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FONDI STRUTTURALI EUROPEI: MA SONO DAVVERO UN''OPPORTUNITA'?

Un articolo piuttosto lungo, esaustivo però per capire come hanno funzionato e funzionano i fondi europei.  Ho evidenziato alcuni passaggi ritenendoli utili..  a fine lettura non si può che affermare di quanto siamo pecoroni.

A chi comincia a mettere in dubbio che l'appartenenza all'Unione Europea apporti più vantaggi che svantaggi, quelli che al contrario continuano ostinatamente a credere nel "sogno europeo" ribattono indicando l'incapacità dell'Italia di spendere gli stessi fondi che l'Europa ci metterebbe a disposizione.
 Perché ci lamentiamo della mancanza di risorse economico-finanziarie, dicono, se quando ce le offrono le rifiutiamo per incapacità di utilizzo?
E poi, quando le utilizziamo, lo facciamo così male che finiscono per non servire ai nobili fini che ci vengono indicati (aumento della coesione sociale e territoriale, riduzione degli squilibri al fine di colmare gli svantaggi competitivi, integrazione delle diverse aree politico-territoriali), ma solo ad alimentare gli sprechi a vantaggio dei "clientes" di politici e amministratori locali.
 
Sembrerebbe tuttavia esserci una contraddizione in questo ragionamento: perché mai, infatti, una classe politica che si dimostra sempre così ricca di ingordigia, nonché alla perenne ricerca di consensi clientelari, dovrebbe rinunciare a cuor leggero a servirsi di una porzione cospicua di risorse finanziarie date, per così dire, "gratis", senza neppure comportare un aumento del debito e del deficit?

E, dal momento che ne utilizziamo sempre molto meno di quante ne abbiamo a disposizione, non avremmo alcuna ragione di lamentarci se ci lesinano sempre più le risorse, né avremmo il diritto di protestare le volte che ci richiedono i soldi indietro, quando l'Unione Europea si accorge che la stiamo truffando!
E neppure dovremmo lamentarci se i soldi ci vengono concessi solo a fronte di corrispettivi impegni finanziari per contribuire ai progetti né protestare se questi devono poi essere passati al vaglio di Bruxelles.
Tanto meno dovremmo essere contrariati per l'indicazione di aree e obiettivi scelti dall'UE in maniera lungimirante e al riparo da influenze clientelari locali, a cui l'Italia al contrario non sarebbe in grado di resistere, quasi per un suo caratteristico vizio atavico inestirpabile.
Secondo la "logica" di questo discorso la colpa sarebbe solo nostra, che non sapremmo o non vorremmo sintonizzarci sulle indicazioni che l'Unione Europea ci fornisce per usufruire al meglio degli "aiuti" che potrebbero permetterci di colmare il divario competitivo con gli Stati più forti della UE consentendo ai diversi Paesi di crescere tutti insieme in Europa in maniera armoniosa e coordinata.
 
 Viene detto: «nell’ambito del futuro quadro finanziario pluriennale la spesa dovrà essere mobilitata a sostegno della crescita, dell'occupazione, della competitività e della convergenza, in linea con la strategia Europa 2020». 

Tutto questo dovrebbe portare al riconoscimento che sia stata cosa buona e giusta l'aver rinunciato all'esercizio sovrano delle scelte politiche ed economiche, delegandole a chi è ben più capace della nostra classe politica di scegliere per noi e guidarci.
Lo stesso fatto che non riusciamo a trarne beneficio non sarebbe che la conferma della necessità di affidarci in maniera ancora maggiore e più diretta alle istituzioni politiche e finanziarie europee.
Insomma, c’è la necessità di avere ancora "più Europa".
Ma è proprio così?

È un dato ineluttabile che dobbiamo avere una classe politica capace di pensare solo al proprio tornaconto immediato e/o di essere in genere così inadeguata?
Ed è sicuro che la soluzione migliore sia rinunciare alla sovranità e, allo stesso tempo, alla possibilità di esercitare scelte veramente democratiche e nell'interesse del nostro popolo?

E davvero questi fondi, se spesi tutti e nei migliori modi proposti dall'Unione Europea, potrebbero avere una funzione salvifica di carattere anticiclico, in grado di controbilanciare le misure di austerity che ci vengono propinate?
Per tentare di dare un giudizio non approssimativo o fondato quasi soltanto su pregiudizi ideologici, converrà esaminare meglio la natura di questi fondi e in che modo sia possibile utilizzarli.
 
Le politiche di «coesione» dell'Unione Europea
  Le politiche cosiddette di «coesione» nascono, secondo quanto enunciato, «con lo scopo di ridurre gli squilibri economici regionali all’interno dei Paesi Membri ed all’interno del territorio comunitario» (Trattato CEE, 1957).
A ciò, a parole, si ispirerebbe tutta l’azione politica comunitaria, con l’obiettivo di «raggiungere uno sviluppo maggiormente equilibrato riducendo le disparità esistenti, prevenendo gli squilibri territoriali e rendendo più coerenti le politiche settoriali» (Commissione Europea, 2004).
 
L’Italia è un contributore netto dell’Unione Europea, cioè versa ben più di quanto riceve.
Inoltre è da sempre anche il maggiore contributore netto d’Europa rispetto al proprio PIL.
Tuttavia Letta ha sostenuto, nel giugno dello scorso anno, di avere conseguito una grande vittoria, per aver ottenuto di poter «beneficiare» di un saldo, ancor sempre ampiamente negativo, ma in misura inferiore.
Infatti l'Italia dovrebbe passare dagli oltre sei miliardi di media negli ultimi sette anni, a circa quattro miliardi di saldo negativo l’anno verso la UE, per il periodo 2014-2020.
E questo presumendo di utilizzare tutti i fondi messi, per così dire, a disposizione, che peraltro vengono utilizzati solo in parte.
Perciò se si sommano anche le somme dei fondi non utilizzati, il saldo negativo annuale dovrebbe aumentare di almeno altri due miliardi. Senza considerare tutte le sanzioni salate che l'Europa ci infligge con le motivazioni più svariate!
 
Quanto ai fondi, mentre per il periodo 2000-2006 ne sono stati utilizzati circa il 70%, per il settennato in scadenza siamo arrivati al 52%, e questo in seguito alla rincorsa a tappe forzate messa in atto dal ministro Fabrizio Barca, senza badare troppo alla qualità dei progetti da finanziare e alla congruità delle cifre espresse nelle fatture.

La maggior difficoltà ad utilizzare i fondi è in parte connessa alla crisi economica aggravata dall'inasprirsi del patto di stabilità, che ne ostacola il cofinanziamento, in parte dovuta al cambio delle regole burocratiche e delle procedure che nei fatti diventano sempre più farraginose, pur se viene enunciato l'esatto contrario. 

È facilmente immaginabile che nel settennato che deve cominciare, con l'introduzione dei nuovi criteri «di condizionalità macroeconomica» e vari altri ostacoli che vedremo, poter utilizzare i fondi sarà ancora più difficile.
Perciò il saldo negativo non potrà che ampliarsi.
Nel documento generale di programmazione dei fondi per il 2014-2020 (ma anche, mutando giusto qualche virgola, in tutti gli altri documenti), si ribadisce: «Nel contempo, mentre in Europa si assiste ad un rafforzamento della disciplina di bilancio, è essenziale che il prossimo QFP (Quadro Finanziario Pluriennale) rispecchi gli sforzi di risanamento attualmente compiuti dagli Stati membri per condurre il disavanzo e il debito su una via più sostenibile, contribuendo così in modo più efficace o più rapido al raggiungimento di obiettivi politici comuni concordati e riducendo la spesa nazionale.

