L’uomo è un animale adattabile: si adatta anche alle cose che dovrebbe
ripudiare. Ci adattiamo a mangiare cibo spazzatura, a respirare veleni, a
stare in coda un’ora al mattino in tangenziale per andare al lavoro e
un’altra ora la sera per tornare a casa.
Ma gli adattamenti più subdoli sono quelli che riguardano stili di vita
che inducono cambiamenti antropologici. Uno di questi riguarda una nuova
figura sociale della nostra contemporaneità. Una figura sociale
sconosciuta nella storia precedente: è la figura sociale del lavoratore
povero.
Cioè di colui che, pur lavorando, si trova in uno stato di povertà. Pur
lavorando e percependo uno “stipendio” – diciamo così – riesce a
malapena a far fronte alle sue necessità di base.
Una volta c’erano gli schiavi e c’erano i padroni.
Poi i padroni sono rimasti.
E agli schiavi è stato concesso un salario per accedere al consumo che
li avrebbe fatti rimanere in cattività senza lamentarsene troppo.
Un sistema messo a punto per consentire ai pochi privilegiati di
continuare a rimanere tali, e anzi di continuare ad aumentare le proprie
ricchezze. E ha funzionato, per un po’, perché ci siamo adattati a
vivere in quello stato senza senso, paradossalmente perfino
gratificante, del cosiddetto modello “lavora, consuma, crepa!“.
Oggi, però, che il consumo come si intendeva dieci anni fa non c’è più, cosa rimane di quel modello? Ben poco.
Oggi è l’era del “lavoratore povero”.
Il lavoratore che secondo il paniere Istat (cioè il costo dei dei beni
di prima necessità che si devono acquistare perché siamo troppo occupati
a lavorare per produrceli da soli) deve avere un salario minimo di
mille euro al mese.
Che sono del tutto inadeguati, lo sappiamo: basta pensare a quanto costa
un litro di latte, oggi, oppure l’affitto di un monolocale in una
grande città. Cosa ci si potrà mai fare con mille euro al mese?
Nulla: una vita da lavoratore povero.
Eppure, a questa situazione ci siamo adottati.
La consideriamo tanto normale da ambirla, andando addirittura in piazza a
protestare per reclamare uno stipendio del genere. È chiaro che sia
giusto protestare quando il lavoro non c’è, anche se si tratta di un
lavoro del genere, che oltre a succhiare la vita non permette neppure di
tornare a casa senza dover fare i conti con le bollette da pagare. Una
condizione paragonabile a quella degli schiavi di una volta. Anzi,
addirittura peggiore, perché almeno lo schiavo era certo di avere un
posto dove dormire e di avere un piatto caldo in tavola.
Sino a che ci saranno in piazza persone disposte a protestare, con la
sola ambizione di avere un lavoro del genere, nulla potrà mai veramente
cambiare.
Protestare per rivendicare un lavoro del genere, per ambire dunque a
diventare schiavi, è come ostinarsi ad asciugare l’acqua caduta a terra
da un lavandino otturato, senza rendersi conto che bisogna chiudere il
rubinetto, invece di lasciarlo aperto.
La televisione – si dice – non fa che rispecchiare il mondo come è
diventato. È vero, ma è anche vero che essa stessa contribuisce a
formare quel mondo che poi racconta. E allora, se è vero che i lavori
oggi disponibili non rispecchiano che il mondo nel quale viviamo, è
altresì vero che noi continuiamo a perpetrare questo stesso mondo,
decidendo di continuare ad adeguare le nostre pretese al minimo,
continuando a ritenerlo normale e ineluttabile.
Addirittura, nella speranza di farne parte.
di Valerio Lo Monaco
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