“Se pensi che a nessuno interessi se sei vivo, prova a saltare il pagamento di un paio di rate dell’auto”.
Nella sua infinita saggezza, spesso ulteriormente dilatata dall’alcool, John Belushi esemplificava così una delle questioni più antiche e annose non solo dell’economia ma della vita: il contrarre un debito.
E se quel semplice essere in ritardo con un paio di scadenze sulla macchina è in sé spiacevole cartina di tornasole dell’essere in vita di qualcuno, preso nella sua interezza debitoria possiamo allora dire che il mondo non solo è vegeto ma scoppia letteralmente di salute.
E’ infatti appena uscito l’aggiornamento del Global Debt Monitor dell’Iif e il responso è, per l’ennesima volta dal 2008 in poi, la rottura di un nuovo record in negativo: il pianeta sta letteralmente annegando nei debiti.
Di ogni genere: sovrani, corporate, privati, finanziari e non finanziari.
Non si salva nessuno.
Nel primo trimestre di quest’anno, infatti, il debito privato totale è pari al 59,8% del Pil, quello delle aziende non finanziarie al 91,4%, quello governativo all’87,2% e quello finanziario all’80,8%.
Il tutto per raggiungere la ragguardevole sommetta di 246 trilioni di dollari, pari quasi al 320% del Pil del pianeta.
Non male, altro che un paio di rate dell’automobile.
Il debito dei Paesi emergenti sia arrivato al suo record assoluto nella serie storica, spinto verso l’alto quasi interamente dalla Cina, le cui aziende al 31 marzo scorso avevano indebitamento per circa 21 trilioni di dollari o pari al 155% del Pil, quando soltanto venti anni fa risultavano attorno al 100% del prodotto interno lordo o 5 trilioni di controvalore di debito.
Lo scorso anno, inoltre, le corporation cinesi hanno emesso il 42% di tutte le obbligazioni corporate dei mercati emergenti.
Tanto, qualcuno che le comprasse c’era sempre: in primis, la Pboc.
Interessi, scadenze e coupon? Ci penseremo più avanti.
Il debito combinato delle 30 principali economie emergenti sia cresciuto al 216,4% del Pil al 31 marzo scorso dal 212,4% dell’anno precedente, spedendo il totale a 69,1 trilioni di dollari.
Una situazione che ha portato Sonja Gibbs. managing director per le iniziative politiche globali dell’Iif, a indossare i panni di un John Belushi più intellettuale e sintetizzare così il quadro: “E’ quasi pavloviano.
I tassi scendono e l’indebitamento sale.
E una volta che i debiti sono stati contratti e si sono sedimentati è difficile farli scendere senza dover stornare fondi da altri obiettivi, come ad esempio investimenti produttivi da parte delle aziende o spesa pubblica da parte dei governi”.
E quando le si fa notare come nelle ultime due decadi, il debito corporate dei Paesi sviluppati sia cresciuto più o meno in linea con il Pil, mentre nelle economie emergenti la prima voce è salita del 50% più rispetto alla seconda, la Gibbs annuisce: “C’è stato un eccessivo e non calibrato accesso di capitali su quei mercati negli ultimi venti anni.
E non solo sul lato corporate ma anche in termini di liabilities contingenti per i governi.
Questo non è un gruppo di Paesi con esperienza nella gestione di stock di debito nel corso dei cicli economici.
Oltretutto, c’è un eccesso di indebitamento corporate a breve termine, una dinamica che espone le aziende in maniera decisamente impattante agli scostamenti dell’appetito di rischio globale”.
Insomma, guai più seri e strutturali nascosti dietro le nude cifre.
Ma una domanda finale sorge spontanea: quando la Gibbs parla di “un eccessivo e non calibrato accesso di capitali su quei mercati negli ultimi venti anni” intende forse mettere in discussione la globalizzazione tout court, lavorando per una delle istituzioni mondiali che ne è stata architrave e sponsor entusiasta?
