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Storia universale dell’invidia politica

Qualcuno – forse un moralista francese del Grand Siècle, ma va’ a ricordarti – ha osservato che la differenza tra il paganesimo schietto degli antichi e le sofisticherie dei nostri moderni gaudenti consiste in questo: che i Greci e i Romani si accontentavano del letto, a noi serve pure l’armadio a specchio.



Gigioneggiare con i nostri vizi sembra essere ormai una parte irrinunciabile del piacere di coltivarli. 

Prendiamo, per comodità d’inventario, la lista dei sette peccati capitali, che ha già offerto lo schema per un film di serial killer e per una fortunata linea di gelati allo stecco.
-Della gola ci si compiace volentieri, con un accorto dosaggio di vanità e commiserazione, sperando di suscitare negli altri lo sguardo di divertita indulgenza che spetta ai bambini impiastricciati di cioccolato.
-Della lussuria, neppure a parlarne: è quasi un obbligo sociale dare a intendere che sotto le apparenze miti di gentiluomini o colletti bianchi siamo magnifiche e irsute belve dionisiache, anche a beneficio delle eventuali signorine in ascolto (non si sa mai).
-L’accidia, il demone che fiaccava gli asceti sotto il sole a picco, è motivo di civetteria per quella deliziosa bohème che si estende a margine del mondo delle arti e delle lettere, l’insegna del suo ininterrotto bazzicare e bivaccare.
Ma allo specchio, opportunamente agghindata, può far la sua figura anche
-La superbia; anzi, ironizzare sulle proprie manie di grandezza è spesso il macchinoso esercizio di chi, credendosi in cuor suo un genio, trova che il modo migliore per dichiararlo al mondo senza riceverne in cambio pernacchie sia confessare per scherzo di ritenersi appunto un genio.
Perfino quelle due bruttone dell’ira e dell’avarizia si lasciano con qualche riluttanza trascinare davanti a uno specchio, dove potranno riscattarsi, rispettivamente, l’una come temperamento appassionato e l’altra come inclinazione che, coltivata con misura, merita lei pure la sua meschina parte di simpatia.

Tutti i peccati capitali si prestano ad attirare su di sé quella che La Fayette, splendidamente, chiamava “la deliziosa sensazione del sorriso della moltitudine”.

Tutti, tranne uno: l’invidia.
 
L’invidia è l’unico dei sette vizi che non partecipa a quest’orgia di specchiere, e anzi è costretta a nascondersi come un ripugnante aborto di natura.
Il riflesso pavloviano del citazionista porta ad associarla al green-eyed monster dell’Otello, e un mostro è bene che se ne stia al riparo dagli occhi del mondo (il gelato allo stecco intitolato all’invidia era al gusto di pistacchio, sì, ma a ricoprire il verde c’era un pudico strato di cioccolato).

L’invidia è la cenerentola non invitata al festino dell’adulazione universale e dell’universale compiacenza: cresce, al buio e in solitudine, come una malapianta o un segreto vergognoso.
Allo specchio proprio non ci può stare, oltretutto, perché innescherebbe un cortocircuito logico ed etimologico: in videre è appunto guardar contro, con occhio ostile, e specchiarsi nella propria invidia equivale letteralmente a gettarsi da soli il malocchio.
Ma la ragione di questa discrezione è un’altra, crediamo, e più profonda: l’invidia è la testata d’angolo, il fondamento inconfessabile della nostra società – e chissà, pure di tutte le altre.

È il terreno instabile su cui si fanno e disfanno i governi, si appiccano le rivoluzioni, si scatenano assalti ai forni e jacquerie, si instaura o si sfalda la pace civile. 

