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La guerra delle monete

Scopro che sul Financial Times, ossia il sacro commentario al dogma del liberismo finanziario speculatore, il 24 aprile nientemeno che Martin Wolf (gran sacerdote della suddetta religione) rompe il tabù supremo, rivelando gli arcana del business bancario: «Strip private banks of their power to create money», ossia: strappiamo alle banche private il potere di creare moneta. E Wolf propone che alla prossima crisi si instauri un sistema monetario a riserva totale: 100% money. «Non succederà adesso – sancisce il sacerdote – ma ricordate la possibilità.

Quando arriva la prossima crisi, dobbiamo essere pronti».

È il segreto che alla Bocconi non rivelano nemmeno agli iniziati: che le banche creano denaro dal nulla.

Anche i direttori di banca credono che la loro banca presti i soldi che i risparmiatori vi hanno messo in deposito.

Errore, o più precisamente, miraggio e sofisma.

La banca opera (come dice il gergo tecnico fatto per nascondere la verità ai profani) in regime di riserva frazionale, diciamo 7%, o 3%.

Il che significa grosso modo (le cose sono un po’ più complicate contabilmente) che quando la banca riceve in deposito 3 euro, ne presta 100 all’imprenditore che chiede un fido: ricavando ovviamente gli interessi da quel 100 fittizio.

Da cui l’immortale definizione dell’Encyclopedia Britannica ignorata alla Bocconi: «La banca lucra gli interessi da tutto il denaro che crea dal nulla».

Ovviamente al risparmiatore non retrocede nulla.

Cosa che i più non sanno, con questo metodo è il sistema bancario che batte moneta, il 98% della moneta liquidità circolante. Come disse un Rotschild, i pochi che lo capiscono fanno miliardi, e alle masse non hanno interesse a farlo sapere.

Ora, Martin Wolf propone di togliere alle banche il lucro: emettano credito con riserva frazionale 100%.

Ossia prestino quanto hanno veramente in deposito.

Ciò comporta un’altra conseguenza inaudita, e prima condannata come eretica dal Dogma: che tolta alle banche, la prerogativa di battere moneta venga restituita allo Stato.

La moneta, oggi produzione privata, tornerebbe ad essere il bene pubblico che è stato per millenni.

La novità è tanto impressionante, che anche qualche nostro giornale servile del Potere finanziario globale si fa coraggio, e ne ha parlato, rompendo l’antico silenzio.

Uno di questi – incredibile – è La Stampa, dove il sociologo Luciano Gallino (praticamente, un antico Jedi  di Casa Agnelli) ha l’ardire di titolare: «Il danno del denaro creato dalle banche».

«Il danno», capite che coraggio?

Gallino usa la prudenza di citare un fresco studio della Bank of England (Quarterly Bulletin 1/2014) dove si legge: contrariamente ai «malintesi popolari, le banche non agiscono da intermediari, dando in prestito depositi effettuati presso di loro; ogni volta che la banca fa un prestito, crea simultaneamente un corrispondente denaro sul conto del mutuatario, creando in tal modo nuovo denaro».

In parole povere è il mutuatario che garantisce con il suo lavoro o i sui averi la creazione del denaro. 

Improvvisamente Martin Wolf (e quindi La Stampa di Torino) si accorgono che tutti questi trilioni di denaro creato dal nulla sono pericolosissimi: la causa per cui «il nostro sistema finanziario è instabile», la causa dell’indebitamento degli Stati per sostenere le banche («un buco gigantesco nel cuore delle nostre economie di mercato»), per non parlare «delle centinaia di trilioni [migliaia di miliardi, ndr.] di prodotti derivati in quantità decine di volte superiori alle transazioni aventi per oggetto beni o servizi reali».

Fatta questa incredibile scoperta, si sancisce: «Il potere di creare denaro dovrebbe essere riservato esclusivamente allo Stato»: a quello Stato così inaffidabile, che la prerogativa di batter moneta gli è stata tolta dal liberismo privatista imperante, insieme con la sua banca centrale d’emissione, resa «indipendente» dalla politica? Par di sognare.

Ma poi, obbligando le banche a prestare solo quello che ha in deposito, sparirebbe il credito alle imprese produttive!

