La scienza è l’avventura umana che consiste nell’esplorare i modi di pensare il mondo, pronti a sovvertire qualunque certezza abbiamo avuto fin qui: è una fra le più belle avventure umane.
CARLO ROVELLI
Alzi la mano chi, negli ultimi mesi, non ha mai sentito, letto o pronunciato il titolo di questo articolo.
Certo, non perché il mio scritto sia sulla bocca di tutti, ma perché di scienza, ultimamente, ci siamo riempiti la bocca tutti quanti. Così, dopo quarant’anni che – in un modo nell’altro – me ne occupo, mi sono assunto la bega di domandare “che cos’è la scienza”.
Una domanda che fa pure da titolo a un testo di Carlo Rovelli, edito da Oscar Mondadori nel 2014. Un testo a mio avviso straordinario che, di questi tempi, qualcuno dovrebbe rileggersi. Soprattutto chi parla di scienza a decine di milioni di persone.
E ancor più coloro i quali, in nome della scienza, stanno decidendo le sorti di un intero Paese.
Dice il più noto dei nostri fisici teorici: “questa mi sembra la caratteristica centrale del pensiero scientifico. Ciò che più ci appare ovvio del mondo può essere falso. Il pensiero scientifico è un’esplorazione continua di modi nuovi per concettualizzare il mondo. La conoscenza nasce da un atto di ribellione, rispettosa ma profonda, contro il sapere del presente.”
Per chi lo sa guardare, questo quadro della scienza non ha alcun bisogno di essere commentato. Per chi invece non lo vede o no lo vuol vedere, non mi dilungo a commentarlo, e passo oltre. Anzi no, una cosa può essere utile dirla. Se le cose stanno come dice Rovelli, se lo scienziato è un esploratore che si ribella, rispettosamente ma profondamente, al sapere del presente, la parte sana della comunità scientifica non è quella che difende ad ogni costo un certo modo di “concettualizzare il mondo”, ma quella che non lo accetta acriticamente, quando non vi si ribella.
Con questo non intendo certo sostenere che i cosiddetti “no-vax” sono tutti scienziati. Mi accontento di dire che i membri della comunità scientifica non vanno tutti d’amore e d’accordo, e non dicono tutti le stesse cose. Come comunità, quella scientifica mette insieme tante anime, è attraversata da correnti che hanno tendenze contrastanti, che si contendono mezzi, che si pongono obiettivi differenti muovendo da prospettive eterogenee.
È alquanto agitata per vocazione, e piuttosto variegata per estrazione. Nonostante ciò, i suoi membri sono d’accordo su un sacco di faccende che rientrano nella loro giurisdizione. Certo, non su tutte. Persino i fisici, che studiano i sistemi più semplici, che dispongono dei mezzi d’indagine più infallibili e adottano le procedure di decisione più rigorose, hanno annosi e seri problemi di interpretazione che l’ortodossia imperante non è ancora riuscita a sopire, e qualche importante incongruenza che li divide proprio perché non riescono a sanarla.
Figuriamoci se gli scienziati che lavorano su sistemi complessi, come i virus e ancor più le persone, hanno tutti lo stesso modo di “concettualizzare il mondo”, se la pensano tutti allo stesso modo.
Se fosse così, se la comunità scientifica assomigliasse alla combriccola di Burioni, di Bassetti, e degli altri tre che si danno il cambio nei salotti televisivi, se i suoi membri fossero sempre d’accordo su tutto e dicessero tutti le stesse cose – come fanno queste nuove stelle del firmamento mediatico – beh, ecco, allora non sarebbe affatto una comunità scientifica: si tratterebbe più che altro di una setta di invasati.
La parte sana della comunità scientifica non coltiva solamente la pazienza, la costanza, il metodo, il rigore: è un brulicare di idee nuove , congetture coraggiose, ipotesi audaci, teorie tra le più ardite, voli pindarici che la maggior parte delle volte vanno a finir male. Qualche rara volta aprono mondi.
Ma il malpasso nel quale ci stiamo attorcigliando da mesi, da troppi mesi e chissà ancora per quanto, non procede dalla scienza “pappa e ciccia” dei salotti televisivi, non origina da questa singolare messinscena mediatica.
La comunella di Burioni&C., che pretende di esser li a rappresentare la comunità scientifica tutta – ma che, di fatto, rappresenta solo sé stessa – è solamente un effetto. La causa sta a monte, ed è più sottile. La introduco riesumando una crisi che, sessant’anni fa, rischiò di innescare la terza guerra mondiale. Una crisi che rappresentò uno dei momenti più caldi della guerra fredda. Una crisi che, se fosse stata gestita come quella attuale, non saremmo qui a raccontarcelo.
Nel 1962, in risposta all’installazione di missili nucleari statunitensi in Gran Bretagna, Italia e Turchia, i sovietici portarono i loro a Cuba. Del resto, quello che era successo alla “baia dei porci”, quel goffo tentativo della CIA di invadere Cuba e sbarazzarsi di Castro una volta per tutte, aveva innervosito parecchio i rossi del Cremlino. Così, da un giorno all’altro, Kennedy si trovò i comunisti che installavano missili nucleari a poche centinaia di miglia dalla Florida, capaci di annientare ogni punto degli USA a sud di Seattle entro pochi di minuti dal lancio.
Naturalmente, il Pentagono pressò immediatamente il presidente perché autorizzasse un attacco a sorpresa su Cuba, volto a distruggere le rampe di lancio prima che i sovietici rendessero operativi i loro missili.