Compare già al grado infimo della vita associata, non appena un uomo respira la stessa aria di un suo simile, che siano i proverbiali vicini dall’erba più verde, o (per gli anglofoni) gli altrettanto proverbiali Jones con cui bisogna keeping up, stare al passo, o perfino il proprio fratello carnale.
Dall’invidia fratricida nascono gli Stati, come illustra il caso di Romolo, o addirittura la civiltà tout court, perché il primo fondatore di città portava il nome di Caino.
Sono verità poco onorevoli, infide scudisciate al narcisismo della specie, e proprio per questo difficilmente le vedremmo uscire dalla penna di un pensatore progressista, nelle cui pagine l’osservazione dell’uomo è sempre declinata al condizionale, la vista delle cose come sono è impedita dalle congetture su come dovrebbero essere, e l’invidia è addolcita di volta in volta in conflitto sociale, lotta di classe o legittima aspirazione all’uguaglianza.
E anche se non siamo abituati alla loro compagnia, è alla famiglia più intrattabile dei conservatori – sottospecie: ossessionati da peccato originale, male radicale, legno storto e altri difetti di fabbrica – che dobbiamo chiedere lumi.

Nel caso di specie a un sociologo tedesco, o meglio a un moralista camuffato da sociologo di nome Helmut Schoeck, e al libro che pubblicò sul finire degli anni Sessanta, mentre montava la grande ondata livellatrice ed egualitaria: L’invidia e la società.

Ogni compagine umana, passata o presente, era osservata sotto un solo aspetto, il suo fare i conti con l’elemento creativo o distruttivo dell’invidia: gli Stati capitalisti dell’occidente tentavano di trasmutare l’invidia in competizione così da farne, per quanto possibile, una virtù civica; gli Stati marxisti dell’est cercavano al contrario di sbarazzarsene con la falce pareggiatrice della mortificazione generale, ma invano: la vedevano moltiplicarsi come un’idra.

“In Germania, il nazionalsocialismo conquistò il potere grazie alle promesse fatte agli invidiosi, fra cui quelle di limitare il reddito a mille marchi, di abolire i ‘redditi non da lavoro’, eccetera.

I movimenti rivoluzionari nelle repubbliche sudamericane, i bolscevichi in Russia, i populisti negli Stati Uniti, tutti costoro furono sostenuti da settori popolari la cui prima preoccupazione è evidentemente quella di livellare la società”.

E perfino le società arcaiche vagheggiate da certi utopisti bucolici come incarnazioni del comunismo primitivo, a uno sguardo più attento si rivelano come postacci invivibili, dove l’occupazione principale era gettarsi il malocchio a vicenda e ogni malanno era fatto rimontare alla magia nera degli stregoni invidiosi.

Il problema, come si vede, è piuttosto antico, e il primo saggio di politica dell’invidia si può scovare addirittura nel libro della Genesi.
Siamo in tempi di carestia e Isacco, su imbeccata dell’Altissimo, si trasferisce a Gerar, nel paese dei Filistei.
Qui, con il favore del cielo, mette su una fortuna: “E l’uomo divenne ricco e crebbe tanto in ricchezze fino a divenire ricchissimo: possedeva greggi di piccolo e di grosso bestiame e numerosi schiavi e i Filistei cominciarono a invidiarlo”.

Per dispetto questi gli riempiono i pozzi di terra, e il loro re Abimèlech intima a Isacco di sparire dalla circolazione, o perlomeno di sloggiare in fretta verso la periferia, perché la vista della sua prosperità rende verdi i Filistei.

Nulla di nuovo sotto il sole? Forse qualcosa è cambiato dai tempi biblici, perché oggi i filistei (con la minuscola) non si limiterebbero a ostruire i pozzi d’acqua: metterebbero per iscritto il loro risentimento in un best-seller dal titolo La casta del bestiame, oppure Elettopoli: i super-raccomandati di Dio.

Lo si troverebbe, sullo scaffale, in buona compagnia con La casta; L’altra casta; L’ultracasta, La casta della monnezza; La casta dei giornali; Casta stampata; La casta dei farmaci; La casta bianca; La casta delle regioni; La casta dell’acqua; La casta dei casti quanto ci costa?; La santa casta della Chiesa; La casta ci incastra; Insultiamoli! 