È esattamente l’obiezione che fanno da sempre gli oppositori della riserva al 100 per 100: ma Wolf e Gallino al seguito, ormai, sono decisi a smascherare questo argomento.

Balle, dicono: «Le banche finanziano l’investimento produttivo in misura pari appena al 10% dei loro depositi».

Insomma, il 90% dell’attività finanziaria è pura fuffa speculativa, serve solo ad estrarre ulteriori indebiti interessi, a risucchiare la ricchezza prodotta in basso dal 99%, per concentrarla in alto nelle tasche dell’1%...

Tutte cose che sappiamo, noi.

Ma per le quali, a dirlo, si veniva fino a ieri bollati come complottisti, nazisti antisemiti e negatori dell’Olocausto.

Adesso è il Financial Times a dirlo, quindi entra nelle cose che è legittimo discutere. Il tema è sdoganato.

È il segno che nei quartieri alti, nel centro del potere di quell’«impero della mente» che si lusinga di essere il britannico, è in corso una qualche revisione intellettuale dei dogmi imposti fino a ieri? Meno di un mese fa, Toni Blair ci ha stupito affermando che l’Occidente deve allearsi con Putin contro «l’Islam radicale» (ossia contro quello gestito e finanziato e armato da Washington e dai sauditi per far crollare regimi laici).

L’articolo di Martin Wolf è ancora più stupefacente.

Perché ha un corollario implicito: dice che a rimettere il morso alla finanza impazzita basterebbe una legge.

Un atto dello Stato, di un solo articolo: «La riserva delle banche è portata al 100%».

Un atto politico di dominio sull’economia, un atto di dirigismo — l’esatto contrario del dogma liberista assoluto, oggi vigente.

Nel 1936 fu il grande monetarista americano Irving Fischer, della Scuola di Chicago – nient’affatto un economista selvaggio – a proporre la «riserva piena» (100% Money), per far uscire il mondo dalla enorme crisi cominciata nel 1929, che restava intrattabile e invincibile 7 anni dopo.

Nonostante il prestigio e l’autorità di cui godeva, Fischer fu sconfitto dai banchieri d’affari. Il Congresso bocciò la sua riforma.

Più recentemente, l’ha proposta in Maurice Allais, unico premio Nobel francese per l’Economia: risultato, hanno cessato di invitarlo in tv nei dibattiti, i giornali non l’hanno più intervistato, ha dovuto pubblicare i libri a sue spese.

Eppure oggi, in Francia, un banchiere ufficiale, Christian Gomez, ha potuto rivendicare l’eredità di Allais pubblicando uno studio il cui titolo mi limito a tradurre, perché dice tutto: «Una ‘vecchia’ idea può salvare l’economia mondiale? Un riesame della proposta di una riforma radicale del sistema bancario. L’imposizione di un coefficiente di riserve del 100%».

Ovviamente, il grand banquier era stato preceduto da economisti francesi più alternativi: come Gabriel Galand, che nel 2012 ha organizzato un convegno su «una moneta a garanzia totale: vecchia idea che fa strada», e André-Jacques Holbeq, un ex-pilota di Concorde diventato economista altermondialista ed eco-sociale, che ha lanciato la stessa proposta sotto l’acronimo SMART (che sta per Sistème Monetaire à Réserve Totale).

Il fatto è che nel 2012 anche due economisti del Fondo Monetario Internazionale, di nome Jaromir Benes e Michael Kumho, hanno pubblicato (in inglese, è quel che conta) uno studia molto accurato dal titolo: «The Chicago Plan Revisited», dove propongono di restituire il monopolio della creazione di moneta alle banche centrali, e concludono: la 100% money manterrebbe le sue promesse se fosse messa in opera: riduzione dell’ampiezza del ciclo di credito, sparizione del rischio di corsa agli sportelli ed emorragia di depositi (bank run), riduzione dei debiti pubblici e privati».

Rivelazione esplosiva, quest’ultima: non ci hanno sempre raccontato che gli enormi indebitamenti pubblici e privati sono colpa di noi che vogliamo vivere al disopra dei nostri mezzi?

E che dunque dobbiamo stringere la cinghia sopportando decenni di austerità, recessione, depressione-deflazione e disoccupazione di massa?