Ma Kennedy sapeva benissimo che, se avesse sferrato l’attacco alle installazioni missilistiche cubane, Krusciov avrebbe contrattaccato su Berlino, e a breve giro si sarebbe scatenata l’apocalisse nucleare mondiale. E allora, che fece? Radunò “le migliori teste del Paese”, e le rinchiuse in una stanza finché non ne fosse uscita una soluzione che non prevedesse l’attacco preventivo a Cuba.
E ci riuscirono.
Si, ci riuscirono, perché Kennedy era una persona intelligente: non aveva invitato i suoi amici, né gli amici degli amici, come si fa oggi qui da noi.
No, Kennedy aveva convocato i migliori cervelli in grado di gestire il braccio di ferro con Krusciov senza dover usare la forza. Per questo non fallirono. Per questo i miei genitori non sono stati spazzati via dalla guerra nucleare totale ancor prima che pensassero di mettermi al mondo. Per questo ora sono qui che mi gratto la testa, e penso al nostro “comitato tecnico-scientifico”, istituito dal governo Conte – ed ereditato dal governo Draghi – per gestire l’emergenza sanitaria.
Mi gratto la testa perché, a giudicare dai nomi che hanno frequentato questo singolare consesso, non sembra proprio che abbia riunito “le migliori teste del Paese”.
Certo, gente sveglia, uomini e donne di mondo, non c’è che dire. Ma ho l’impressione che, in giro per l’Italia, ci sia anche di meglio e, soprattutto, che ci sia anche dell’altro.
Non ci sono solo manager, burocrati e imprenditori che tirano l’acqua a un qualche mulino. Nel nostro Paese ci sono anche dei buoni filosofi, per esempio. Che li sforniamo a fare se poi, quando servono, non li mettiamo all’opera? Che ne facciamo di loro se, ben che vada, vengono invitati nei salotti televisivi dove non vengono nemmeno lasciati parlare?
Il problema è che non solo Draghi, ma persino la maggior parte degli italiani è ormai convinta che con la filosofia non si mangia, né si risolvono i problemi più urgenti di un Paese.
Sbagliato, anzi: sbagliatissimo. I filosofi sanno fare meglio di chiunque altro ciò che più conta nelle situazioni critiche: problematizzare l’ovvietà. Insinuare dubbi dove i burocrati, i manager, gli imprenditori, i tecnici e a volte persino gli scienziati vedono solo granitiche certezze. Servono proprio a evitar loro di imboccare vicoli ciechi e bui, come quello in cui ci stiamo incautamente infilando ultimamente. La spaccatura sociale che serpeggia sempre più pericolosamente nel nostro Paese, con le tensioni che sta ingenerando, è l’inevitabile effetto della miopia del “comitato tecnico-scientifico”, e ancor più di chi ne ha selezionato accuratamente i membri.
Il malessere sociale che attanaglia una popolazione brutalmente spaccata in due non è stato provocato dal virus, ma da una gestione poco intelligente dell’emergenza.
Del resto, il nome stesso del comitato esprime più chiaramente di qualunque discorso qual è l’errore di fondo che sta alla base di politiche scellerate come quella del “green-pass”: l’illusione che la problematica innescata dal nuovo virus possa essere affrontata in termini banalmente tecnico-scientifici. Delle “due culture”, quella scientifica e quella umanistica, solo la prima è di fatto rappresentata nel CTS, seppur allo stesso modo della premiata ditta Burioni&C. La seconda ce la teniamo buona per fare le parole crociate e i quiz televisivi. Come se i risvolti della pandemia fossero solo di carattere medico-sanitario. Come se la cultura umanistica non avesse ormai più niente da dire sugli uomini che hanno vissuto e stanno vivendo quest’epoca.
Sarebbe interesse di tutti che il CTS riunisca davvero “le migliori teste del Paese”. Dal momento che, invece, è evidentemente chiamato a fare gli interessi di Qualcuno, raggruppa i suoi migliori amici e i suoi più devoti servitori.
Il “comitato tecnico-scientifico”, così come è stato configurato, è un errore grossolano gravido di conseguenze. Al punto tale che, oggi, non risulta affatto ozioso chiedersi se fa più danni il virus o la politica dei tecnici.
A chi mi dice “tu che critichi tanto, hai qualche soluzione da proporre?” rispondo tranquillamente che “soluzioni non ne ho, ma mi permetto di suggerire come possiamo trovarne una: mandiamo a casa qualche burocrate e qualche manager del CTS, e mettiamo al loro posto un paio di umanisti. Come Galimberti e Agamben, tanto per fare due nomi nel rispetto della par condicio.”
Se davvero vogliamo risolvere un problema che è umano ancor prima che tecnico-scientifico, tra “le migliori teste del Paese” non può mancarne qualcuna che conosce l’uomo meglio del virus e di certi consigli di amministrazione.
Diversamente, vuol dire che non interessa davvero risolverlo: come si dice nell’ambiente forense, “fin che la causa pende, la causa rende”.
La scienza consiste nel guardare più lontano, nel rendersi conto che le nostre idee sono molto spesso inadeguate non appena usciamo dal nostro giardinetto. Quindi consiste innanzitutto nello smascherare alcuni dei nostri pregiudizi, nel costruire e sviluppare gli strumenti concettuali nuovi, per poter pensare più efficacemente il mondo.
CARLO ROVELLI
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