Il piccolo libro degli insulti alla casta; nonché, imprescindibile, Perché sono uscito dalla casta di Willer Bordon – quando il grande enigma è, semmai, perché ce l’abbiano fatto entrare.
Ne abbiamo omessa una mezza dozzina, e solo tra quelli che portano nel titolo la parola incriminata. Ad avere uno stomaco resistente alle brutture linguistiche, però, se ne potrebbero trovare altrettanti tra i titoli con suffisso in -opoli (parentopoli, sanitopoli, calciopoli, sprecopoli, italiopoli, mafiopoli, e poi chissà), o usando parole chiave come “padroni” e “intoccabili”. Che poi, detto di passaggio, il libro battistrada di Stella e Rizzo (La casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili) mette insieme due parole – casta e intoccabili – che a qualunque orecchiante d’indologia non evocano certo Jacuzzi, escort e voli di Stato, già che la casta degli intoccabili, i paria, è la più miserabile della gerarchia.

Se volessimo vedere il lato buono della vicenda, da liberali confidenti e costruttivi, diremmo che dietro la retorica della casta molti prendono finalmente coscienza dei mali d’un paese che si è liberato dei fasci ma non delle corporazioni. 

La verità è che di questa consapevolezza non c’è ombra, e che la voce casta si è andata ad aggiungere al lessico del provincialismo piagnone e del rosicamento politico-esistenziale, accanto a cricca, loggia, poteri forti, salotti buoni, conventicola, compagni di merende, furbetti del quartierino, gelatina, massoneria, inciucio, per finire con l’incolpevole lobby, che in America ha un suono così civile e che in Italia fa pensare chissà perché ai Savi di Sion o agli Illuminati di Baviera.
Forse dovremmo rinunciare a pescare nel Gange le nostre categorie interpretative, con tante scuse a Louis Dumont, e dire più semplicemente che l’Italia degli ultimi anni ha dei conti in sospeso con la rapacità delle sue élite.

Parola troppo nobile?

Non proprio, se stiamo alla definizione che ne dava il suo più grande teorico, il sociologo Vilfredo Pareto, e usiamo il vecchio sistema dei punteggi che proponeva quasi cent’anni fa nel Trattato di sociologia generale: “A chi ha saputo guadagnare milioni, bene o male che sia, daremo dieci, a chi guadagna le migliaia di lire daremo 6, a chi riesce appena a non morire di fame daremo 1, a chi sta in un ricovero di mendicità daremo 0.

Alla donna ‘politica’ che, come l’Aspasia di Pericle, la Maintenon di Luigi XIV, la Pompadour di Luigi XV, ha saputo cattivarsi un uomo potente ed ha parte nel governo che egli fa della cosa pubblica, daremo qualche numero alto come 8 o 9; alla sgualdrina che soddisfa solo i sensi di tali uomini e non opera per niente sulla cosa pubblica, daremo zero.
Al valente scroccone che mette in mezzo la gente e sa sfuggire al codice penale, assegneremo 8, 9 o 10, secondo il numero dei gonzi che avrà saputo prendere nella rete e i denari che avrà saputo cavarne; al povero scrocconcello che ruba una posata al trattore e per giunta si fa agguantare dai carabinieri, daremo 1”. Definizione limpidamente amorale, come si vede, che include nell’élite gli accumulatori di grandi e dubbie fortune, le cortigiane di altissimo bordo e gli eroici aggiratori della legge.
Ci si potrebbero riconoscere perfino i professionisti dell’anticasta, così come troverebbero congeniale la teoria di Pareto applicata ai ceti governanti: “Il cartellino di ‘avvocato’ indica un uomo che dovrebbe sapere di legge, e che spesso ne sa veramente, ma che alcune volte ne sa niente.
Analogamente nella classe eletta di governo stanno coloro che hanno il cartellino di uffici politici non troppo bassi, per esempio, ministri, senatori, deputati, capi divisione nei ministeri, presidenti di corte d’appello, generali, colonnelli, ecc.; colle debite eccezioni di chi è riuscito ad imbrancarsi fra costoro senza avere le qualità corrispondenti al cartellino che ha ottenuto” (ed ecco svelato l’enigma Bordon).

