Ogni qual volta il capitalismo entra in crisi - e
ciò si verifica sempre più frequentemente, fino a diventare uno
stato permanente - Carlo Marx, dato per morto e sepolto, regolarmente
ricompare e oggi il suo spettro aleggia di nuovo in Europa e nel
mondo. Al punto tale che Time, settimanale americano con
svariati milioni di lettori, è arrivato a scrivere che «Marx aveva
ragione»
Tuttavia, una reticenza permane proprio sulla
questione di fondo, ossia sulla natura del capitale. Giacché,
scoprendo l’arcano del capitale, vengono in chiaro le ragioni delle
sue crisi e le condizioni del suo superamento.
Due aspetti inscindibili che hanno fatto di Marx
uno dei pensatori più potenti e al tempo stesso un rivoluzionario
instancabile, che concretamente lottava per trasformare la realtà:
un esempio di coerenza, di alta moralità.
La personificazione dell’unità tra teoria e
prassi.
Una «immane raccolta di merci», osserva il
pensatore e rivoluzioanrio di Treviri, caratterizza la società
dominata dal capitale. Ma cos’è il capitale?
Non semplicemente una somma di denaro, che a
conclusione della produzione e della circolazione della merce, o
dell’impiego nella finanza, si trasforma in una somma maggiore di
quella investita; e che ci appare nelle più svariate forme di
capitale industriale, bancario, fisso, costante, variabile e così
via.
Fino al capitale cosiddetto umano, in cui nel
nostro tempo, ridotti a cose, si identificano gli esseri umani che
producono ricchezza.
Che cos’è allora il capitale? Una cosa?
Un’entità materiale o immateriale? Un insieme di macchinari e di
materie prime? Di conoscenze scientifiche e tecnologiche? È un
algoritmo? Un accumulo di mezzi finanziari ben nascosti nei paradisi
fiscali?
«Il capitale - risponde Marx - non è una cosa,
bensì un determinato rapporto di produzione sociale, appartenente ad
una determinata formazione storica».
Ed «è costituito - sono sue parole - dai mezzi
di produzione monopolizzati da una parte della società» con lo
scopo di ottenere un profitto.
Mentre un’altra parte della società, che
comprende di gran lunga la maggioranza, «è soltanto proprietaria
della condizione personale della produzione», ossia delle proprie
soggettive capacità fisiche e intellettuali che chiamiamo
forza-lavoro, venduta al mercato in cambio dei mezzi per vivere.
Quindi, secondo Marx, lo sfruttamento di esseri
umani da parte di altri esseri umani sulla base di determinati
rapporti di proprietà caratterizza il capitale come rapporto
sociale.
Una contrapposizione tra classi sociali oggettiva,
su cui s’innalza l’intero edificio della economia, della società
e dello Stato, della cultura e della politica.
Non ci sono, in tale visione, presunte leggi
economiche che alla stregua di quelle naturali renderebbero
immodificabile lo stato delle cose presente.
Risalendo dalle merci e dunque dal rapporto tra
cose, e da impersonali entità numeriche e quantitative, Marx porta
alla luce le relazioni tra gli esseri umani, che proprio in quanto
tali hanno un inizio e una fine.
E perciò si possono cambiare
edificando una civiltà più avanzata in cui si ridefiniscano i
principi di libertà e di uguaglianza.
Emerge così la possibilità di un processo
rivoluzionario che rovesci l’ordine costituito, e in pari tempo un
filo rosso che lega l’intero percorso di una vita, e che potremmo
chiamare l’umanesimo integrale di Carlo Marx.
Il capitale, sempre mutevole e proteiforme, nel
corso della sua storia e del suo movimento senza fine non ha mai
rinunciato allo sfruttamento del lavoro, a sua volta mai uguale a se
stesso.
Se lo avesse fatto, avrebbe decretato la sua
morte. Con l’ascesa della borghesia – è scritto nel Manifesto
del partito comunista di Marx ed Engels - «si dissolvono tutti
i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di concetti
antichi e venerandi». «All’antica autosufficienza e all’antico
isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale». E
come per la produzione materiale, così per quella intellettuale.
Un processo che ha coinvolto miliardi di esseri
umani, liberando e diffondendo ovunque nel mondo la forza-lavoro,
ovvero la merce indispensabile per ottenere i profitti.
Una merce speciale, di certo non scomparsa nella
fase del capitalismo digitale finanziarizzato e anzi oggi
massimamente diffusa, il cui uso in cambio di un salario genera per
chi la compra un valore superiore al suo costo: un plusvalore
determinato dal lavoro non pagato, che misura il grado di
sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori, ed è alla base del
profitto e dell’accumulazione dei capitali.
