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Il Decreto Presidente del Consiglio dei Ministri e le critiche della dottrina

Il Decreto del presidente del consiglio è un atto amministrativo che non ha forza di legge e che, come i decreti ministeriali, ha il carattere di fonte normativa secondaria e serve per date attuazione a norme o varare regolamenti.

Quindi, il d.p.c.m. non costituisce una fonte del diritto autonoma, bensì la veste formale spesso attribuita ad una fonte secondaria, il regolamento appunto, qualora essa venga emanata da un Ministro nell'ambito della competenza del suo dicastero o dal Presidente del Consiglio stesso.

Tale potere regolamentare è disciplinato dall'art. 17 della Legge 23 agosto 1988, n. 400. Secondo i principi generali del diritto amministrativo, tale articolo costituisce la fonte attributiva del potere che, sulla base del sistema delle fonti disciplinato dalla Costituzione, non può essere esercitato in difetto di una specifica attribuzione di potere da parte di legge ordinaria.
 Quindi, tali decreti non possono derogare, quanto al contenuto, né alla Costituzione, né alle leggi ordinarie sovraordinate. Per identico motivo, le norme regolamentari non possono avere ad oggetto incriminazioni penali, stante la riserva assoluta di legge che vige in detta materia prevista dall’art. 25 della Costituzione.

Occorre, però, distinguere tra regolamenti governativi in senso stretto e quelli ministeriali. I primi seguono un procedimento di emanazione cosiddetto aggravato in quanto essi vengono emanati con Decreto del presidente della Repubblica (D.P.R.), previa deliberazione del Consiglio dei Ministri e sentito il parere del Consiglio di Stato (obbligatorio ma non vincolante). Essi sono inoltre sottoposti al visto e alla registrazione della Corte dei conti e pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale.

I decreti ministeriali o i d.p.c.m. subiscono, invece, un procedimento meno gravoso e molto più semplificato essendo atti amministrativi (per alcuni di alta amministrazione) e non fonti legislative.

Ora, il nostro ordinamento giuridico prevede delle misure restrittive della libertà personale per motivi di salute anche gravi, quali epidemie, che, in un recente passato, hanno impegnato i dirigenti dello Stato Nazionale.

Si pensi al colera, al vaiolo o all’AIDS e si pensi al recente dibattito sulle vaccinazioni obbligatorie. Quindi, tecnicamente, in casi gravi e non soltanto pandemici o epidemici (si pensi ai TSO), lo Stato può incidere con forza su diritti costituzionalmente garantiti.

Corre l’obbligo di una specificazione. Tali restrizioni, anche nel passato, erano attuate solo e soltanto sui soggetti colpiti da tali malattie e non sulla collettività in maniera così indiscriminata. La situazione dell’epidemia da COVID 19 è una situazione che rapprea un novumsent importante, in cui, anche dall’utilizzo numeroso del mezzo del d.p.c.m., è emerso che lo Stato Italiano è, ancora una volta, risultato assolutamente impreparato.

Ritorniamo al passato sulle note del brocardo storia magistra vitae.

Ai tempi della influenza “spagnola”, che portò con se una lunga scia di decessi nel mondo, sul finire della prima guerra mondiale, non si adottarono, in Italia, misure così restrittive e così indiscriminate.

Sembra del tutto chiaro che misure restrittive così importanti rappresentano, anche sulla scorta delle esperienze passate, un vulnus sensibile all’inderogabile diritto primario all’autodeterminazione.

In un articolo dell’Eurispes di Vincenzo Macrì del 16 marzo scorso, viene detta questa frase: “[…] l’art. 32 della Costituzione prevede il diritto alla salute, ma non l’obbligo alla salute […]”. Come dice anche l’autore, il limite è uno solo che il danno cagionato a se stessi non produca danni alla collettività.

Ora, queste limitazioni cosi stringenti adottate con un provvedimento amministrativo o di alta amministrazione, hanno destato notevoli perplessità nella dottrina costituzionalistica più attenta. Come sostiene Arturo Diaconale, l'emergenza può indirizzare o abituare allo “stravolgimento dello Stato di diritto e della democrazia liberale nel nostro Paese”.

Preoccupa che si è incisa gravemente la libertà delle persone con un atto amministrativo. Per quanto la ratio dello stesso può sembrare assolutamente corretta in seno all’esigenza di contenimento della diffusione del Covid19 per la tutela di tutti, da un punto di vista strettamente giuridico, questo strumento rappresenta un abuso indiscriminato contrario allo stato democratico in cui dovremmo vivere.

Abbiamo detto che il d.p.c.m. è un decreto impugnabile dinanzi ai Tribunali Amministrativi Regionali essendo un atto amministrativo e nemmeno fonte del diritto.