Ora, lo stato presente dell’Italia, di scatenamento generale della pubblica invidia, dove tutti s’infuriano contro i privilegi di tutti – e però ogni categoria, perfino la più privilegiata, lamenta che i veri appartenenti alla casta siano altri e altrove (l’invidia, ricordiamolo, non può guardarsi allo specchio) – ha molto a che fare con la stagnazione delle sue classi dirigenti, protervamente impermeabili a ogni sconfitta e a ogni cambio di stagione.

Non ci vogliono nozioni avanzate d’idraulica per accorgersi che l’impianto del potere nazionale è più otturato dei pozzi di Isacco, e che ci sono molti intoppi in quella che Pareto chiamava circolazione delle élite: “è causa potente di turbamento dell’equilibrio l’accumularsi di elementi superiori nelle classi inferiori e, viceversa, di elementi inferiori nelle classi superiori”.
Ecco, non sapremmo dire se le classi inferiori pullulino o meno di talenti soffocati, ma è innegabile che lo spettacolo dei piani alti somiglia ogni giorno di più a un freak show.
Per il resto, le aristocrazie nostrane si riproducono o per vie dinastiche, sull’asse Serbelloni Mazzanti Viendalmare, o per vie d’oscura elezione giansenistica (cooptazione nell’empireo o nel Transatlantico), e se proprio dovessimo enunciare una legge di circolazione delle élite italiane sarebbe probabilmente analoga alla legge della riproposizione dei peperoni dopo un pranzo fuoriporta, o se volete a quella che ispira format televisivi come Meteore o L’isola dei famosi: presto o tardi, ricicciano tutti.
Ci son facce di cui non c’è speranza di sbarazzarsi. Scartata la via di Cincinnato (ritorno ai campi) e quella della Contessa di Castiglione (segregazione dietro pesanti tendaggi perché nessuno veda l’onta della decadenza), coloro che abbandonano la scena pubblica entrano in una latenza più o meno prolungata da cui riemergeranno, ci si può scommettere, per incombere sulla patria come spiriti degli antenati, revenant o erinni.

Ma come scongiurare, o almeno mitigare, la grandinata del risentimento pubblico?

Le imbeccate più sagge le ha date quattrocento anni fa il lord cancelliere Francesco Bacone (condannato per corruzione nel 1621, dunque gli è preclusa la pubblicazione su MicroMega).
Verso la fine del suo saggio sull’invidia, Of Envy, Bacone veniva a discutere dell’invidia pubblica, e stabiliva che anzitutto nulla eccita l’invidia quanto l’accorgersi che gli invidiati ne hanno paura.
Vale lo stesso per i cani: il più batuffoloso dei barboncini diventa un leone se fiuta un tremar di ginocchia. E dunque, specie in un paese che corre in soccorso ai vincitori ma non perdona ai vinti, torna utile l’indicazione di Bacone secondo cui, una volta che sulle classi governanti pende il malcontento generale, a nulla serve tentare di sedarlo con qualche misura demagogica: sarebbe come confessare vulnerabilità alla pubblica invidia.

Tradotto in termini correnti: gettare la libbra di carne di un Alfonso Papa qualunque nella fossa dei leoni, o dare una scorciatina ai privilegi dei parlamentari, giusto o sbagliato che sia non ritarda di un giorno il precipitare della crisi, semmai lo accelera.
D’altro canto, dice sempre Bacone, l’invidia è eccitata allo stesso modo dalle inutili esibizioni di strafottenza, e “gli uomini saggi faranno bene a sacrificare qualcosa sull’altare dell’invidia permettendo essi stessi, talvolta del tutto intenzionalmente, che alcune cose vadano loro male, o soccombendo in cose a cui non tengono troppo”.