Gli Stati membri garantiscono che la strategia e le azioni previste nei programmi operativi siano coerenti e conformi alla risoluzione dei problemi individuati nei programmi nazionali di riforma, nonché, se del caso, nelle altre strategie nazionali intese a contrastare la disoccupazione e l'esclusione sociale.... al fine di contribuire alla realizzazione dei principali obiettivi della strategia Europa 2020 in materia di occupazione, di istruzione e di riduzione della povertà...».

Torna immancabilmente l'affermazione per cui lo sviluppo e la crescita, nonché la coesione sociale e la riduzione delle disparità, si perseguirebbero continuando a richiedere «disciplina di bilancio» e perciò riducendo la spesa pubblica, come se questi obiettivi non fossero tra loro incompatibili!

In diversi documenti ufficiali, viene ripetutamente ricordato che «rafforzare la coesione economica, sociale e territoriale eliminando le principali disparità regionali dell'Unione, non può essere conseguito in misura sufficiente dagli Stati membri, ma può invece, a motivo delle eccessive disparità tra i livelli di sviluppo delle varie regioni nonché del ritardo delle regioni meno favorite e delle limitate risorse finanziarie degli Stati membri e delle regioni, essere conseguito meglio a livello di Unione; quest'ultima può intervenire in base al principio di sussidiarietà sancito dall'articolo 5 del trattato sull'Unione Europea».

Naturalmente non viene detto che le «limitate risorse finanziarie» sono dovute innanzitutto all'obbligo di rispettare i parametri del deficit e in parte anche ai conferimenti in sede europea, ben maggiori di quelli messi a disposizione, in pratica restituiti, a date condizioni, attraverso i fondi europei.
La programmazione europea è settennale e definisce obiettivi ogni volta in parte diversi, anche se poi in realtà variano spesso più nei termini che nella sostanza.
 
La Commissione Europea ha proclamato che la programmazione per il prossimo settennato (2014-2020) dovrà avere alla base il tema della crescita.
In relazione a questa finalità la Commissione ha enunciato i seguenti obiettivi da raggiungere:

– il 75% delle persone di età compresa tra 20 e 64 anni deve avere un lavoro (quindi tra tutti, non solo tra quelli alla ricerca);
– il 3% del PIL dell'UE deve essere investito in R&S (Ricerca e sviluppo);
– i traguardi "20/20/20" in materia di clima/energia devono essere raggiunti (compreso un incremento del 30% della riduzione delle emissioni se le condizioni lo permettono);
– il tasso di abbandono scolastico deve essere inferiore al 10% e almeno il 40% dei giovani deve essere laureato;
– 20 milioni di persone in meno devono essere a rischio di povertà.

Gli obiettivi dichiarati sono piuttosto ambiziosi, ma del tutto irrealistici in quanto contrapposti a quelli che di fatto perseguono le politiche europee fondate sull'appoggio alla sfrenata competizione liberista globale e sull'obbligo a tagliare sempre più la spesa pubblica di carattere sociale e gli stessi investimenti, non esclusi quelli in ricerca e sviluppo.

Ha un senso costringere gli Stati a tagliare sempre più la spesa pubblica e poi enunciare pomposamente che la UE si propone di conseguire gli obiettivi di cui sopra?
E in che modo penserebbe di arrivarci?
Dando un "aiutino" differenziato ad ogni Stato, consistente nella restituzione solo di una quota parte delle risorse economiche che quello Stato aveva conferito all'UE, vincolandola a programmi che devono essere approvati in sede europea? E magari poi accusando diversi Stati nazionali di non saper raggiungere quegli obiettivi attraverso gli "aiuti" concessi e perciò punendoli, con la sospensione o riduzione di fondi già promessi e pertanto già contabilizzati nei programmi nazionali?

Si dice ancora: «...I fondi europei costituiscono un fattore trainante per la ripresa economica e un'espressione concreta di solidarietà tra gli Stati membri. In un periodo di forte crisi economica, essi apportano un contributo essenziale alla prosperità futura dell'Europa sostenendo la creazione di posti di lavoro, la competitività, la crescita economica, tenori di vita più elevati e lo sviluppo sostenibile. 

La politica dell’Unione mira a ridurre le notevoli disparità economiche, sociali e territoriali che tuttora sussistono tra le regioni europee».
Si riconosce che i fondi europei sarebbero necessari proprio in considerazione del contemporaneo obbligo a ridurre la spesa che ogni Stato è in grado di effettuare sovranamente su  risorse proprie.
È opinione comune, in Italia, che i fondi europei costituiscano una fonte preziosa (quando non addirittura l'unica possibile) per sostenere l'economia nazionale e che pertanto occorra fare ogni sforzo per utilizzarli al massimo.
Ma davvero i fondi europei sono stati creati per questo scopo e svolgono una funzione così unilateralmente benefica e importante?
 
Gli strumenti dell'Unione Europea per "aiutare" gli Stati
 
I fondi in genere sono finanziamenti a fondo perduto e si dividono in due raggruppamenti principali:

Fondi Diretti.
 Sono finanziamenti erogati direttamente dalla Commissione Europea attraverso le proprie Direzioni Generali e/o Agenzie Esecutive, sulla base di programmi di finanziamento 'tematici' a beneficiari appartenenti a diverse categorie (università, imprese, associazioni).
Ne vengono creati continuamenti diversi, per denominazione e finalità.
 
• Fondi Indiretti o Strutturali.
Sono dati dalla CE agli Stati membri e soprattutto alle loro Regioni. Nel periodo 2014-2020, l’Unione Europea metterà a disposizione per tutti i Paesi europei, complessivamente, 325 miliardi (circa un terzo del bilancio UE), appena un po' meno dei 347,41 miliardi che erano stati previsti per il settennato precedente 2007-2013, mentre per gli anni tra il 2000 e il 2006 gli stanziamenti programmati ammontavano a 195 miliardi (ma allora alla UE avevano aderito solo 15 Paesi, mentre in seguito la programmazione ha tenuto conto dell'allargamento a 25, poi diventati 27 e ora 28, con l'adesione della Croazia a luglio del 2013).
In realtà quelli effettivamente erogati sono sempre stati molto di meno, per la cosiddetta «incapacità a spenderli» dei vari Stati, chi più chi meno.
Impegnano il 37,5% del bilancio complessivo dell'Unione Europea. I fondi ricevuti dall'Italia nel ciclo 2000-2006 si aggirano sui 34 miliardi di euro.
Per il ciclo successivo, a motivo dell'ingresso di nuovi Stati in genere più "poveri", i finanziamenti sono stati lievemente inferiori, cioè di circa 28,8 miliardi.
Spesso si leggono cifre molto diverse, in genere superiori, a volte perché erroneamente (per colpa o per dolo) vi vengono conteggiati anche i fondi relativi al cofinanziamento nazionale o perfino altri, come i FSC (fondo sviluppo e coesione = ex fondo FAS, fondo aree sottoutilizzate), che attingono a risorse unicamente nazionali e sono sottoposti alle regole limitative del patto di stabilità.

