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La fragilità dell’homo economicus

Le nostre città sono sistemi dotati di scarsa flessibilità: quando si verifica il collasso di uno dei sottosistemi (la sanità), l’intero sistema entra in uno stato altamente critico.
Mai dal dopoguerra erano state prese misure così restrittive.
E il contagio non viene dagli emigranti, ma dal mondo globalizzato, nasce nel cuore del paese a più elevata crescita economica: la Cina.
E non c’è confine che tenga con buona pace dei sovranisti.
Tutti i sistemi artificiali, ovvero prodotti dall’uomo, se basati su un’unica variabile (per esempio il denaro per quello economico) o su un uso spinto delle tecnologie, possiedono scarsa ridondanza e flessibilità.
La ridondanza e la flessibilità assicurano che se una parte del sistema va sotto stress , altre parti del sistema collaborano per attenuare lo stato di stress del sottosistema.
I sistemi viventi sono infatti sistemi ridondanti e con notevoli caratteristiche di flessibilità.
Spesso accade in natura dove la ridondanza delle specie animali e vegetali assicura la sopravvivenza della biosfera qualora intervengano cambiamenti disastrosi (glaciazione o surriscaldamento).
Che cosa significa flessibilità ce lo spiega un semplice esempio: se uno zelante ingegnere dovesse progettare con efficienza meccanica un cuore «perfetto» farebbe in modo che esso abbia un numero fisso di battiti.
Ma basterebbe allora una leggera corsa – che fa consumare una maggiore quantità di ossigeno a un cuore non in grado di accelerare i propri battiti – per far collassare il sistema.
Dunque la flessibilità è una risorsa preziosa e indispensabile perché il sistema possa adattarsi a cambiamenti imprevisti.
Un acrobata sulla corda, per esempio, deve essere libero, per non cadere, libero di oscillare con un bilanciere da una posizione all’altra; se le sue braccia fossero bloccate egli cadrebbe immediatamente.
Dunque la flessibilità è il contrario della specializzazione.
Tanto più un sistema è specializzato, ovvero basato su un’unica variabile o sull’uso spinto di una tecnologia, tanto più sarà fragile e non capace di resistere a cambiamenti imprevisti.
Questo è evidente nel caso dell’Alta Velocità dove uno scambio mal progettato ha praticamente messo in ginocchio tutto il sistema dei trasporti ferroviari, oppure nel caso del Mose il cui funzionamento è basato esclusivamente nel sollevamento di paratie mobili immerse nell’acqua per difendere Venezia.
Se questa unica variabile si inceppa il sistema non ha possibilità di compensazioni e collassa.
Tutte le grandi opere sono sistemi rigidi e pertanto fragili.
Questi pensieri vengono alla mente a proposito dell’epidemia del cosiddetto coronavirus, un virus globalizzato, che altro non è che qualcosa di più di una banale influenza che ogni anno in questo periodo fa molte vittime in soggetti deboli e compromessi.
C’è allora da riflettere su come le nostre città siano sistemi dotati di scarsa flessibilità che quando si verifica il collasso di uno dei sottosistemi (la sanità, ad esempio), l’intero sistema entra in uno stato altamente critico.
A Milano, città ritenuta da tutti eccellente per tanti e diversi settori, è stato chiuso il Duomo, chiusa Brera, chiuse le scuole e le università e poi stessa cosa a Verona, Vicenza, Treviso e tutto il sistema produttivo del Nord fino a lambire la pianura padana.
Mai dal dopoguerra erano state prese misure così restrittive.
Fa venire i brividi vedere in tv paesi deserti, file di persone per fare acquisti e famiglie chiuse in casa per il timore di un contagio: la guerra in tempo di pace sembra l’espressione più adeguata a questo stato di cose.
Questa volta il contagio non viene dagli emigranti, ma dal mondo globalizzato, nasce nel cuore del paese a più elevata crescita economica: la Cina e non c’è confine che tenga con buona pace dei sovranisti nostrani e non.
A Ischia un maldestro provvedimento, per fortuna subito ritirato, negava l’accesso all’isola di piemontesi, lombardi e veneti, segnale isolato ma pur inquietante della ricerca a buon mercato di un Nemico.
E l’economia?
È presto per fare i conti dei danni economici prodotti, ma si può immaginare che siano molto rilevanti in un mondo globalizzato e interconnesso. Basta un piccolo virus sconosciuto per far crollare le borse, ridurre il Pil e mettere a repentaglio la santa Crescita.
La perdita della flessibilità del sistema si accompagna alla perdita di flessibilità delle idee. Così che non mettiamo mai in discussione le nostre abitudini che tendono a diventare premesse indiscusse, da cui discendono altre idee che ne ereditano la rigidità; un esempio per tutti: la colpa è dei migranti e basterebbe chiudere in confini; ma almeno questa volta la propaganda è smentita dai fatti.
La prima interpretazione dell'homo oeconomicus si deve a John Stuart Mill nel saggio Sulla definizione di economia politica (1836).
Egli lo intende agente rivolto alla esclusiva massimizzazione della propria ricchezza pecuniaria da conseguire a prescindere da qualsiasi valutazione percepita come estranea al dominio dello studio dell'agire economico, siano esse valutazioni di carattere sociale, morale o relazionale.

Il modello che vede la razionalità dell'homo oeconomicus esercitarsi in un ambiente di cui, in virtù della perfetta informazione, conosce tutto, è stato criticato per il suo semplicismo. 
D'altra parte, passare a modelli più sofisticati, caratterizzati da interdipendenza strategica fra gli agenti, e pertanto dall'incertezza sullo stato futuro del sistema, e dalla limitatezza e costosità dell'informazione, richiede di considerare una razionalità capace di confrontarsi con scelte fra alternative probabilistiche.
In tale contesto la razionalità egoistica risulta incapace di cogliere l'ottimalità caratterizzata da soluzioni cooperative, che per loro natura sono antitetiche al tradizionale atomismo individuale.
In conclusione, il paradigma dell'homo oeconomicus classico appare carente in un contesto incerto o di interdipendenza.
Rimane comunque attuale la visione dell'agente economico come agente razionale nel senso di massimizzatore di una funzione obiettivo soggetta a vincolo.

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