Ecco, si raffrontino queste parole allo spettacolo degno di Grosz allestito l’autunno scorso davanti a Montecitorio, l’abbuffata della pace tra Bossi e Alemanno a base di polenta, trippa e coda alla vaccinara, con la Polverini che agitava il mestolone, Calderoli che s’imbrattava di sugo e altri orrori espressionisti da toglier le parole di bocca ai grillini e il mestiere ai caricaturisti. Se Martinazzoli fosse ancora tra noi, ci ricorderebbe forse di quei nobili descritti da Manzoni nel racconto della peste che si aggiravano per Milano in abiti modesti, “o che temessero di provocare col fasto la pubblica disperazione, o che si vergognassero d’insultare alla pubblica calamità”.

Governare, è governare l’invidia: distribuirne l’onere, indirizzarne il corso, tenerla a freno.

Nulla lo mostra meglio della millenaria storia delle cosiddette leggi suntuarie, che punivano, specie in tempo di miseria, l’esibizione del lusso.
“La romana Lex Didia (143 a.C.), valida per tutta l’Italia, prevedeva pene per chi offriva e per chi accettava pranzi sontuosi.

Spesso le leggi sul lusso colpivano un cibo ricercato che faceva la sua prima comparsa sul mercato, come i toporagni o i frutti di mare”.
Così Helmut Schoeck nell’Invidia e la società.
Ora, la grigliata di toporagno può piacere o non piacere, su questo non discutiamo, ma è certo che leggi di tal fatta, esortando peraltro alla delazione maligna (il vicino di casa non invitato al banchetto e irritato dai fumi delle costolette di toporagno), facessero del risentimento un instrumentum regni. L’invidia è un elemento d’instabilità, di alea, da cui tanto l’invidioso quanto l’invidiato devono schermarsi, il fulmine che ciascuno cerca di stornare dalla propria casa.
E quando la pubblica invidia raggiunge i livelli di guardia, ecco comparire in scena il benintenzionato che richiama alla morigeratezza degli antenati, o invoca i Mani berlingueriani dell’austerità.
I ricchi si trovano di punto in bianco colpevoli di esser ricchi, e perfino i calciatori – l’unica aristocrazia riconosciuta da che la Costituzione ha abolito i titoli nobiliari – appaiono di colpo come un clan di oligarchi superpagati.
Che sia giusto o meno tassare i più ricchi in tempi duri (di certo è ingiusto tassare i più poveri), non è questo il punto; è il fumus di spedizione punitiva che accompagna tali propositi.

Come ironizza Schoeck, non occorre grande sforzo per trovare l’elemento comune tra “una tassa sul reddito radicalmente progressiva, una tassa di successione che ha tutti i caratteri di una confisca, o le corrispettive usanze dei primitivi, come le incursioni predatorie dei Maori”, che praticavano il muru o latrocinio riparatore.

È il governo dell’invidia.
Il moralista non può tesserne certo le lodi, ma lo stratega politico deve trovare il modo di arginarne le acque melmose, incanalarle, deviarle nella direzione che più conviene al bene pubblico.
Farne per quel che è possibile una forza costruttiva, trasmutarla in qualcosa che non serbi nell’aspetto memoria dei suoi natali ignobili.
E invece, quel che abbiamo sotto gli occhi è un ceto politico che rimesta in questa melma nera, come la Polverini nella polenta della pace, senza saper che farsene.
I partiti di governo la temono, e temendola la attizzano.
Le opposizioni raziocinanti pure la temono, e finiscono per cavalcarla così goffamente che ne sono disarcionati.

A capitalizzare l’invidia pubblica è solo la grande alleanza trasversale degli sfascisti, per usare un conio pannelliano: le varie declinazioni del qualunquismo dipietrista, grillino, travaglino o anche leghista, feltriano, fascista.