L'Unione Europea, oltre a prescrivere l'obbligatorietà del cofinanziamento, raccomanda l'utilizzo dei fondi FSC a complemento, in modo da farli convergere tutti verso gli obiettivi che la stessa CE afferma di considerare prioritari.
Ciò significa che non dobbiamo utilizzare i fondi europei per ciò che riteniamo più utile a soddisfare i bisogni nazionali, ma che dovremmo spendere gli stessi fondi nazionali secondo ciò che è indicato come giusto e necessario dall'Unione Europea!

Nel prossimo ciclo, le risorse stanziate direttamente dalla UE per l´Italia a titolo di fondi strutturali dovrebbero ammontare a poco meno di trenta miliardi di euro, divisi su sette anni, di cui più dei due terzi per le regioni meno sviluppate.
A volte si trovano cifre leggermente superiori, poco sopra i 30 miliardi, probabilmente perché vengono aggiunte al conteggio quote di fondi minori, in genere non catalogati come strutturali, come quello per gli indigenti (659 milioni), insieme a diversi altri.

Pertanto è da sfatare che i fondi strutturali europei a disposizione siano poi così tanti.
Sono al massimo, nel remoto caso venissero utilizzati tutti, poco più di quattro miliardi l'anno.
L'Italia grossomodo riceve a titolo di altri fondi e soprattutto come aiuti diretti agli agricoltori, altrettanto o qualcosa di più, mentre a sua volta contribuisce in modo diretto e indiretto al bilancio della UE per circa quindici miliardi l'anno.
Per non parlare degli impegni di gran lunga superiori assunti nei confronti dei fondi Salva (altri) Stati.
Se poi dovessimo considerare gli impegni assunti per la restituzione del debito attraverso la ratifica del Fiscal Compact, cifre letteralmente incalcolabili, si comprende ancor meglio l'inganno operato da Renzi quando dice che i fondi europei potrebbero e dovranno costituire la panacea che ci condurrà fuori dalla crisi (magari unitamente all'Expò!).

I fondi strutturali comunitari, oltre a dover essere integrati da risorse nazionali, possono essere trasferiti a livello locale solo a rimborso di spese certificate, fatturate e quietanzate; pertanto, per poter ambire a riceverli, occorre disporre di somme da spendere in anticipo, oltre a quelle per il cofinanziamento, che devono essere indicate, ed illustrare, in modo preciso, come saranno reperite le risorse.
Il processo di programmazione che coinvolge la Commissione Europea, gli Stati e le loro Regioni è piuttosto lungo e complicato, come vedremo in seguito.

In Italia la gestione della parte più cospicua dei Fondi strutturali è affidata alle Regioni che predispongono dei Programmi Operativi Regionali (detti POR) in cui individuano le priorità, che vogliono realizzare all'interno degli obiettivi indicati dalla UE, e le linee d'intervento sulla base delle quali saranno emessi i bandi. Una parte minore viene gestita dall'Amministrazione Centrale, che redige i Programmi Operativi Nazionali (PON). Ancor meno sono i Programmi Operativi Interregionali (POIN).

Gli obiettivi principali dei fondi a quanto dichiarato sarebbero tre:
1. «convergenza», vale a dire riduzione delle disparità regionali in termini di ricchezza e benessere;
2. aumento della «competitività» e dell'occupazione;
3. sostegno della «cooperazione territoriale», specie nelle regioni di frontiera, da attuare a vari livelli: transfrontaliera, transnazionale ed interregionale.
 
I fondi per realizzare l'obiettivo «convergenza» devono essere assegnati ai Paesi o alle regioni dei Paesi «in ritardo di sviluppo», ovvero dove «il prodotto interno lordo (PIL) pro capite, misurato in parità di potere di acquisto e calcolato sulla base dei dati comunitari, è inferiore al 75% del PIL medio dell'UE».
Per il settennato 2007-2013, si è trattato di 84 regioni (tra cui Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) di 18 Stati membri diversi.
Il regolamento dispone che l’81,54% dei 347 milioni di euro destinati alla promozione della politica di coesione a livello europeo sia assegnato all’obiettivo Convergenza e il 16% a quello della Competitività.

Per l'Italia dei 28,8 miliardi di euro complessivamente assegnati, circa 21,5 sono stati riservati alle regioni italiane che rientravano nell’obiettivo Convergenza. Da questo si dovrebbe dedurre che le Regioni del Sud siano teoricamente privilegiate in quanto destinatarie della maggior parte delle risorse, se non che, essendo le più povere, hanno maggior difficoltà a trovare risorse ai fini del cofinanziamento (al netto della cattiva amministrazione).

Nel settennato precedente (2000-2006) ne fruivano anche la Basilicata e la Sardegna, che successivamente, prima l'una poi l'altra, sono state escluse, per effetto dell'ingresso nel 2004 e poi nel 2007 di nuovi Paesi con un PIL più basso, che hanno abbassato il valore statistico delle medie del PIL dei paesi UE, così da portarle a superare la media.
Per queste regioni è stato attuato un regime di sostegno transitorio.
Per il prossimo settenato la Basilicata sarà retrocessa e quindi tornerà all'interno dell'obiettivo «convergenza», insieme alle quattro regioni che vi rientravano in precedenza.

Le nazioni che vedranno parte o tutti i loro territori usufruirne nel 2014-2020 sono: Bulgaria, Cipro, Croazia, Estonia, Grecia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia e Ungheria, praticamente le stesse del settennato precedente, con l'aggiunta della Croazia, entrata nella UE nel 2013.

Le regioni che superano la media del 75% del Pil senza arrivare al 90%, rientrano nella categoria delle regioni «in transizione».
Per l'Italia sono la Sardegna, l'Abruzzo e il Molise.
Tutte le altre usufruiranno dell'obiettivo «competitività», come già avveniva.
Per l'obiettivo«convergenza», i livelli massimi dei tassi di finanziamento europeo, a cui devono essere aggiunti fondi nazionali in cofinanziamento, sono il 75 % della spesa.
Il massimale può raggiungere l'80% se le regioni ammissibili sono localizzate in uno Stato membro che beneficia del Fondo di coesione (non riguarda perciò l'Italia).
Esso può addirittura raggiungere l'85% nel caso delle regioni ultraperiferiche.

Nell'ambito dell'obiettivo «competitività» le azioni possono essere cofinanziate fino al 50% della spesa pubblica.
Il massimale diventa pari all'85% per le regioni ultraperiferiche.
I finanziamenti arrivano soprattutto dal FESR, ma anche dal FSE.
L’obiettivo della«cooperazione territoriale» europea interessa le regioni transfrontaliere oppure quelle che rientrano in ambiti di cooperazione transnazionale; si basa su una decisione della Commissione ed è finanziato dalle restanti risorse (2,06%).
È finanziato dal fondo FESR.
Il regolamento 1083/2006 ha previsto che la suddivisione delle risorse dei fondi tra le diverse regioni europee avvenga in due fasi. In primo luogo viene definita la quantità globale di risorse destinata a ciascun Stato membro per ognuno dei tre obiettivi, calcolata parametrando degli indicatori in parte comuni, in parte differenziati a seconda dell'obiettivo.
Dopo di che, la ripartizione delle risorse tra le regioni di un Paese viene definito attraverso il «quadro di riferimento strategico nazionale», documento che è elaborato da ogni Stato membro, «previa consultazione con i pertinenti partner» (nel caso italiano le Regioni) e deve essere approvato e adottato dalla Commissione Europea.
Non si prevede la possibilità di effettuare trasferimenti finanziari tra le dotazioni delle due diverse categorie di regioni, il che finisce per limitare l’incisività delle decisioni adottate a livello nazionale in merito alla ripartizione delle risorse.
 
