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«Sarà guerra per le risorse» Il sociologo Bauman sugli effetti della crisi.

Negli occhi ha il guizzo di un ragazzino sveglio e intelligente e l’acume disincantato di chi ha attraversato molte generazioni, conosce bene il lato cinico dell’uomo, ma non ha perso neanche la fede nel suo lato più nobile.
‘Umano’ si dice dell’uomo quando prova dolore e istintiva partecipazione per le miserie altrui, tende la mano all’altro nella difficoltà e spera di arrivare insieme a un traguardo comune.

LE DUE VIE PER USCIRE DALLA CRISI. Sulla crisi attuale, l’uomo che ha vissuto molto vede nero.

Ma, da sociologo, è molto lineare e lascia la porta aperta. «Ci sono due possibilità», spiega a Lettera43.it.

«O, come è già successo nella storia, l’umanità cambia rotta e, per sopravvivere, imbocca una strada alternativa alla crescita» oppure, se l’homo consumens non accetterà, con sacrificio, di tornare indietro, «la natura prenderà il sopravvento e sarà la guerra di tutti contro tutti per la redistribuzione delle risorse».

In entrambi i casi, il processo sarà «doloroso», soprattutto nei Paesi occidentali, dove «lo stato sociale è in via di demolizione». Per Bauman, «non è più una questione di destra o di sinistra», ma di lotta per la sopravvivenza.
Le insidie non mancano, a partire dal capitalismo al tramonto, che «riserva sempre sorprese imprevedibili», e dall’impotenza della politica che, se non riacquisterà il potere di agire, non potrà traghettare i Paesi verso modelli più sostenibili.

DOMANDA. Eppure i politici propongono la via dell’austerity, per tagliare sprechi e sperperi della società dei consumi.

RISPOSTA. È una soluzione a breve termine, che di certo riduce la crescita e tiene molte persone disoccupate.

D. Come fa allora a risolvere la crisi?

R. Probabilmente, anche i rimedi a breve termine sarebbero dovuti essere diversi. Io, da sociologo, posso esprimermi solo in una prospettiva a lungo termine.

D. Per ora, cosa è arrivato a concludere?

R. Primo, che la crisi era ampiamente prevedibile. Siamo vissuti per oltre 30 anni al di sopra delle nostre possibilità, spendendo soldi non guadagnati. Il collasso del credito era inevitabile.

D. Colpa del ceto medio vorace, che, con il boom economico, voleva accaparrarsi tutti i nuovi comfort?

R. Certo che no. Le masse sono state convinte a vivere a credito. Sugli interessi dei loro prestiti, le banche hanno incamerato grandi utili. Le persone sono state indottrinate, è stato fatto loro il lavaggio del cervello.

D. Un sistema sofisticato.

R. Miracoli del capitalismo. Il punto, però, è che adesso ci troviamo in questa situazione. In tutto il mondo, non solo nell’Occidente più sviluppato, ma anche nelle Tigri asiatiche, in Brasile…

D. L’Europa non è messa peggio dei Paesi in via di sviluppo?

R. Questo sì. In Europa e negli Usa la contrazione è maggiore. E in Gran Bretagna, per esempio, si è abusato delle carte di credito più che in Italia, ma il trend è lo stesso.

D. C’è chi parla già di ripresa, grazie alle manovre di austerity.

R. Di questo mezzo secolo di abbondanza pagheranno lo scotto non solo le attuali nuove generazioni. Ma i loro figli e i loro nipoti.

D. In cosa ha sbagliato la società liquida?

R. Intanto nel non considerare che c’è un limite naturale al credito. Che quello che si ottiene senza sacrificio oggi, si pagherà necessariamente domani.

D. E poi?

R. Poi c’è un secondo aspetto che abbiamo ignorato: la sostenibilità del pianeta. Stiamo già consumando il 50% in più di quanto la Terra possa offrire.

D. Ma, con la crisi inarrestabile, i consumi si stanno contraendo.

D. Ed è una certezza che la Terra sarà distrutta.

R. Credevamo che la sola via per essere felici in queste e nelle prossime vite fosse consumare il più possibile. Invece questo sistema sta distruggendo il pianeta e le nostre esistenze individuali.

