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Transizione scientifica all'autoconsumo

Bisogna trovare il modo di convincere l'opinione pubblica
del mondo occidentale che l'alternativa al capitalismo non può consi-
stere in un ritorno semplicistico ai rapporti naturali dell'autoconsu-
mo. 

Occorre un processo di transizione.
Dobbiamo cioè tornare alla semplicità del passato ma con la
coscienza del presente. Ciò significa che non possiamo rinunciare a
tutte le scoperte tecno-scientifiche. Se valesse il principio secondo
cui bisogna anzitutto soddisfare i bisogni fondamentali di ogni indi-
viduo, noi dovremmo rinunciare a quegli aspetti del progresso che
appaiono superflui, inessenziali.


Oggi abbiamo la consapevolezza democratica che gli sforzi
per migliorare le conquiste tecnologiche non servono a nulla se non
sono finalizzate al bene comune. Ora, siccome questo bene comune
non viene mai soddisfatto dal suddetto progresso, poiché permango-
no ingiustizie dovute ai rapporti antagonistici sul piano socioecono-
mico, forse è giunto il momento di dire: rinunciamo a una parte del
progresso materiale per concentrare i nostri sforzi verso la soluzione
dei problemi sociali.


Stabiliamo cioè delle priorità.
Se non facciamo questa scelta di campo, aumenterà inevitabilmente la sfiducia non solo nei confronti del progresso scientifico, ma anche verso la capacità umana di risolvere i problemi in generale, verso il futuro stesso dell'umanità. 

Sempre più le masse saranno
indotte a credere che le moderne società sono destinate all'autodi-
struzione e che l'unico modo per evitarla era forse quello degli uomi-
ni primitivi, totalmente privi di progresso tecnologico.
Queste in realtà sono solo sciocchezze, sia perché anche
l'uomo primitivo conosceva il progresso tecnologico, sia perché non
è tale progresso che di per sé porta gli uomini all'autodistruzione.
Semmai sono i rapporti antagonistici ad esso sottesi. Il "male" non
sta nel progresso tecnologico in sé, ma nel modo di usarlo, nell'esi-
genza individualistica che lo fa muovere, nella finalità di profitto
privato verso cui può essere indirizzato. Certo è che quando il pro-
gresso è frutto di rapporti sbagliati, esso diventa inutile o nocivo di
per sé, a prescindere dall'uso che se ne può fare.


Esigenze etico-sociali e tecnologia
Se il moderno progresso tecnico-scientifico non fosse stato
subordinato alle esigenze del profitto, non sarebbe stato così scon-
volgente. Il progresso è stato impetuoso perché pochi l'hanno voluto
contro l'interesse di molti.
Sin dall'inizio infatti il progresso è stato usato per distruggere il modo di produzione feudale. Solo in apparenza sembrava un
progresso al servizio della collettività, sembrava cioè lenire i lavori
monotoni o evitare quelli pericolosi. Soprattutto si cercava d'illudere
la gente che il progresso serviva per aumentare la produttività, per
eliminare l'inefficienza di certi mezzi lavorativi, per aumentare di
molto la velocità dei trasporti.
Ma si trattava di un inganno, poiché là dove si cercava di ri-
solvere un problema, se ne creava un altro, molto più complesso. 

Là dove la scienza portava profitti a pochi imprenditori, recava anche
grandi sofferenze a molti lavoratori, la prima delle quali era la disoc-
cupazione. Un'automazione troppo spinta del lavoro di fabbrica ren-
de infatti inutile il lavoro manuale. Una cosa di questo genere, se
fosse generalizzata nel sistema capitalistico, farebbe scoppiare con-
flitti sociali a non finire.
Il fatto è che quando ci si accorge che i vantaggi del progres-
so sono in realtà molto relativi, non si può più tornare indietro. È
questo il dramma della modernità, che quando si sbaglia, le conse-
guenze sono disastrose, proprio perché i processi risultano irreversi-
bili e a forte impatto socioambientale.
L'autoconsumo medievale e la vendita delle sole eccedenze
sui mercati sono stati completamente distrutti dalla concorrenza dei
prodotti industriali, dal monopolio dei mezzi, delle risorse, delle ma-
terie prime, dei prezzi, e quindi inevitabilmente dall'emigrazione,
dall'abbandono delle terre, da una loro riconversione produttiva mo-
nocolturale, finalizzata unicamente al mercato, e più in generale dal-
le illusioni di una nuova libertà e dalla rassegnazione di chi si senti-
va incapace di fermare questo processo.


Gli storici si sono meravigliati che nel corso del Medioevo le
popolazioni avessero abbandonato del tutto le conquiste tecnico-
scientifiche del mondo greco-romano. Ma quando si ha la percezione
che il progresso tecnico non serve a nulla per migliorare effettiva-
mente i rapporti sociali, perché spendere delle risorse per sostenerlo?
Il Medioevo puntò a valorizzare gli aspetti etico-sociali della
convivenza umana e, se si escludono il servaggio e il clericalismo, vi
riuscì in maniera adeguata (in Russia le tradizioni contadine restaro-
no prevalenti sino agli anni 1920-30 e, se non vi fosse stato lo stali-
nismo, probabilmente il socialismo est-europeo sarebbe stato più
agrario che industriale). Questo poi senza considerare che in agricol-
tura vi furono molti più progressi nel Medioevo che non nell'impero
romano.


Il progresso tecnologico non è di per sé indice di alcun benessere etico-sociale, tanto meno lo è quando la sua "socializzazione" reca i maggiori benefici solo a pochi proprietari dei mezzi produttivi. 