Ci sono poi gli «obiettivi tematici» generali dei fondi, che, nella strategia 2020 adottata per la programmazione del settennato 2013-2020 sono, stando a quanto enunciato, i seguenti: 

1) Rafforzare la ricerca, lo sviluppo tecnologico e l'innovazione.
2) Migliorare l'accesso alle TIC, nonché l'impiego e la qualità delle stesse.
3) Aumentare la competitività delle piccole e medie imprese e il settore agricolo e il settore della pesca e dell'acquacoltura.
4) Sostenere la transizione verso un'economia a basse emissioni di carbonio in tutti i settori.
5) Promuovere l'adattamento al cambiamento climatico, la prevenzione e gestione dei rischi.
6) Proteggere l'ambiente e promuovere l'uso efficiente delle risorse.
7) Promuovere il trasporto sostenibile ed eliminare le strozzature nelle principali infrastrutture di rete.
8) Promuovere un'occupazione sostenibile e di qualità e sostenere la mobilità dei lavoratori. 
9) Promuovere l'inclusione sociale e combattere la povertà e ogni tipo di discriminazione.
10) Investire nelle competenze, nell'istruzione, nella formazione e nell'apprendimento permanente.
11) Rafforzare la capacità istituzionale e di una pubblica amministrazione efficiente.
 
Indicati gli 11 obiettivi tematici, il documento di programmazione si sofferma a definire le priorità di investimento specifiche in cui andrebbero declinati per ciascun fondo, in modo da operare «congiuntamente a supporto dello sviluppo economico di tutti i paesi dell’Unione Europea in linea con gli obiettivi della strategia Europa 2020».
Strategia che, viene detto, «mira a una crescita ”intelligente” (ovvero orientata ad uno sviluppo economico basato su conoscenza e innovazione), ”sostenibile” (per un'economia più efficiente sotto il profilo delle risorse, più verde e sostenibile) e ”inclusiva” (per un'economia con alto tasso di occupazione che favorisca la coesione sociale e territoriale)».

Ed ecco gli strumenti per tradurre in pratica questi bei principi: 
 
1)  Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), istituito nel 1975, cinque anni dopo la nascita delle Regioni come entità politico-amministrative parzialmente autonome. È il piùcospicuo in termini quantitativi.
 
2)  Fondo sociale europeo (FSE), nato col Trattato di Roma del 1957 e operante fin dal 1958. 
 
3) II Fondo di coesione (FC) è nato nel 1994 e può essere utilizzato dagli Stati membri con un Reddito Nazionale Lordo (RNL) pro capite inferiore al 90% della media dell’Unione Europea. E ne viene escluso quando la supera, come è accaduto per l'Irlanda nel 2004.
 
L'Italia, nel crollo generale dell’eurozona, è riuscita ancora a conseguire un PIL più alto del 90% della media e pertanto per il prossimo settennato è stabilito che non potrà rientrare tra i Paesi che possono accedere a questi fondi.
 
Gli obiettivi del Fondo di coesione dichiarati sono la riduzione delle disparità economiche e sociali e la promozione dello sviluppo sostenibile, obiettivi perseguiti attraverso il finanziamento di progetti infrastrutturali per collegare l’Europa e la tutela dell’ambiente.
Per la maggior parte i finanziamenti sono destinati alle reti ferroviarie di alta velocità, che corrispondono a dei progetti prioritari di interesse europeo così come definiti dalla UE.
Quando si parla per l'Italia di risorse provenienti dal fondo di coesione, non ci si riferisce al fondo europeo, ma all'omonimo fondo nazionale. A volte poi ci si riferisce ai fondi per la «politica di coesione», che paradossalmente è la definizione usata per riferirsi alla programmazione europea. 
 
Ci sono poi altri fondi, che a volte vengono ricompresi tra i fondi strutturali, altre volte no. Tra questi i più importanti sono il 
 
Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR), affiancato oggi dal 
Fondo europeo per le attività agricole (FEAGA) e dal 
Fondo europeo per la pesca (FEAMP). 
 
Tra i vari fondi minori destinati a fini più specifici, può essere utile menzionare il Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione, istituito nel 2006.

In base all'obiettivo assegnatogli, avrebbe il compito specifico di offrire un sostegno a coloro che hanno perso il lavoro a seguito di importanti mutamenti strutturali del commercio mondiale dovuti alla globalizzazione, come in seguito a chiusure di imprese o delocalizzazioni di produzioni in un altro Paese (ma soltanto se è in Paesi extra-UE, mentre la maggior parte delle delocalizzazioni avviene all'interno), oppure a seguito della crisi economica e finanziaria mondiale.

Dispone di una dotazione annua massima di 150 milioni di euro per il periodo 2014-2020 (nel periodo precedente erano 500 milioni) e può finanziare fino al 60% del costo dei progetti nazionali, della durata di 2 anni.
L'attivazione di questo fondo può essere richiesta solo in presenza di imprese con almeno 500 lavoratori "in esubero" o di imprese minori dello stesso settore e regione o al massimo di due regioni (a patto che siano rigorosamente contigue!), sempre con almeno 500 dipendenti licenziati.
Può cofinanziare progetti comprendenti misure quali l'assistenza (guida e tutoraggio) nella ricerca di un impiego, l'orientamento professionale, la formazione e riqualificazione, la promozione al lavoro autonomo, all'imprenditorialità e alla creazione di nuove aziende.
Può anche fornire indennità temporanee per la formazione, mobilità / ricollocamento e di sussistenza.
Non può finanziare misure di protezione sociale, come pensioni o indennità di disoccupazione.

Sempre secondo la solita credenza che chi nella competizione globale viene fatto fuori o resta indietro, deve essere solo guidato perché riesca a trovare un altro lavoro o ad avviare una propria attività e che nei casi più gravi basti erogare una semplice indennità di sostegno che duri al massimo due anni, considerato un tempo sufficiente a trovare soluzioni occupazionali.
In realtà, più che aiutare i lavoratori licenziati, questi fondi finiscono per finanziare chi organizza corsi di formazione e inutili agenzie di orientamento.
Nel seguito di quest'articolo ci occuperemo specificamente del FESR e del FSE, in particolare in relazione all’utilizzo che ne fanno le Regioni.
Tutti i fondi devono concentrare le risorse sugli interventi in grado di apportare maggiore valore aggiunto in relazione alla Strategia Europa 2020 e devono rispondere alle sfide individuate nelle raccomandazioni specifiche per Paese (artt. 121 e 148 del TFUE).
 
Per il prossimo settennato (2014-2020) la Commissione Europea ha redatto diversi documenti di guida ed orientamento alla programmazione, in cui tra l'altro si indicano i vari criteri per una valutazione ex ante dei progetti.
Mentre nei primi cicli la valutazione era solo ex post, nella scorsa doveva essere anche ex ante e ora deve essere attuata anche una puntuale sorveglianza ex itinere. Inoltre è stato introdotto un ulteriore ostacolo.
D'ora in poi, quando si richiedono soldi per un dato settore, occorrerà dimostrare la conformità di tutte le leggi nazionali alle legislazioni ed alle direttive europee e la loro applicazione senza necessità per la UE di ricorrere a sanzioni (cosa piuttosto difficile per il nostro Paese, ma anche per altri).
 