D. Come se ne esce?

R. Per uscirne, dovremmo necessariamente rivedere i nostri stili di vita. Mettere in discussione tutto quello che siamo stati abituati a pensare o a credere, rinunciando a molti comfort.

D. Sarà dura.

R. Chi, come le nuove generazioni, non ha mai provato una vita frugale dovrà imparare da zero un modello alternativo. Chi, come me, ha vissuto per 40 anni senza frigorifero, dovrà riabituarsi a minori comodità.

D. Sta dicendo di rassegnarci ad andare in peggio?

R. Non in peggio, a cambiare mentalità. Per millenni, le generazioni hanno vissuto senza televisione e non stavano necessariamente peggio. Di certo, sarà difficile disabituarsi ai comfort. Sarà – se accadrà – un processo lungo e doloroso.

La sconfitta della politica. O una società nuova o la guerra per le risorse

D. Perché dubita che accadrà, se ritiene possibile l’esistenza di società alternative?

R. Essere possibile non è essere scontato. Qualcuno dovrà necessariamente guidare questo percorso. La grande domanda è capire quale forza sarà in grado di farlo.

D. La politica non è in grado?

R. I governi sono chiaramente incapaci di farlo. Vengono eletti per quattro, cinque anni. Il loro obiettivo è restare in carica. Per riuscirci, dicono alla gente quello che vuole sentirsi dire nel momento.

D. Eppure la crisi dura da cinque anni.

R. E infatti la politica è impotente, non sa che pesci prendere. Ormai la gente, per frustrazione, vota chi non era al governo al momento del collasso. Non è più una questione di destra o di sinistra.

D. In Italia, Mario Monti non è stato neanche eletto.

R. Ma la gente lo avrebbe votato egualmente, per reazione contro il premier precedente. In Spagna, il socialista José Luis Zapatero cadde travolto dalla crisi, ma sarebbe accaduto lo stesso al conservatore Mariano Rajoy. E se in Francia, due anni fa, ci fosse stato monsieur François Hollande, ora Nicolas Sarkozy sarebbe in carica.

D. Non è un quadro troppo sconfortante?

R. Ormai la gente ha la certezza che qualsiasi governo non serva a niente. I cittadini hanno perso fiducia nell’élite al comando. E, se vuole la mia personale opinione, penso che abbiano ragione.

D. Perché?

R. Da un po’ ormai vado dicendo che i politici non hanno più in mano gli strumenti per governare.

D. In che senso?

R. Al momento, siamo in una fase di divorzio tra politica e potere. Il potere è la capacità di fare determinate cose, la politica è la capacità di decidere quali cose devono essere fatte per il Paese. Se 50 anni fa politica e potere erano nelle mani dei governi, oggi il potere è stato globalizzato. Ma la politica no, è nazionale. O, al limite, internazionale.

D. Può fare un esempio concreto?

R. Prima i politici decidevano cosa fare e, contemporaneamente, avevano il potere di agire nel campo delle finanze e dell’economia nazionali. Oggi possono pensare a cosa fare, ma agire è ormai un potere fluttuante nella no man’s land globale. Le aree locali non hanno più influenza.

D. Stati e gruppi di Stati sono quindi succubi dei cosiddetti ‘poteri forti’.

R. La situazione è terribile. E fino a che non cesserà questo scollamento, nessuna soluzione a lungo termine potrà essere trovata. Questa è la mia profonda convinzione.

D. Prima parlava di rivedere gli stili di vita, costruire un modello di società alternativo.

R. Non si tratta solo di eliminare i surplus consumistici. Ma di reimparare – o imparare da zero – a essere felici stando nella comunità, coltivare relazioni di vicinato, cooperare.

D. Non le sembra un progetto utopistico?

R. Utopistico? Perché mai (ride). È chiaro che tu, io, tutti noi insieme, dovremo discutere seriamente per cambiare i nostri orizzonti, smettendo di spendere nei negozi. Ma, in passato, per la maggior parte della storia dell’umanità, gli uomini trovavano soddisfazione, per esempio, nel creare e nello svolgere lavori ben fatti. I sociologi lo chiamano istinto dell’uomo-artigiano.

D. E se non ci riusciremo, se non ci sarà la volontà di tornare artigiani?

R. Allora – è la seconda possibilità – la vita sarà ancora più dura. La natura minaccerà la nostra esistenza. E, se anche non soccomberemo, ci saranno guerre sanguinose.