La vanno a raccattare in giro per l’Italia, ovunque si annidi, e la rivomitano sulla scena pubblica così com’è, senza neppure imbellettarla un poco.
E così, tra chi la aizza e chi la teme, la public envy nazionale non serve a costruire un bel nulla.
Una chiusa consolante potrebbe suonare così: per riottenere la pace sociale, si sradichi l’invidia abbattendone le cause, e cioè abolendo uno dopo l’altro i privilegi che la alimentano.
Chi pensa così, sottovaluta fatalmente la natura della bestia: dell’invidia non ci si libera, e molti di quelli che oggi gridano allo scandalo dell’auto blu domani strepiterebbero altrettanto se ai parlamentari fosse assegnato, in sostituzione, un monopattino blu.
E d’altra parte ci si è già provato, e troppo a lungo, e non ha funzionato: “La vera tragedia dell’ideologia socialista sta nel tentativo di dipanare un programma di misure coercitive dal presunto dovere di creare una società di uguali, affrancati dall’invidia”, scriveva ancora il moralista-sociologo Helmut Schoeck.

Se c’è qualcosa da imparare da quel grandioso fallimento lungo un secolo è che l’invidia, pure a esaudire tutti i suoi voti e tutti i suoi capricci, non la si estirpa. Venisse anche meno l’invidia economica, rimarrebbe quella tra generazioni, o l’invidia dei brutti per i belli. I brutti, si può dire, sono le colonne d’Ercole del socialismo, i destinatari dell’ingiustizia più inemendabile.
Eppure, nella scala a chiocciola degli incubi c’è sempre il gradino successivo.

In questo caso, provò a scenderlo lo scrittore inglese Leslie Poles Hartley in un’utopia negativa dai toni swiftiani, Giustizia facciale, romanzo uscito nel 1960 (e riproposto in Italia da Liberilibri).
Il pianeta, ridotto a pochi milioni di abitanti dopo che la terza guerra mondiale ha spazzato via il grosso dell’umanità, è retto da una dittatura benevola ma inflessibile che ha fondato ideologia e rituale su due pilastri, la buona e la cattiva E: Equality ed Envy (Identità e Invidia, nell’edizione italiana).
Chiunque pronunci la buona E deve accompagnarla con una riverenza, e non sia mai che si lasci scappare di bocca la cattiva E senza sputare in terra in segno di disprezzo.
Nel mondo nuovo sono ormai raggiunte la giustizia economica, la giustizia sociale, la giustizia legale.
È tutto un panorama uniforme di casette a fungo, basse e senza spigoli (vietati gli angoli retti), dove non ci sono automobili ma si può andare (adagio) a cavallo; nelle chiese non si biascica che una litania, e lo svago obbligatorio del casinò non consente che vincite modeste, tali da non insinuare negli animi la cattiva E.
Perfino i pronomi possessivi sono messi al bando – non si dirà, di qualcosa, “è mio” bensì “ne sono depositario” – e dalle impennate caratteriali ci si tutela somministrando il bromuro.
Rimane, tuttavia, l’increscioso problema dei belli, e in primo luogo delle belle. Che hanno la colpa imperdonabile di attirarsi sguardi invidiosi e di turbare la pace, incrinare i matrimoni, sbilanciare gli animi.
La loro apparenza è in sé antisociale, e come tale va castigata.
E così, nel mondo orizzontale di Facial Justice, dove non è consentito neppure di sollevare gli occhi al cielo, le bellezze catalogate come tipo Alpha devono recarsi al Centro di adeguamento facciale e sottoporsi all’intervento che le declasserà a comuni ragazze Beta, facce standard ricoperte dal surrogato “Pelle Vittoria”, con il trucco già fatto, insensibile ai baci. Non attireranno più il malocchio delle brutte, è vero, ma neppure l’occhio degli innamorati.

Articolo uscito sul Foglio sabato 10 settembre 2011 con il titolo È l’invidia la madre di ogni retorica anticasta

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