Per di più, è stato introdotto un criterio ancora più stringente e penalizzante, cosiddetto di "macrocondizionalità": la Commissione Europea può sospendere l'erogazione di fondi anche quando uno Stato membro non rispetti gli obiettivi di riduzione del deficit e non accetti le correzioni dettate dalla Commissione Europea al fine di "aiutarlo" a raggiungere questo obiettivo.
La sospensione dei rimborsi non può che portare ad un aumento del deficit e del debito, per ottemperare agli impegni presi con fondi nazionali.
Ma –niente paura!– la sospensione può essere solo temporanea e l'erogazione dei fondi, già promessa e messa a bilancio, ripresa non appena il Paese in questione dimostrerà di volersi "ravvedere", intraprendendo con decisione la strada del rigore finanziario.
Queste disposizioni non si applicano, guarda caso, al Regno Unito.
Queste nuove “regole” costituiscono degli ostacoli che rendono sempre più complicato poter accedere ai fondi, come vedremo nella seconda parte dell’articolo. (continua).

FONDI STRUTTURALI EUROPEI: MA SONO DAVVERO UN'OPPORTUNITÀ? (seconda parte)

Nella prima parte dell'articolo abbiamo visto che l'entità dei fondi strutturali, diversamente da come viene presentata, non è poi così rilevante.
Tra FESR e FSE e altri fondi minori –escludendo il fondo agricolo e quello per la pesca– si tratta di poco più di quattro miliardi l'anno.
Eppure bisogna considerare che è difficile spendere anche quelli e a volte neanche conveniente, perché occorre conformarsi a quanto richiesto dalla CE e sottrarre risorse ad altre spese, stante l'obbligo del cofinanziamento, proprio nel momento in cui spendere diventa sempre più difficile, a causa dei perversi vincoli del Patto di stabilità ancor più aggravato dai Trattati successivi.
Del resto l'entità dei fondi europei nel loro complesso (strutturali e diretti), aggiungendo le somme stanziate per la PAC, è notevolmente inferiore a quanto l'Italia versa, direttamente e indirettamente, all'Unione Europea (ogni anno la differenza è di svariati miliardi).
Abbiamo poi visto quali sono gli obiettivi che la CE enuncia, cominciando a esaminare alcune delle molte “regole” e condizioni da rispettare per poter ottenere che i fondi vengano erogati.
 
Evoluzione storica dei fondi e dei criteri di Condizionalità
  Nonostante l'Unione Europea continui a propagandare di aver puntato nel tempo sempre più alla semplificazione, nei fatti la macchina burocratica che deve programmare, rilasciare le autorizzazioni ed eseguire i controlli formali è diventata sempre più elefantiaca, ancor più penalizzante e costosa di quella nazionale, a cui si vanno a sommare le procedure farraginose e i costi, aumentando ad ogni modifica di regolamento o nuova programmazione la difficoltà di accedere ai fondi.

La Commissione Europea ha redatto diversi documenti di guida e orientamento alla programmazione, in cui tra l'altro si indicano i vari criteri per una valutazione ex ante dei progetti.
All'inizio i fondi erano di quantità molto minore e venivano assegnati in modo più semplice, per finanziare singoli progetti presentati dagli Stati membri di quella che allora era la Comunità Europea.
Le gestioni degli stanziamenti del FSE e, dalla metà degli anni ’70, quelli ben più cospicui del FESR erano inizialmente assegnate agli Stati membri i quali stabilivano autonomamente i criteri comuni di definizione delle aree agevolabili e godevano di quote prefissate di finanziamenti sulle quali la Commissione non poteva esercitare alcuna influenza.
Soltanto dal 1979, anno dell'entrata in vigore del serpente monetario, con l’emanazione del Regolamento n. 214/79 sarà riconosciuto alla Commissione un controllo sulle politiche nazionali realizzate dai singoli Stati.
Il regolamento suddetto, infatti, introduceva una sezione “fuori quota” (pari al 5% del FESR) la cui gestione veniva assegnata alla Commissione Europea.
Una vera e propria riforma dei Fondi strutturali si attuò solo nel 1988, in seguito alla dichiarazione espressa nell’Atto Unico Europeo del 1986, che definiva le disparità regionali un elemento di freno per la realizzazione del mercato interno europeo e quindi per l’approfondimento dell’integrazione economica stessa, per cui occorreva intensificare gli sforzi finanziari destinati alla coesione economica e sociale.
 
Su proposta del Presidente della Commissione, Jacques Delors, fu deciso che le risorse finanziarie dei Fondi strutturali tra il 1988 e il 1993 andavano più che raddoppiate.
Venne avviata una prima riforma dei Fondi strutturali, in base alla quale furono emanati cinque nuovi Regolamenti, due generali e tre specifici per ognuno dei fondi.
Inoltre si sancì il principio della concentrazione tematica, con la definizione di obiettivi prioritari da parte della CE in relazione agli stessi o a diversi fondi, e furono definite le aree geografiche, con l'individuazione di aree regionali in relazione ai vari obiettivi, e le entità finanziarie, con l'indicazione di percentuali minime e massime di dotazione su ogni obiettivo e area geografica.
Fu affermato il principio dell'addizionalità (che esclude la possibilità di utilizzare i fondi europei in sostituzione di quelli nazionali mancanti) e della programmazione pluriennale in partnership tra Unione Europea e Stati membri (in realtà la prima e l'ultima parola spetteranno in seguito sempre alla Commissione Europea).
Le enunciazioni espresse nell'Atto Unico sono state riportate nel Trattato di Maastricht del 1992.
Nelle programmazioni successive sono state cambiate parte delle regole e delle definizioni degli obiettivi, nonché la terminologia usata.
Man mano che entravano nell'Unione nuovi Stati, sono cambiati i criteri di definizione delle aree geografiche destinatarie dei diversi obiettivi.
Si afferma che il processo è andato sempre semplificandosi, ma leggendo i regolamenti non si direbbe proprio.
Oltretutto questi sono sempre andati aumentando in numero e in complessità. Già in un regolamento del 1988 si asseriva la necessità di una valutazione ex ante, oltre a quella ex post, già prevista precedentemente.
Nel 1993 era detto che andavano indicati «obiettivi specifici e quantificati» e che «la valutazione ex ante... dovrà dimostrare... i vantaggi socioeconomici conseguiti a medio termine a fronte delle risorse mobilitate».
Nel regolamento generale del 1999 si richiedeva un rafforzamento delle procedure di monitoraggio, prevedendo già la possibilità di un disimpegno automatico.
Per il periodo successivo (2007-2013) veniva richiesto alle Autorità di gestione di valutare almeno una volta nel corso del periodo di programmazione settennale in che modo il sostegno dei Fondi del QSC (Quadro Strategico Comune) avesse contribuito al conseguimento degli obiettivi di ciascuna priorità; a questo scopo le Amministrazioni dovevano predisporre dei Piani di valutazione.
Tutte le valutazioni erano soggette all'esame del comitato di sorveglianza e trasmesse alla Commissione.
A fronte di tante enunciazioni di questo genere, non sembra che i fondi abbiano fino ad oggi prodotto dei risultati veramente importanti e perciò fioccano le critiche sul loro cattivo utilizzo.
Com'è possibile? Ritengo sia dovuto in gran parte ai paletti relativi agli obiettivi fissati dalla UE che limitano grandemente la possibilità di una seria programmazione nazionale, che peraltro sarebbe limitata a sua volta dalla necessità di inserirsi nel quadro liberista globale.