Nella sua infinita saggezza, spesso ulteriormente dilatata dall’alcool, John Belushi esemplificava così una delle questioni più antiche e annose non solo dell’economia ma della vita: il contrarre un debito.
E se quel semplice essere in ritardo con un paio di scadenze sulla macchina è in sé spiacevole cartina di tornasole dell’essere in vita di qualcuno, preso nella sua interezza debitoria possiamo allora dire che il mondo non solo è vegeto ma scoppia letteralmente di salute.
E’ infatti appena uscito l’aggiornamento del Global Debt Monitor dell’Iif e il responso è, per l’ennesima volta dal 2008 in poi, la rottura di un nuovo record in negativo: il pianeta sta letteralmente annegando nei debiti.
Di ogni genere: sovrani, corporate, privati, finanziari e non finanziari.
Non si salva nessuno.
Nel primo trimestre di quest’anno, infatti, il debito privato totale è pari al 59,8% del Pil, quello delle aziende non finanziarie al 91,4%, quello governativo all’87,2% e quello finanziario all’80,8%.
Il tutto per raggiungere la ragguardevole sommetta di 246 trilioni di dollari, pari quasi al 320% del Pil del pianeta.
Non male, altro che un paio di rate dell’automobile.
Il debito dei Paesi emergenti sia arrivato al suo record assoluto nella serie storica, spinto verso l’alto quasi interamente dalla Cina, le cui aziende al 31 marzo scorso avevano indebitamento per circa 21 trilioni di dollari o pari al 155% del Pil, quando soltanto venti anni fa risultavano attorno al 100% del prodotto interno lordo o 5 trilioni di controvalore di debito.
Lo scorso anno, inoltre, le corporation cinesi hanno emesso il 42% di tutte le obbligazioni corporate dei mercati emergenti.
Tanto, qualcuno che le comprasse c’era sempre: in primis, la Pboc.
Interessi, scadenze e coupon? Ci penseremo più avanti.
Il debito combinato delle 30 principali economie emergenti sia cresciuto al 216,4% del Pil al 31 marzo scorso dal 212,4% dell’anno precedente, spedendo il totale a 69,1 trilioni di dollari.
Una situazione che ha portato Sonja Gibbs. managing director per le iniziative politiche globali dell’Iif, a indossare i panni di un John Belushi più intellettuale e sintetizzare così il quadro: “E’ quasi pavloviano.
I tassi scendono e l’indebitamento sale.
E una volta che i debiti sono stati contratti e si sono sedimentati è difficile farli scendere senza dover stornare fondi da altri obiettivi, come ad esempio investimenti produttivi da parte delle aziende o spesa pubblica da parte dei governi”.
E quando le si fa notare come nelle ultime due decadi, il debito corporate dei Paesi sviluppati sia cresciuto più o meno in linea con il Pil, mentre nelle economie emergenti la prima voce è salita del 50% più rispetto alla seconda, la Gibbs annuisce: “C’è stato un eccessivo e non calibrato accesso di capitali su quei mercati negli ultimi venti anni.
E non solo sul lato corporate ma anche in termini di liabilities contingenti per i governi.
Questo non è un gruppo di Paesi con esperienza nella gestione di stock di debito nel corso dei cicli economici.
Oltretutto, c’è un eccesso di indebitamento corporate a breve termine, una dinamica che espone le aziende in maniera decisamente impattante agli scostamenti dell’appetito di rischio globale”.
Insomma, guai più seri e strutturali nascosti dietro le nude cifre.
Ma una domanda finale sorge spontanea: quando la Gibbs parla di “un eccessivo e non calibrato accesso di capitali su quei mercati negli ultimi venti anni” intende forse mettere in discussione la globalizzazione tout court, lavorando per una delle istituzioni mondiali che ne è stata architrave e sponsor entusiasta?
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