Per «forza-lavoro o capacità di
lavoro - chiarisce Marx - intendiamo l’insieme delle
attitudini fisiche e intellettuali (sottolineo intellettuali) che
esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente di un
uomo (e di una donna, diremmo noi oggi), e che egli mette in
movimento ogni volta che produce valori d’uso di qualsiasi genere».
E poiché il suo valore è determinato dai mezzi
di sussistenza necessari a conservare e riprodurre «l’individuo
che lavora nella sua normale vita», ne deriva che il «valore della
forza-lavoro, al contrario che per le altre merci, contiene un
elemento storico e morale».
Una visione che conferma l’umanesimo
integrale di Marx.
Il concetto di classe lavoratrice si riferisce
quindi non all’applicazione tecnica della forza-lavoro in un
determinato procedimento produttivo, ma al fatto che miliardi di
individui, tutti diversi tra loro come persone e indipendentemente
dal lavoro che svolgono, hanno una caratteristica comune: quella di
vendere l’insieme delle proprie capacità fisiche e intellettuali
in cambio dei mezzi per vivere.
D’altra parte, se l’universalità del lavoro
si esprime nella concreta attività e nella vita di ogni persona, ciò
significa - nella visione marxiana - che la liberazione della classe
oppressa non può risolversi nella soppressione della libertà dei
singoli.
E infatti per lui il comunismo è una condizione
sociale nella quale «il libero sviluppo di ciascuno è la condizione
del libero sviluppo di tutti».
Nella condizione sociale del capitalismo, invece,
la separazione del produttore diretto dai mezzi di produzione e dal
prodotto del suo lavoro fa sì che mentre si realizzano nel mercato
le merci che incorporano un plusvalore, si riproduce in pari tempo il
rapporto di proprietà.
Di modo che, annota Marx, dal momento che il
processo produttivo crea non solo il prodotto per il consumatore ma
anche il consumatore per il prodotto, la distribuzione della
ricchezza dipende in ultima analisi dalla distribuzione della
proprietà.
Ma, osserva ancora Marx, «il lavoro non
è la fonte di ogni ricchezza. La natura è la fonte dei valori d’uso
(…) altrettanto quanto il lavoro».
Per questo motivo, il
capitalista proprietario dei mezzi di produzione, al fine di ottenere
un profitto, deve poter disporre del lavoro e della natura, che
vengono coinvolti insieme in un unico meccanismo di sfruttamento.
Diversamente - precisa il nostro interlocutore -
«dal punto di vista di una più elevata formazione economica della
società, la proprietà privata del globo terrestre da parte di
singoli individui apparirà così assurda come la proprietà privata
di un uomo da parte di un altro uomo». I beneficiari dei frutti
della terra, infatti, sono soltanto «i suoi usufruttuari - conclude
- e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come boni patres
familias, alle generazioni successive».
Ancora di recente è stato osservato che, essendo
«l’incremento indefinito del profitto privato» lo scopo
dell’agire capitalistico, ne deriva «inevitabilmente» che il
capitalismo «distrugge la terra, la sua ‘base naturale’».
Ma già lo stesso Marx, in un’altra epoca
storica, aveva notato che il capitale, a un certo grado della sua
crescita, mette a rischio le condizioni stesse della riproduzione di
se medesimo: «la grande industria e l’agricoltura gestita
industrialmente» - scrive - concorrono congiuntamente a dilapidare,
da un lato, «la forza-lavoro, e quindi la forza naturale dell’uomo»,
dall’altro, «la forza naturale della terra».
Qeusto sistema, che sfrutta congiuntamente gli
esseri umani e la natura, incalza Marx, è segnato da una
insuperabile contraddizione. Infatti, per alzare i profitti, il
capitale ha bisogno di contenere i salari, ma i bassi salari
comprimono il potere d’acquisto riducendo la domanda, e quindi
impediscono la realizzazione dei profitti.
Si direbbe che il capitale è vittima delle sue
stesse macchinazioni. In questo sistema piuttosto primitivo non
vengono riconosciuti i bisogni reali, bensì solo quelli solvibili,
espressi in tangibile domanda pagante, l’unica valida per
incamerare un profitto.
Emerge così in modo clamoroso il paradosso del
capitale, per cui, in presenza di crisi da sovrapproduzione per
difetto di domanda pagante, si assiste in pari tempo al diffondersi
della povertà a causa di bisogni reali insoddisfatti.
«Gli economisti che pretendono di spiegare le
periodiche contrazioni di industria e commercio con la speculazione -
annota l’autore del Capitale - assomigliano a quella
scuola ormai scomparsa di filosofi della natura che considerava la
febbre la vera causa di tutte le malattie».
La crisi», precisa, «scoppia dapprima nel campo
della speculazione e solo successivamente passa a quello della
produzione». Perciò agli occhi dell’osservatore superficiale la
speculazione appare come causa della crisi.