Gli stessi operai occidentali, pur essendo sfruttati dai loro
imprenditori, partecipano con loro allo sfruttamento delle risorse
umane e naturali dei paesi colonizzati, proprio usando il medesimo
progresso.


Se scienza e tecnica fossero davvero al servizio della collettività, da tempo si sarebbero risolti problemi come la disoccupazione, l'inquinamento, le malattie, la fame, la siccità ecc. 

Invece oggi ci sentiamo tanto più frustrati quanto meno riusciamo a star dietro a
questa mania di acquistare sempre gli ultimi ritrovati tecnologici.
Buttiamo via cose ancora perfettamente funzionanti, solo perché
sono "fuori moda".
Di fronte a ogni più piccola proposta di migliorare una qua-
lunque cosa, dovremmo prima chiederci a chi giova, cioè se serve
veramente o se è possibile, volendo, farne a meno. Una cosa infatti
sono i lenti miglioramenti realizzati dai lavori tradizionali; un'altra
gli sconvolgimenti che mettono in crisi in poco tempo un consueto
modo di produrre, di lavorare e quindi di vivere la vita. È più segno
di progresso la stabilità che non la continua innovazione.
Ogni modifica della tecnologia dovrebbe essere vagliata dal
popolo lavoratore, e solo dopo ampie e lunghe verifiche si dovrebbe
dare il via alla sua produzione in serie. Non si può rischiare di di-
struggere le tradizioni del passato solo perché l'interesse di qualcu-
no, unito all'intelligenza di qualcun altro, ha prodotto qualcosa di ri-
voluzionario. I singoli vanno tenuti sotto il controllo della collettivi-
tà.
Se gli interessi etico-sociali vengono minacciati dalle sco-
perte scientifiche, bisogna rinunciare a queste e non relativizzare
l'importanza di quelli. 

Accettare l'innovazione in quanto tale, senza tener conto delle sue ripercussioni etico-sociali e ambientali, significa non avere a cuore le sorti della collettività.

 
Una questione etico-sociale fondamentale, che il progresso
tecnologico ha sempre trascurato, è la seguente: il criterio di misura-
zione del tempo può essere dato dalla capacità di ricavare un profitto
dalla propria attività? La risposta ovvia dovrebbe essere no, ma oggi
non c'è più nulla di ovvio.
Lo scandire del tempo e quindi delle mansioni lavorative
(produttive e non), nonché delle attività ricreative (individuali o col-
lettive) dovrebbe essere deciso - se vogliamo restare entro i limiti
dell'etica - solo da una tradizione socialmente riconosciuta. Non può
essere il lavoro di per sé che scandisce i ritmi del tempo; non può es-
sere l'esigenza del profitto a determinare i ritmi del lavoro e il signi-
ficato dello scorrere del tempo.


Il lavoro e il suo tempo possono trovare il loro significato solo nel significato di vita che una determinata collettività ha dato, per tradizione, a se stessa: soltanto questa comunità può decidere se, come e quando modificare una determinata mansione. 

Di regola una modifica del significato della vita, che voglia restare nell'ambito del-
l'etica, non può mai avvenire stravolgendo le condizioni sociali ere-
ditate dalle generazioni passate. Una qualunque innovazione, per po-
ter essere accettata, dovrebbe rispettare la tradizione, cioè la memo-
ria storica di una determinata comunità, altrimenti è un salto nel
buio, un arbitrio ingiustificato. Quando non si rispetta la memoria
storica, si è fuori da qualunque etica.
Ciò naturalmente non significa che le forme concrete in cui
l'etica si manifesta, si contestualizza in uno spazio-tempo, non pos-
sano (o anche non debbano) entrare in crisi o subire dei mutamenti
legittimi. Ogni mutamento è legittimo e anzi necessario se con esso
si cerca di recuperare un passato perduto, ritenuto migliore del pre-
sente. 

Qui non si contesta l'esigenza di rinnovamento sottesa alla na-
scita del mondo moderno, ma semplicemente che tale esigenza la si
sia voluta sviluppare per distruggere tutto il passato.
La critica del formalismo dell'etica è giusta solo fino a quan-
do non si vuole sostituire l'etica con l'estetica, cioè con la sospensio-
ne dei valori e dei giudizi. In tal senso bisogna dire che il mondo
moderno, già a partire dall'Umanesimo e dal Rinascimento, rappre-
senta il dominio dell'estetica, cioè di un pensiero e di un'azione che
si sono voluti sottrarre al controllo della volontà popolare.
È estetica la scienza, la tecnologia, l'economia, la politica,
persino la filosofia. 

È estetico ogni pensiero avulso dalla realtà, la cui logica è solo un artificio intellettuale. È estetico il modo stesso di produrre del capitalismo, caratterizzato dall'individualismo più spinto. 

È estetica la gestione politica dello Stato borghese, dove ciò che
conta è unicamente il potere. È estetico il modo di vivere la ses-
sualità, che si tende a tenere separata dall'amore. Concetti come pro-
fitto, potere, piacere, sillogismo, logica, persino inconscio... sono
tutti di derivazione estetica, in quanto non controllabili da un collet-
tivo, essendo privi di veri valori etici.
Una società o una civiltà del genere può reggersi in piedi
solo con l'uso della forza, che è, se vogliamo, il concetto estetico per
eccellenza. L'estetica è il trionfo della pura forma, il cui contenuto è
arbitrario, in quanto non tiene conto dei bisogni umani, su cui si fon-
dano i valori.

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