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“Nemesi medica”: un quarto di secolo dopo

Con questo libro Illich riuscì a dare legittimità ai dubbi riguardo alla asetticità della scienza e della tecnologia e sulla bontà intrinseca della medicina.
Che cosa ci dice oggi questo libro e, soprattutto, quale posizione permette di attribuire al suo autore nella storia della cultura del novecento?
Innanzi tutto è un libro che ha una collocazione storica precisa, fin troppo precisa; appartiene infatti a quella cultura degli anni ’60 tesa alla delegittimazione della scienza ufficiale, nella speranza, sarebbe forse meglio dire nella illusione, che attraverso la verità i buoni avrebbero avuto accesso al potere.

Si salva però dall’ingenuità che riconosciamo altrove perché ha, quale retrofondo, un’idea pessimistica del progresso: le invenzioni e le scoperte che costruiscono la modernità sono attivatori di uno sviluppo senza fine che, da una parte, ha bisogno di incentivare il consumo, così che la domanda si moltiplichi, dall’altra porta alla perdita di senso di ciò che è stato già creato, con la sua riduzione a manifestazione di potenza dell’istituzione che l’ha creato piuttosto che risposta a reali bisogni o desideri.

«Ciò porta ad identificare la scuola con l’educazione, l’assistenza medica con la salute..»
Perché Nemesi medica?
Le cure prestate, la difesa contro gli effetti nocivi delle cure, provocano una reazione paradossale che è costituita da un aumento del danno, per cui ciò che era nato per portare beneficio si risolve in un’ulteriore sofferenza per l’uomo.

Dice Illich: «I greci nelle forze della natura vedevano delle divinità. Per essi la nemesi era la vendetta divina che colpiva i mortali quando questi usurpavano le prerogative che gli dei riservavano gelosamente a sé … Nemesi rappresenta la risposta della natura alla ubris, alla presunzione dell’individuo che cercava di acquistare gli attributi del dio.
La nostra moderna ubris sanitaria ha determinato la nuova sindrome della nemesi medica» (pag. 31).
Ricordo l’entusiasmo che questa tesi suscitò in un convegno ad Assisi quando Illich, nel 1976, presentò il suo libro.
Riusciva a dare legittimità ai dubbi che già si erano impiantati, nella cultura della sinistra italiana, riguardo alla asetticità della scienza e della tecnologia e sulla bontà intrinseca della medicina.
Illich era riuscito a raccogliere una massa impressionante di dati che obbligavano a ripensare dalle fondamenta l’impianto della ricerca e della pratica nel campo sanitario.
In un certo senso colpiva alle spalle i ricercatori ufficiali approfittando della loro incapacità di avere una visione di insieme, condannati dal bisogno di efficienza ad essere specialisti in un piccolo campo.
Condannava senza appello, non dava spazio all’avversario, identificato come nemico di classe, senza sfumature o distinzioni.
Non faceva ricerca per costruire ma per distruggere.
Aveva cioè tutte le caratteristiche di quello che Enriques chiama lo scienziato eterodosso. «Le critiche degli scienziati eterodossi, di solito uomini di una genialità superiore a quella che appartiene alla media degli studiosi, di una genialità non bene contemperata dall’equilibrio delle varie doti che occorrono allo scienziato, ma spesso appunto più vivace perché non infrenata dalle esigenze del metodo e della dottrina, sottolineano come i problemi della scienza ortodossa sono mal posti, privi di significato e di valore.»
Ma i medici fanno fatica...
Chi erano i destinatari di questa provocazione?
È una rilettura a distanza che ci permette di rispondere a questa domanda meglio di quanto fosse possibile in diretta.
Se andiamo a valutare la situazione attuale, della ricerca e degli elementi di criticità in essa presenti, e della mentalità prevalente, dobbiamo dire che la provocazione è completamente fallita con i medici e gli altri operatori sanitari, a meno che non fossero già convinti della bontà delle tesi sostenute da Illich.
I medici non possono e non potevano capire che il successo nel singolo caso e la salvaguardia della salute in generale non coincidono.
Non potrebbero capire che se si abolissero tutte le specializzazioni della medicina e della chirurgia, e si dedicassero tutte le risorse in tal modo risparmiate alla prevenzione, all’igiene ambientale e alla cura delle malattie più comuni, la salute della popolazione migliorerebbe notevolmente.

Gli esercenti una professione liberale, quali si definiscono i medici, fanno fatica ad entrare in una prospettiva sociale e collettiva.
Restano ancorati all’idea che il lavoro di terapia parte dalla contrattazione con il singolo.

La formazione professionale, l’esercizio della medicina, oltre che l’appartenenza spesso ad una classe privilegiata, li tengono lontani dall’idea che solo una mediazione politica permette un uso razionale delle conoscenze e delle risorse mediche.

Possono al massimo giungere ad una impostazione umanitaria, e anche ugualitaristica, ma senza accorgersi che ogni tentativo di estendere in modo meccanico il privilegio di pochi alla maggioranza porta tali contraddizioni da produrre un danno proprio al bene che si vuole tutelare, cioè alla salute.
Credo che il beneficiario della polemica di Illich non fosse il corpo medico ma l’utente, o meglio l’insieme dei cittadini consumatori, ai quali viene dimostrata la miseria che si nasconde in ciò che riluce nelle tecnologie mediche.

Il messaggio è finalizzato ad una presa di coscienza, da parte dei cittadini, di ciò che la medicina dà loro e di ciò che toglie, facendo promesse che non può mantenere.
Da questo l’insistenza, che può apparire ingenuità in un uomo così avvertito quale è Illich, sulla ricchezza dei valori tradizionali che danno senso alla malattia e aiutano a gestirla, con ragionamenti che prendono a prestito perfino il linguaggio delle virtù cristiane.

Che siano gli utenti i veri destinatari del messaggio spiega la semplificazione di molti ragionamenti e il carattere apodittico di certe tesi.
«Studiando l’evoluzione della struttura della morbosità si ha la prova che durante l’ultimo secolo i medici hanno influito sulle epidemie in misura non maggiore di quanto influivano i preti nelle epoche precedenti» (pag. 22).

«È stato dimostrato che il ruolo decisivo nel determinare come si sentono gli adulti e in quale età tendono a morire è svolto dal cibo, dall’acqua, dall’aria, in correlazione con il livello di uguaglianza sociopolitica e con i meccanismi culturali che permettono di mantenere stabile la popolazione» (pag. 23).
Il messaggio è stato accolto? Forse sì, perché oggi assistiamo al diffondersi dell’idea che vada recuperato il carattere umano della cura (e non unicamente tecnologico), dell’idea che la salute è un tutto inscindibile, non divisa per organi e apparati, che è una qualità della vita e non una merce.

Inoltre si moltiplicano coloro che vogliono decidere del proprio destino quando si troveranno ad essere malati, decidere se essere curati o no, se vivere o morire – senza che ciò diventi oggetto di delega.

Bisogna dire che gli scienziati non hanno aiutato i consumatori di medicina a mantenere un atteggiamento corretto.
Li hanno stimolati a consumare perché così si potesse produrre di più.
Riducendo la salute a merce hanno espropriato i cittadini della competenza sul proprio malessere e sul proprio benessere.
Ciò hanno fatto, anche in buona fede, per laicizzare la medicina, liberandola da quell’alone religioso che la legava poi inevitabilmente a una qualche fede, e da qui a una qualche chiesa.
Ma con ciò hanno preteso – ed è questa una delle tesi centrali di Illich – di sganciare la medicina da qualunque sistema di valori; per liberarla dal religioso l’hanno esclusa dall’etico.

Federico Scotti

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