Inoltre non si può pensare che fondi così limitati e vincolati possano svolgere una seria funzione anticiclica rispetto alla recessione indotta dalla stessa UE e dalla moneta unica. 

In questa cornice la richiesta di piani di valutazione vorrebbe dimostrare la possibilità di misurare “scientificamente” la capacità di mettere a frutto nel modo migliore lo strumento dei fondi, dando per scontato la validità degli obiettivi enunciati in sede UE; questa pretesa “scientificità” mira in realtà a camuffare la grande discrezionalità esercitata dalla CE, che può sempre decidere di prendere per buone le valutazioni svolte dai singoli Stati membri o rigettarle, ritenendole inesatte.
Per quanto riguarda la prossima programmazione settennale, si enuncia la necessità di rafforzare la capacità di esprimere valutazioni adeguate, attraverso un maggiore e più “scientifico” uso di indicatori validi e l'attuazione di un continuo controllo, oltre che “ex ante” ed “ex post”, anche “in itinere” dei progetti per cui si richiedono i finanziamenti da parte del Paese membro.
Viene detto che le valutazioni ex post sono effettuate dalla Commissione o dagli Stati membri, in stretta cooperazione. «...
Le valutazioni ex post prendono in esame l'efficacia e l'efficienza dei Fondi dei QSC e il loro contributo alla strategia dell'Unione per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva conformemente ai requisiti specifici stabiliti nelle norme specifiche di ciascun Fondo...».
Dovranno essere valutati «...i risultati attesi, attraverso quali azioni si intenda conseguirli, quanto tempo si prevede che occorra, il grado di apertura delle informazioni al pubblico, il partenariato mobilitato, la valutazione d'impatto, l'esistenza di un forte presidio nazionale...».
La cosa paradossale è che nello stesso momento in cui si parla di trasparenza, di partnership, e si criticano Paesi come l'Italia per la mancanza di una programmazione decentrata e democraticamente impostata, in realtà viene impedito l'esercizio di vere scelte democratiche, a fronte di paletti sempre più rigidi e di decisioni centralizzate da parte della CE, i cui giudizi sono insindacabili. 

Una discreta quantità di fondi viene utilizzata su scala regionale, nazionale ed europea al solo scopo di mettere in piedi affollate commissioni di progettazione e di valutazione, che producono una pletora di documenti zeppi di cavilli formali e di richieste.
Ognuno di questi dice di voler aiutare a chiarire, mentre in realtà non fanno che accentuare le difficoltà di richiesta, ottenimento e mantenimento dei fondi.
È stabilito nel regolamento che nei documenti di programmazione nazionali e regionali occorra far riferimento all'obiettivo che ogni progetto, per cui si richiede il finanziamento, vuole perseguire e ai risultati da raggiungere, con la definizione di precisi obiettivi intermedi e finali.
Le Autorità di Gestione sono tenute a monitorare attentamente in corso d'opera l’avanzamento della spesa e il grado di avanzamento dell’obiettivo e dell’intervento rispetto alle risorse impiegate e la sua efficacia in termini di impatto sul territorio in fasi progressive, redigendo e modificando via via calcoli e valutazioni, per informare periodicamente la Commissione Europea.
Ogni anno le Autorità di Gestione nazionali sono tenute ad inviare relazioni per illustrare lo stato di avanzamento di ogni singolo progetto e le eventuali difficoltà incontrate e a restare in contatto con la Commissione europea di vigilanza, oltre che a rispondere ad ogni domanda che la stessa CE volesse rivolgere.

La Commissione poi, in collaborazione con gli Stati membri, dovrà effettuare una verifica generale dei risultati almeno due volte, nel 2017 e nel 2019.
Per ogni progetto si prevede una riserva di efficacia e di efficienza (dal 5% al 7%), da assegnare nel 2019, qualora dimostrato che gli obiettivi intermedi stabiliti nel quadro di riferimento dei risultati ed espressi da precisi indicatori misurabili, siano stati raggiunti.
Se invece dovesse valutare non sufficientemente provata l'efficacia, l'efficienza e l'impatto di qualche progetto in base alla valutazione degli indicatori monitorati per verificare il raggiungimento degli obiettivi intermedi posti, potrebbe essere interrotta in qualunque momento l'erogazione dei fondi, non solo di fronte ad impegni già presi in sede nazionale o regionale, ma perfino di soldi già spesi localmente! Inutile dire che, siccome gli obiettivi che pomposamente devono essere enunciati nei documenti di programmazione per poter richiedere i fondi, ben difficilmente potranno essere attuati, la sospensione potrà essere decisa sulla base di giudizi arbitrari e capziosi, per lo più di natura formale.

L'attenzione maggiore sarà rivolta al modo in cui nei documenti verranno espresse le considerazioni e valutati gli indicatori dei risultati raggiunti, che del resto saranno più o meno inventati di sana pianta, in quanto impossibili da verificare fattualmente. 
Come viene spiegato nel sito della Commissione Europea, possibili indicatori per gran parte dei progetti, in particolar modo quelli finanziati dal FSE, sono la variazione del numero degli occupati, come se questi fondi –stanziati prevalentemente per finanziare corsi di formazione– avessero il potere di determinarne un aumento, se spesi bene.
In realtà è ben difficile immaginare che l'organizzazione di corsi per varie qualifiche, anche se ben fatti, possa portare di per sé ad una variazione del numero di occupati –al limite potrebbe incoraggiare la sostituzione di qualche lavoratore con un altro maggiormente qualificato– (oltre naturalmente a dare un posto di lavoro temporaneo a chi li organizza, ma la CE si riferisce a un effetto addizionale che è ben altro)
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Eppure l'osservare che gli occupati non aumentano, anzi calano di numero –fatto connesso con la crisi indotta nell'eurozona e non già con le scelte dei corsi da finanziare con i fondi– viene considerato il segno dell'incapacità ad utilizzare questi ultimi, eventualmente da sanzionare sospendendone l'erogazione. 

In un altro caso, per la realizzazione di un tratto ferroviario, viene detto che dei validi indicatori di risultato da prendere in considerazione potrebbero essere l'abbattimento dell'emissione di CO2 e la diminuzione di incidenti stradali!
Risultati non facili da provare di per sé e ancor più difficile da riferire alla realizzazione dell'opera in un rapporto diretto causa-effetto.
Non è difficile prevedere che tutto questo renderà ancora più complicate le procedure formali per l'accesso e l'ottenimento dei fondi e porterà a giustificare sospensioni o richieste di restituzione in base a valutazioni arbitrarie, molto più sull'osservanza di regole formali che sulla reale qualità dei progetti, passando attraverso l'interpretazione (e la possibilità di attuare ricatti) della Commissione Europea.
Ed è del tutto paradossale l'esser costretti ad adempiere a tutti questi obblighi e a fare i salti mortali per dimostrare di “meritare” di riavere indietro solo una quota parte dei soldi già versati alla UE!
 