Nelle mani del capitalista che punta al massimo
profitto le innovazioni scientifiche e tecnologiche servono per
intensificare il lavoro, ridurre il numero degli addetti, contenere
il monte salari. Di conseguenza, secondo Marx, la diminuzione della
quota degli investimenti destinati alla forza-lavoro generatrice del
plusvalore, rispetto a quella investita in strumenti tecnici, produce
tendenzialmente la caduta del saggio del profitto.
Nel lungo termine non diminuisce la quantità dei
profitti, bensì il livello di remunerazione del capitale rispetto
all’ammontare complessivo degli investimenti.
Contro tale tendenza vengono poste in atto le più
diverse contromisure, ma il segnale è chiaro: il sistema in sé
perde efficienza e ha bisogno di potenti correttivi. E questi vengono
dispiegati non solo nel campo dell’economia, ma anche
nell’organizzazione della società e dello Stato, in quella che
Marx chiama la sovrastruttura, comprendente le istituzioni culturali
e politiche attraverso le quali la classe dominante esercita la
funzione dell’egemonia, del comando e della violenza, fino alle
guerre per la spartizione del mondo. È la storia del capitalismo.
La borghesia - troviamo scritto nel Manifesto
- «non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti
di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto
l’insieme dei rapporti sociali». Dal che si dovrebbe dedurre che
per analizzare le incessanti mutazioni del capitale c’è bisogno di
un pensiero critico dinamico, in divenire, aperto alle continue
innovazioni della scienza e della tecnica, in grado di decodificare
la società capitalistica in continuo movimento. Il contrario delle
varie ortodossie che hanno imbalsamato il pensiero dirompente di
Carlo Marx in un catalogo senza vita di formule e formulette. Non a
caso Marx dichiarava di non essere marxista.
A un certo grado dello sviluppo del sistema - ci
dice Max - si determina una condizione nella quale «i rapporti
borghesi di proprietà, la moderna società borghese, che ha evocato
(…) così potenti mezzi di produzione e di scambio, rassomigliano
allo stregone che non può più dominare le potenze sotterranee da
lui evocate».
In altri termini, i rapporti di proprietà
capitalistici si dimostrano troppo angusti per contenere la
debordante potenza delle forze produttive. La proprietà sociale dei
mezzi di produzione bussa alle porte.
Il punto di massima tensione si raggiunge nella
fase in cui è la scienza stessa a configurarsi come forza produttiva
e motore dell’innovazione, che impiega la tecnica come strumento di
manipolazione e comunicazione. In questa fase il lavoro non scompare,
ma assume caratteristiche sempre più qualificate, di ricerca e di
controllo.
Osserva Marx che quando «l’intero processo di
produzione (…) si presenta come applicazione tecnologica della
scienza» c’è bisogno di una classe lavoratrice «superiore» con
un grado sempre più elevato di conoscenze. Fino a formare
l’intelligenza generale dell’intera comunità. In questa fase -
sottolinea il Moro di Treviri - «la specializzazione cessa», e «la
tendenza verso lo sviluppo integrale dell’individuo comincia a
farsi sentire».
Tuttavia il passaggio a una civiltà superiore, in
cui il rapporto organico tra lavoro e sapere non sia continuamente
spezzato dalla dittatura del capitale, avviene non in modo
automatico, per spontanea evoluzione.
È noto che Marx non intendeva
apparecchiare pietanze per le osterie del futuro, intendendo con ciò
che non era nelle sue corde una visione utopica della nuova società.
Come era a lui del tutto estranea l’idea schematica e primitiva che
il passaggio rivoluzionario a una società superiore possa avvenire
seguendo un modello unico, ovunque e indipendentemente dalle
condizioni storiche concrete.
Ma al di là di come e per quali vie si possa
compiere il rivoluzionamento dell’economia, della società e dello
Stato, per Marx resta fermo il principio che la classe lavoratrice
debba comunque organizzarsi in partito politico, perché - sono sue
parole - «ogni lotta di classe è lotta politica». Senza
«organizzazione dei proletari in classe, e quindi in partito
politico», - aggiunge - coloro i quali vivono del proprio lavoro
restano nella condizione di una massa dispersa e impotente.
Dunque, perché la classe degli sfruttati si
costituisca come tale ha bisogno di riconoscersi come tale,
conquistando coscienza di sé e della propria funzione storica. E ciò
non si ottiene senza l’organizzazione in partito politico, e senza
la visione della politica come strumento di lotta per la liberazione
- cito testualmente - della «enorme maggioranza nell’interesse
dell’enorme maggioranza».
In conclusione possiamo dire che non vi è nel
pensiero di Marx alcun determinismo. Sono gli esseri umani il fattore
decisivo. Questo ci insegna Carlo Marx. Ma proprio perciò, una volta
portato alla luce il meccanismo di funzionamento del capitale, non
basta - come egli ci avverte - interpretare diversamente il mondo.
Occorre agire per trasformarlo.
Paolo Ciofi
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