Quindi, un esercizio commerciale che ha avuto la sospensione della licenza perché rimasto aperto, ben potrebbe impugnare tale atto amministrativo dinanzi al TAR sollevando la questione di legittimità costituzionale.

Quindi, un cittadino che si è visto irrogare una sanzione amministrativa o penale, che preveda anche l’arresto, potrebbe sollevare questione di legittimità costituzionale su uno strumento che, a parere di chi scrive, è del tutto costituzionalmente errato.

La dottrina costituzionalistica ritiene che non sia pensabile che un siffatto strumento, quale un d.p.c.m., che, lo ripetiamo, non è una legge perché ad essa gerarchicamente inferiore, e non è, quindi, una fonte normativa, possa limitare, restringere, annullare (in alcuni casi) diritti costituzionalmente garantiti quali, a titolo esemplificativo e non esaustivo, quelli di circolazione e riunione che, tra l’altro, sono estrinsecazione dell’art. 13 quale diritto fondamentale.

La nostra Costituzione che, per quanto vetusta, non è certo poco esaustiva, prevede, come detto ut supra, limiti all’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti e, in situazioni emergenziali importanti come quella attuale, sembra anche corretto prevederne per la salvaguardia della collettività. Ma tali limiti devono essere previsti da legge ordinaria. Oltre al potere legislativo del Parlamento, esiste lo strumento del Decreto Legge o del Decreto Legislativo che dovevano essere utilizzati in luogo del d.p.c.m. e che, tra l’altro, costituiscono fonte normativa. Ovviamente nel rispetto delle norme costituzionali.

Chi scrive ritiene di sostenere la tesi che in questi giorni è invalsa nella dottrina costituzionalistica maggioritaria; la tesi per cui sarebbe stata scelta migliore l’adozione di decreto legge da trasformare in legge ed utilizzare lo strumento del d.p.c.m. o del d.m. come decretazione atta a spiegare e ad interpretare le norme contenute nell’emanando D.L., senza lasciare alla magistratura, come oramai troppo spesso avviene, il compito di interpretare le leggi stante le carenze del Parlamento.

L’esempio di quanto detto è rinvenibile nell’interpretazione del termine “passeggiata” che, secondo alcuni magistrati del nord Italia, deve essere interpretata come passeggiata a poche centinaia di metri da casa. Non sarebbe dovuto essere il Governo a specificare tale locuzione in luogo della magistratura?
Il Decreto Legge e il Ruolo del Parlamento

È difficile essere esaustivi in relazione ad un argomento così vaso ma si tenterà di fornire al lettore la più ampia panoramica possibile sulla situazione emergenziale a livello normativo.

Il fondamento per l’esercizio, da parte del Governo, del potere normativo è, nel decreto legislativo, nella stessa legge di delegazione. Invece, quando il Governo interviene con Decreto Legge, il fondamento di tale potere normativo è ravvisato nella situazione di necessità ed urgenza.

È proprio il Governo che deve valutare lo stato di necessità e di urgenza ed è, quindi, lui che adotta tali decreti “sotto la propria responsabilità”. Come noto, tali decreto devono essere presentati alle Camere lo stesso giorno per la conversione in legge, in mancanza della quale, entro 60 giorni dalla pubblicazione in G.U.R.I., essi perdono efficacia ab initio.

L’apprezzamento circa la straordinarietà, la necessità e l’urgenza del caso, ha, naturalmente, carattere politico ma è altrettanto chiaro che l’apprezzamento sulla straordinarietà ed urgenza va riferito alla impossibilità di legiferare da parte del Parlamento.

L’istituto della conversione entro 60 giorni dalla pubblicazione in G.U.R.I. è necessaria per ripristinare le rispettive competenze degli organi costituzionali coinvolti attraverso l’istituto della novazione della fonte legislativa.

Si riporta l’art. 77 Cost.: “[…] Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria.

Quando, in casi straordinari di necessità e d'urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni.

I decreti perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione.

Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti […]”.

Il legislatore, attraverso questa novazione di fonte normativa converte in Legge i D.L. qualora si ravvisi la fondatezza della necessità e dell’urgenza

Da quanto detto emergono i seguenti corollari: il primo è quello per cui l’apprezzamento di cui sopra viene effettuato una seconda volta dal Parlamento in sede di novazione (conversione). Con questa seconda valutazione, il titolare del potere esecutivo perde la responsabilità delle decisioni assunte.

Il secondo corollario è quello per cui la mancanza di tale apprezzamento vizia la legge di conversione e, per il principio dell’atto presupposto, il D.L. stesso.

La mancata conversione parlamentare, ovviamente, rappresenta una negativa valutazione dell’operato del Governo con le inevitabili ricadute politiche di tale decisione.

Forse è per questo che nell’attuale crisi il Governo ha adottato l’incostituzionale mezzo del d.p.c.m.?

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