Incremento dei criteri di condizionalità
  Per il prossimo ciclo di programmazione sono stati definiti 
anche altri criteri più specifici di condizionalità dei finanziamenti, cui si è già accennato alla fine della prima parte dell'articolo nel precedente numero di “Indipendenza”.
È scritto nel regolamento UE n.1303/2013 della L. 347/320 della Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea 20.12.2013 che occorre ottimizzare l'utilizzo dei fondi europei, responsabilizzando gli Stati e le Regioni.
Come criterio di condizionalità ex ante, si stabilisce la necessità che lo Stato dimostri di avere una capacità amministrativa adeguata e di stare rispettando tutte le direttive della UE relative alla tematica a cui si propone di indirizzare i fondi.
Se così non fosse, occorre che a margine dello stesso accordo di partenariato vengano esplicitate le azioni che si intende compiere per rimediare, al fine di mettersi in regola con le disposizioni, tassativamente entro il 2016. Se a un esame successivo la CE stabilirà la sussistenza dell'inadeguatezza amministrativa e/o non conformità legislativa, i fondi potranno essere bloccati. Entro il 2016 occorrerà anche elaborare piani strategici settoriali da sottoporre al giudizio della CE, che potrebbe dichiararli non adeguati e quindi bloccare i fondi.
Nello stesso documento viene ribadita la necessità di avere i “conti in ordine”.
Al fine di controllare (e ricattare) gli Stati che non volessero o non fossero in grado di ottemperare alle prescrizioni della CE in ordine a questo inderogabile requisito, è stato introdotto un ulteriore criterio, cosiddetto di "macrocondizionalità".
ll Parlamento di Strasburgo ne ha votato nel novembre 2013 le norme attuative. In sostanza, quando uno Stato membro non rispetterà i parametri del deficit e del debito imposti a norma del Fiscal Compact e di altri Trattati, la Commissione Europea proporrà al Consiglio di sospendere i pagamenti e gli impegni relativi ai fondi da erogare (da notare che si tratta di rimborsare pagamenti già effettuati e di impegni già presi, da Stato e Regioni).
Se la maggioranza qualificata del Consiglio non si opporrà entro un mese, la proposta sarà considerata automaticamente ratificata e scatterà il disimpegno, che sarà pari al 25%, nel caso che la correzione effettuata dallo Stato membro, da attuarsi secondo le indicazioni della CE, risulti realizzata in modo parziale ma insufficiente e del 50% se le indicazioni della CE saranno disattese in misura maggiore.
Se persisterà l'inadempienza, nel primo caso la sospensione arriverà a riguardare il 50% degli impegni e nel secondo potrà arrivare al 100%!
Così tutte le Regioni, che avessero rispettato o meno i parametri, si vedranno bloccare i fondi in quanto appartenenti a uno Stato sanzionato in sede europea. Il presidente "socialista" tedesco Martin Schulz ha provveduto a blindare il testo ponendo al voto l’accordo tra Parlamento e Consiglio e cancellando la votazione sugli emendamenti presentati dai parlamentari italiani, con il sostegno di diversi colleghi spagnoli e portoghesi (in tutto una sessantina), volti a eliminare il criterio della «macrocondizionalità» insieme a quello della «riserva di efficacia».
L'unico emendamento approvato è stata quello di prevedere che la Commissione Europea, mentre prenderà delle decisioni sui singoli Paesi, debba informare anche il Parlamento Europeo che, volendo, potrebbe al massimo fornire un parere (assolutamente non vincolante).

Queste disposizioni non si applicano, guarda caso, al Regno Unito.
Un'altra regola è quella cosiddetta dell' N+2 (enne+2) con cui è stabilito che, se non si dimostra all'amministrazione di Bruxelles l'utilizzo ed il consumo delle quote ricevute annualmente ed eventualmente entro i termini del ritardo ammesso (altri due anni = N+2), lo Stato interessato può trovarsi nella situazione di restituire parte o tutto il finanziamento ricevuto tramite i Fondi strutturali.
I Regolamenti CE prevedono infatti –per ciascun fondo (FSE, FESR) e per ogni Programma Operativo (PO)– il definanziamento delle risorse non spese entro il biennio successivo all’annualità di riferimento.
Avendo la  CE autorizzato il completamento della realizzazione dei progetti con le relative spese finanziabili con le risorse del settennato trascorso, posposte nei vari anni, entro il 2015, è molto probabile che si verificherà una corsa contro il tempo a realizzare progetti e successivamente bandi e appalti, evitando di fare una cernita e soprassedendo alla necessità di effettuare rigorosi controlli.

Il ministro della Coesione economica nel governo Monti, Fabrizio Barca, aveva  annunciato l'istituzione di una task force per riuscire ad utilizzare al massimo i fondi.
Il suo successore nel governo Letta, Carlo Trigilia, aveva cercato di selezionare e concentrare i progetti, riducendoli da 400 a circa 40, ma Graziano Del Rio, che ha ricevuto la delega da Renzi, per accelerare i tempi della spesa, ha trovato conveniente riammettere molti dei progetti scartati, che così sono rilievitati fino a 330.
Esiste il concreto rischio che, per evitare di perdere i fondi con le pesanti critiche conseguenti, le Regioni preferiranno spenderli in qualunque modo, anche gonfiando le spese più di quanto già avvenga correntemente, magari con il vantaggio di compiacere degli amici. 

Come effetto collaterale verranno sottratte le somme destinate al cofinanziamento di altre spese e potrà verificarsi un maggior indebitamento.
In seguito la UE potrà decidere se accettare o meno di rimborsare parte delle spese.
Per aiutare a spendere di più, il regolamento sopracitato (predisposto per il prossimo ciclo di programmazione) propone l'utilizzo di svariati strumenti di finanziamento, destinando anche parte dei fondi a finanziare progetti di finanza creativa.
Nel maggio del 2013, per garantire un uso più unitario e massiccio dei fondi, è venuta alla luce l'Agenzia per la Coesione Territoriale, voluta già da Fabrizio Barca, ma poi sospesa perché si temeva potesse essere dichiarata incostituzionale, dal momento che si proponeva di centralizzare funzioni già attribuite alle Regioni.

La logica dell'urgenza, necessaria che sia o utilizzata come pretesto, sta portando a soprassedere ai controlli necessari e perfino alle certificazioni antimafia. Anche perché perfino le quote dei fondi già ricevute, se i progetti a cui si riferiscono non saranno completati e fatturati in toto alla scadenza della mezzanotte del 31 dicembre 2015, dovranno essere addirittura restituite alla Commissione Europea!
Tra le condizioni è previsto infine un meccanismo di premialità per gli Stati che hanno dimostrato di saper utilizzare al meglio i Fondi strutturali, con l'assegnazione di un ulteriore 5% sulla dotazione iniziale. Con "al meglio" s'intende in maggiore quantità (e non qualità) e riuscendo ad evitare contestazioni con le relative richieste di restituzione.
Si può dire che questi fondi, anziché fungere da supporto ai singoli Stati nazionali, dimostrano così in modo inequivocabile di esercitare la funzione di sottrarre loro risorse da destinare a finalità autonomamente scelte espropriandoli delle briciole di residua sovranità.
 