D. Guerre per le risorse?

R. Sì, come ha ipotizzato Harald Welzer in Climate wars, a differenza del 1900, le guerre non saranno ideologiche, ma molto materiali. Ci potrebbero essere grosse guerre per la redistribuzione.

D. Sopravvivenza e distruzione, entrambi gli scenari sono possibili.

R. Come sociologo non sono in grado di dire quale prevarrà. Personalmente, non credo tanto nella prima possibilità.

La fine dello stato sociale e la smitizzazione del ’68

D. Oltre ai consumi che le masse non possono più permettersi, la crisi globale sta distruggendo lo stato sociale.

R. Tutti i governi lo stanno smantellando, socialdemocratici e di centrodestra. Come per i premier eletti, la scomparsa dello stato sociale non è né di destra, né di sinistra. Del resto, non lo fu neanche sua creazione.

D. Da cosa nacque lo stato sociale?

R. L’idea che la comunità venisse incontro nei momenti di difficoltà si concretizzò, in modo particolare, dopo la terribile esperienza della Seconda guerra mondiale.

D. Tutti ne uscirono a pezzi.

R. Al di là della destra e della sinistra, si arrivò alla conclusione di aver tutti bisogno dell’aiuto reciproco. I lavoratori, ma anche i capi. L’uno dipendeva mutualmente dall’altro.

D. Perché mai il padrone, the boss, dipendeva dagli operai?

R. Allora il capitalismo aveva ancora bisogno di lavoratori locali. Era interesse del boss tenere la sua potenziale forza lavoro in buone condizioni. Buona salute, buona istruzione, buona forma. Magari anche una buona auto per andare al lavoro!

D. Ma a pagare il welfare era lo Stato.

R. A maggior ragione c’era bisogno del welfare. Con questo meccanismo, i capitalisti abbattevano anche il prezzo per avere forza-lavoro attraente. La comunità pagava loro buona parte dei costi.

D. Invece oggi?

R. Oggi le aziende non hanno più bisogno di lavoratori locali. Con la globalizzazione fanno arrivare manovalanza dall’Asia e dall’Africa. Oppure traslocano in Bangladesh.

D. L’industria è davvero finita in Europa?

R. Togliamoci dalla testa che ritorni. I disoccupati europei non sono più neanche potenziali lavoratori. La classe operaia – e più in generale la classe lavoratrice dipendente – sta scomparendo molto velocemente. Come nel 1900 accadde con i contadini.

D. Cosa resta nel continente?

R. Lo vediamo dai danni fatti. Da decenni i profitti non si fanno più dall’incrocio tra capitale e lavoro. Ma dall’incrocio tra prodotti e clienti. Occorreva tenere buoni i consumatori.

D. Come il welfare, anche le conquiste del 1968 sono polverizzate dalla crisi.

R. Da un punto di vista sociologico, rivalutato a posteriori, il movimento del ’68 coincise con l’entrata dei cittadini nella società dei consumi. Fu questa la sua conseguenza più duratura.

D. Non le considera conquiste?

R. Il ’68 fu una rivoluzione culturale, non c’è dubbio. E di certo, gli studenti che scendevano in strada volevano tutto, tranne che sdoganare la società dei consumi.

D. Ma?

R. Ma, volenti o nolenti, la conseguenza fu quella. Dall’austerità del dopoguerra emerse una nuova generazione che voleva godersi la vita, semplicemente.

D. È un paradosso.

R. Eppure è così. I sessantottini erano consumatori di mercato, pronti a cogliere le occasioni che si presentavano. Volevano divertirsi. Vestirsi alla moda. Crearsi identità diverse dalle precedenti. Essere liberi di provare piaceri temporanei. Alla lunga, anche gli iPhone sono una conseguenza del ’68.

D. Anche l’amore liquido è una conseguenza del ’68.

R. Gli appuntamenti su Internet, gli incontri di una notte («one night stand»)… Tutto è una conseguenza. È facile: ti diverti, poi premi il bottone delete, cancella. E tutto sparisce.

