati Uniti, uno dei primi paesi ad aver cominciato a vaccinare i bambini tra i 5 e gli 11 anni, i dati del VAERS, il dataset americano sugli eventi avversi, riportano 1 caso di miocardite/pericardite ogni 10.000 (non 100.000) bambini: un dato molto più alto di quello delle complicazioni da Covid in quella stessa fascia di età (e questo senza considerare che «[r]icerche precedenti hanno dimostrato che solo una frazione degli eventi avversi viene riportata, quindi il vero numero di casi è quasi certamente più alto», come scrivono Joseph A. Ladapo, professore associato di medicina alla David Geffen School of Medicine della UCLA, e Harvey A. Risch, professore di epidemiologia alla Yale School of Public Health).
Il lettore a quel punto avrebbe ragione di chiedersi cosa giustifichi la conclusione della Gabanelli secondo cui «[d]ai dati disponibili finora per il vaccino contro il Covid tra i 5 e gli 11 anni è comprovato il rapporto rischi-benefici a livello di comunità».
Da notare l’aggiunta di quel «a livello di comunità». Come a dire: non importa se il rapporto costi-benefici per i singoli bambini sia negativo perché comunque tale rapporto sarebbe positivo “per la comunità”.
Peccato che anche questo sia tutt’altro che «comprovato»: non solo «è stato dimostrato che [i bambini piccoli] si infettano meno spesso e sono meno spesso all’origine di casi secondari rispetto fratelli maggiori», come scrive la Società francese di pediatria, ma è ormai appurato da innumerevoli studi che l’efficacia dei vaccini nel bloccare l’infezione (e dunque il contagio) è incompleta e transitoria (qualche mese), e che dunque – come ribadito da un recente articolo su “The Lancet”, una delle più prestigiose riviste mediche al mondo – «i vaccinati hanno un ruolo rilevante nella trasmissione [e] sono parte rilevante della pandemia».
Ma anche se non fosse così – cioè se fosse vero che i bambini piccoli non vaccinati rappresentano un rischio “per la collettività”, cioè per i soggetti a rischio, perlopiù ultrasessantenni –, ciò non costituirebbe di per sé un’argomentazione sufficiente a favore della vaccinazione nei bambini.
Come leggiamo in un appello sottoscritto da diversi scienziati e medici italiani riuniti nella neonata associazione CoScienze Critiche: «Come è possibile sostenere che la società dovrebbe vaccinare i bambini, sottoponendoli a qualsiasi rischio, non allo scopo di conferire loro un beneficio diretto, ma per proteggere gli adulti?
Noi crediamo che l’onere di proteggere sia a carico degli adulti verso i bambini e non viceversa». Che un concetto così ovvio vada ribadito dà il senso del baratro valoriale – oltre che culturale e politico – in cui siamo sprofondati.
La verità è che l’unica cosa veramente «comprovata», ad oggi, è che non abbiamo dati a sufficienza per valutare in maniera conclusiva il rapporto rischi-benefici a livello individuale della vaccinazione nei bambini 5-11 anni.
Come scrive Vittorio Agnoletto, «[d]i fronte [alle affermazioni della Pfizer] ogni pronunciamento pubblico richiederebbe la massima cautela, considerando che si tratta di esseri umani in una fase di forte sviluppo e crescita, situazione che implica un’analisi attenta dei possibili effetti collaterali anche a medio e lungo termine.
Da più parti si dice: vaccinare i bambini per evitare che trasmettano l’infezione agli adulti; ma la priorità dovrebbe essere quella di contattare i circa due milioni di ultrasessantenni che non hanno ancora fatto la prima dose e certamente non sono tutti no-vax.
Il sistema politico-mediatico sembra, nella sua maggioranza, non porsi simili domande e spingere verso la vaccinazione di massa anche in età pediatrica; dimenticandosi troppo presto le nefaste conseguenze degli open day rivolti agli adolescenti realizzati con AstraZeneca, vaccino poi dimostratosi non adatto a quell’età.
D’altra parte, la pressione di Big Pharma è fortissima e si realizza anche sul mondo medico e su diverse società scientifiche».
In ultima analisi, non si può non rimanere sconcertati, vista la delicatezza dell’argomento, di fronte al tentativo dell’establishment politico-mediatico italiano di far passare l’idea che il dibattito scientifico sulla vaccinazione o meno nei bambini fino ai 5 anni sia definitivamente risolto a favore della vaccinazione.
La realtà è che, nella migliore delle ipotesi, la questione continua a essere oggetto di un acceso dibattito in ambito scientifico, a prescindere dall’approvazione da parte dell’EMA e della FDA del vaccino Pfizer per i bambini tra i 5 e gli 11 anni.
Come leggiamo in uno studio molto approfondito pubblicato sull’“Archives of Diseases in Childhood”, una delle più importanti riviste di pediatria al mondo: «Se tutti i bambini sotto i 12 anni debbano essere vaccinati contro il Covid-19 rimane un dibattito in corso. … Il rischio relativamente basso rappresentato dal Covid-19 acuto nei bambini e l’incertezza sui danni relativi alla vaccinazione e alla malattia significano che l’equilibrio tra rischio e beneficio della vaccinazione in questa fascia di età è molto complesso da valutare. … [Per questo] al momento sembra opportuno valutare i rischi e i benefici con attenzione e procedere con cautela».
Questa, d’altronde, è la stessa conclusione raggiunta di recente dalla Società francese di pediatria, che ha recentemente sconsigliato la vaccinazione nei bambini dai 5 agli 11 anni finché non si avranno maggiori dati di farmacovigilanza.
Ma a noi italiani di tutto questo che ci frega? Noi c’abbiamo la Gabanelli che ci dice che è tutto a posto.
Commenti
Posta un commento