Invece due analisti del FMI ci dicono che la causa vera dell’indebitamento eccessivo è la capacità delle banche di creare moneta – privatamente e per privato profitto – dal nulla.

E non sono stati licenziati né fucilati, per quanto se ne sa.

Alla collettività i benefici della creazione di moneta

Sogno o son desto?

Ciò che adombrano i sacerdoti del monetarismo liberista è la creazione di nuova moneta totalmente gratuita (senza interessi) come potere legittimo del Governo e della «sua» banca centrale (ma si può, dice Holbeq, escogitare una qualunque forma che decida la quantità di moneta da emettere annualmente, per esempio in base a calcoli della Corte dei Conti ma sotto controllo democratico).

Il Tesoro pubblico è il destinatario di questo ammontare annuale (una percentuale della moneta già circolante): un introito di Stato per investimenti collettivi e/o riduzione della fiscalità, oppure la riduzione del debito pregresso (che può essere congelato in notevole parte, per scelta politica, nel momento dell’introduzione del nuovo sistema).

La mia banca sarebbe differente...

Ce ne sarebbero due: le banche di deposito e le banche d’investimento , che esercitano le due funzioni separatamente.

Le banche di deposito non possono prestare: se non con la riserva del 100%.

Tutti i conti non potranno far circolare, tramite assegni, che la moneta già in cassa.

È una rivoluzione inaudita: si rovescia la regola attuale secondo cui «sono i crediti che fanno i depositi».

I depositi essendo pari alle riserve, tutti gli strumenti di pagamento si comporterebbero come se si trattasse di circolante della Banca centrale.

Le banche di prestito saranno le sole autorizzate a emettere prestiti per investimento.

Dovranno attrarre i risparmi dei risparmiatori — che li deporranno lì, e non avranno la disponibilità del loro conto corrente: sarà a loro chiaro che stanno prestando a medio termine (e non vedranno i soldi se non fra cinque anni; solo gli interessi correranno) — e le banche poi presteranno questo capitale di risparmio, facendo da intermediarie tra risparmiatori e aspiranti a indebitarsi; ma saranno deprivate della possibilità di utilizzare i risparmi altrui per speculare in proprio, e di prestare somme di cui non dispongono.

Sarebbe portare la grande calma nel vortice mortale della finanza globale, il risanamento dei suoi mali, il rinnovato assoggettamento della speculazione alle necessità di credito dell’economia reale e legittima, la fine dei rischi dementi e dei demenziali profitti dell’1%.

E tutto, in grazia di una legge di un solo articolo: «I prestiti bancari devono avvenire con una riserva del 100%».

Il punto è che per far passare quella legge semplicissima, occorre la volontà politica.

Che non si vede da nessuna parte.

Ma che, giusto per scongiurare che appaia, i poteri mondiali stanno procedendo a passi accelerati alla confisca della sovranità nazionale (democratica) esautorando i politici, nominandoli direttamente al governo senza elezioni, creando Unione Europea e Patto Transatlantico di Commercio, insomma abolendo la politica e consegnando le società a tecnocrazie cooptate dal potere bancario.

E il potere speculativo ha a disposizione centinaia di trilioni per questo scopo.

Non più tardi del 2 maggio il ben noto Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo che ci governa senza essere votato da alcuno, ha sibilato: «L’intero territorio europeo, compresa la Svizzera, sarà inglobato nell’Unione Europea.

Anche senza il supporto dell’opinione pubblica».

Giusto per capire meglio quali interessi serve il Van Rompuy.

E che tempra di democratico è.

E tuttavia, il fatto che il Financial Times abbia sdoganato l’idea del 100% Money, suggerisce che nei quartieri alti, nelle centrali dove si può ciò che si vuole, è in corso qualche elaborazione e revisione: ciò che succede solo quando le crisi sono così gravi e intrattabili, che anche questi semidèi non sanno più come salvarsi, e cominciano a pensare anche loro fuori dalle righe, ad ascoltare, o soppesare, idee «alternative» prima demonizzate.

Questa crisi che stiamo vivendo dev’essere davvero grave, se Martin Wolf conclude il suo articolo: «Alla prossima crisi – che certo arriverà – dobbiamo essere pronti». Il che fa paura, ma in un certo senso apre a qualche speranza.

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