D. Nell’attimo, però, la soddisfazione è maggiore. Si conoscono più partner, si accumulano esperienze di vita.

R. Sì, ma il punto è che, nel tempo, ciò che dà soddisfazione è innanzitutto collezionare esperienze su esperienze. Una volta ottenuto l’oggetto del desiderio lo si getta via, per ottenerne subito un altro.

D. Il mio iPhone, però, non è l’ultimo modello. E l’ho preso pure usato.

R. Stia tranquilla che, presto, anche lei lo getterà nel sacco della spazzatura, per averne uno nuovo.

L’etica commercializzata e la vitalità del capitalismo

D. Si prende, si usa e si scarta. Eppure, 20 anni fa, lei guardava all’etica post-moderna come a un salto di qualità. La società liquida non era tutta da buttare.

R. Avevo, ahimè, sottovalutato l’ingegnosità del marketing capitalista. Pensavo che, dopo secoli di società solida, dove la moralità si identificava con il conformismo, fosse finita l’etica dell’obbedienza ai codici prestabiliti e iniziasse l’epoca dell’agire morale individuale. Un agire autentico e libero, dettato dalla responsabilità delle proprie scelte.

D. Perché non è andata così?

R. Nell’era dei consumi, anche l’etica e la moralità sono state commercializzate. In un’epoca dove sei rintracciabile ovunque e, pena il licenziamento, devi fare gli straordinari per il tuo capo, ti senti molto in colpa, per non essere un partner presente, un buon padre o una buona madre.

D. E allora?

R. Allora arrivano in soccorso i negozi. Con i regali cerchi di compensare i bisogni della tua famiglia. Come un prozac, sedano il tuo inappagato impulso morale.

D. Ma non risolvono i problemi.

R. Affatto. Scambiando i regali come tranquillanti, non sentirai mai che le relazioni umane vanno in pezzi. Togliendo il dolore, non cercherai più la guarigione e diventerai patologico.D. Parla della situazione attuale?

R. Riducendo gli scrupoli morali ed evitando di affrontare i problemi, siamo arrivati dove siamo arrivati.

D. Eppure lei ha vissuto tempi peggiori: la guerra, i regimi, la discriminazione. È davvero così doloroso vivere oggi? E domani sarà davvero così difficile?

R. È sbagliato pensare alla società liquida, come a una società leggera e superficiale. Non ha senso comparare i livelli di felicità di epoche e generazioni diverse.

D. Perché?

R. Perché si confrontano astrazioni diverse. Per sentire la mancanza di qualcosa, devi prima provarne l’esperienza. Si può dire che ogni tempo abbia le proprie gioie e le proprie afflizioni. Ma non che oggi un giovane rimasto senza Facebook soffra meno che a vivere nel Medioevo.

D. Qual è lo scoglio più duro della crisi attuale?

R. La deprivazione. Quattro anni fa non sarebbe stato neanche immaginabile perdere la capacità di comprare una casa, di chiedere prestiti…

D. … Persino non potersi permettere un’auto.

R. Eppure sarà così. Tornare allo stile di vita «happy & lucky» (felice e fortunato) del ’68, o anche solo di un anno fa, sarà impossibile.

D. Se per l’etica era stato fiducioso, adesso lo è meno.

R. Se è per questo, come tanti ero stato anche troppo ottimista sul capitalismo.

D. Con il crollo dei consumi morirà il capitalismo?

R. Chissà. In passato molti hanno profetizzato la sua fine. Invece, visto che non siamo profeti, quando stava per morire il capitalismo è sempre risorto.

D. Come ha fatto?
R. Trovando strade inedite e sorprendenti, per fare profitti.

D. Anche il capitalismo è liquido?

R. Quanto meno flessibile e dotato di grande inventiva. È riuscito a trasformare la gente che aveva abitudine a risparmiare, in gente che spende denaro senza riserve. Un miracolo.

D. Ora anche il business del credito però sembra arrivato al capolinea.

R. Il capitalismo è in seria difficoltà e sembra assai improbabile che possa sopravvivere. L’ultima sua metamorfosi è grigia. Ormai il Prodotto interno lordo si regge su un’economia illusoria e intangibile, disconnessa dai problemi genuini della gente, che fa profitti solo spostando moneta.

D. Business virtuale.

R. Business per pochi. I soldi si muovono dalle tasche di un grande azionista verso le tasche di un altro grande azionista. Capace però di fare miracoli......



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