Modalità di programmazione per il conferimento dei fondi per il settennato 2014-2020
 
Dal 2010 al 2012 la CE ha redatto diversi documenti proponendo una revisione del bilancio della UE e di legare i fondi da stanziare nel periodo 2014-2020 agli obiettivi Europa 2020. Il documento principale che detta agli Stati i nuovi indirizzi è il "Quadro strategico comune per la coesione" del 14 marzo 2012, una sorta di linee guida contenenti princìpi e priorità che le autorità nazionali e regionali devono seguire nella redazione dei documenti di programmazione dei fondi.
In seguito la Commissione ha prodotto molti altri documenti e regolamenti (nell’ordine delle decine), anche con analisi valutative dei vari Stati e raccomandazioni specifiche rivolte ad ognuno di loro, sui settori da sviluppare e sulle modalità di utilizzo dei Fondi.
I regolamenti che governano il ciclo di investimenti della politica di coesione europea per il periodo 2014-2020 sono stati approvati formalmente dal Consiglio dell’Unione Europea ed entrati in vigore il 20 dicembre 2013 a seguito della pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea.
Nel regolamento generale, che è estremamente lungo e farraginoso, pieno di concetti astratti ripetuti e di rinvii a paragrafi di articoli di leggi e regolamenti, un forte accento viene posto sugli accordi di partenariato, che deve essere attuato tra ogni Stato membro e l'Unione Europea e tra vari soggetti pubblici e privati all'interno di ogni Stato. L'art. 11 dice che va «delegato alla Commissione il potere di adottare un atto delegato recante un codice europeo di condotta sul partenariato».
Art. 20) «ogni Stato membro dovrebbe elaborare un accordo di partenariato in collaborazione con i partner e in dialogo con la Commissione.
L'accordo di partenariato dovrebbe trasferire gli elementi contenuti nel QSC nel contesto nazionale e stabilire solidi impegni per il raggiungimento degli obiettivi dell'Unione». Art. 29) «Per garantire la coerenza tra l'accordo di partenariato e i programmi si dovrebbe precisare che i programmi... non possono essere approvati prima dell'adozione di una decisione da parte della Commissione che approva l'accordo di partenariato».
Quest'anno le Regioni hanno dovuto presentare i POR (Programmi Operativi Regionali) prima ancora che fosse approvato l'accordo di partenariato a livello nazionale (e se non fosse stato approvato?).

Nella prossima programmazione viene previsto un utilizzo maggiore degli strumenti finanziari, definiti nell'art. 34 come «sempre più importanti dato il loro effetto moltiplicatore sui fondi SIE, la loro capacità di associare diverse forme di risorse pubbliche e private a sostegno di obiettivi di politiche pubbliche...
Gli strumenti finanziari sostenuti dai fondi SIE dovrebbero essere usati per rispondere a specifiche esigenze di mercato in modo efficace sotto il profilo dei costi, conformemente agli obiettivi dei programmi, evitando di ridurre i finanziamenti privati».
 In questo modo si incentivano le amministrazioni pubbliche ad indebitarsi per assicurare il cofinanziamento, aumentandone la dipendenza dagli strumenti finanziari, salvo poi lanciare l'accusa di essersi troppo indebitate o perfino stoppare l'erogazione dei fondi per aiutarle a non sforare gli obiettivi di progressiva riduzione del deficit. 

Anche negli articoli successivi viene posta grande enfasi sul valore di questi strumenti, il cui lancio promozionale, a fianco e anche sempre più spesso in sostituzione delle semplici sovvenzioni generalmente a fondo perduto, è la vera novità della prossima programmazione 2014-2020, però a patto che:
Art. 36) «Gli strumenti finanziari dovrebbero essere concepiti e attuati in modo da promuovere una notevole partecipazione degli investitori privati e delle istituzioni finanziarie, sulla base di un'adeguata condivisione dei rischi.

Per risultare abbastanza interessanti da attrarre i privati, è essenziale che gli strumenti finanziari siano concepiti e attuati in modo flessibile... detta flessibilità dovrebbe comprendere la possibilità di riutilizzare parte delle risorse rimborsate nel corso del periodo di ammissibilità al fine di fornire una remunerazione preferenziale degli investitori privati o degli investitori pubblici operanti secondo il principio dell'economia di mercato.
Una siffatta rimunerazione preferenziale dovrebbe tenere in conto le norme di mercato e assicurare che ogni aiuto di Stato sia conforme al diritto dell'Unione e nazionale applicabile e sia limitato all'importo minimo necessario a compensare la mancanza di capitale privato disponibile, tenendo conto della carenze del mercato o delle condizioni di investimento non ottimali».
Si riconferma l'obiettivo di favorire sempre gli interessi finanziari privati e l'obbligo di utilizzare i fondi pubblici solo per supportare occasionalmente la mancanza di quelli. 

Viene ribadita la supremazia del diritto europeo vincolante in materia di aiuti di Stato, che permette solo interventi finanziari limitati, salvo deroghe che devono rispondere a casistiche definite (anche se possono variare in successivi regolamenti).
Parallelamente il governo italiano, dopo varie riunioni che, secondo quanto stabilito dalla CE, dovevano tenersi:
a) con le autorità regionali, locali, cittadine e le altre autorità pubbliche competenti;
b) le parti economiche e sociali;
c) gli organismi che rappresentano la società civile, compresi i partner ambientali, le organizzazioni non governative e gli organismi di promozione della parità e della non discriminazione, il 9 aprile 2013 ha inviato alla Commissione Europea una versione preliminare di alcune sezioni dell’Accordo di partenariato (AP).

Negli incontri tenutisi nell'aprile 2013, la Commissione ha segnalato numerose criticità, chiedendo di intervenire con modifiche.
Effettuate alcune "correzioni", il 9 dicembre 2013 è stata quindi inviata alla Commissione Europea una nuova bozza –definita più avanzata– dell’Accordo.
Un lungo documento che analizza la situazione del Paese nelle sue diverse aree e ne indica le necessità, con grafici e percentuali e indicatori e previsioni.
Dopo aver indicato gli obiettivi tematici della programmazione con le relative percentuali, viene fatta la «descrizione e motivazione delle scelte di investimento, evidenziando per ciascun obiettivo tematico i risultati attesi, le azioni conseguenti ed il relativo fondo di finanziamento» e quella relativa all'«applicazione dei princìpi orizzontali (partenariato, parità di genere e non discriminazione)», princìpi che è sempre bene sbandierare, perché fanno parte del "politicamente corretto", anche dove non si capisce bene cosa c'entrino, se non a far credere che le politiche europee si basino su quei princìpi e che chi è democratico e progressista è tenuto a sostenerle. 

Critiche della Commissione Europea alla proposta italiana di accordo di partenariato
 
Nonostante gli sforzi del governo italiano di redigere un documento che tenesse conto delle richieste della Commissione Europea, quest'ultima è riuscita a formulare ancora una quantità di rilievi critici davvero notevole  (ben 351!), ognuno dei quali esplicitato minuziosamente e con dovizia di argomenti e di citazioni, nello stile proprio della CE.
Questo fatto è stato considerato nei commenti generali una prova ulteriore della “negligenza” e incompetenza dell'Italia, dando per scontato che quanto detto dalla CE non è mai da mettere in discussione.

Per prima cosa la CE ha sentenziato che il documento era «lontano dal livello di maturità richiesto».
Le analisi sono considerate generiche e carenti, è mancante un continuo riferimento agli obiettivi scelti dalla UE e non si elenca con minuziosa (forse meglio dire ossessiva) precisione tutto quello che era stato indicato nei precedenti documenti UE.
A titolo d'esempio viene detto: «...Gli Obiettivi Tematici (OT) sono presentati in maniera generale e con deboli riferimenti alle Raccomandazioni Specifiche per il Paese (RSP), al Programma Nazionale di Riforma (PNR), al Quadro Strategico Comune (QSC), alle indicazioni del Position Paper dei servizi della Commissione (PPC)...
La relazione tra i bisogni per lo sviluppo e i risultati attesi è generalmente inadeguata o del tutto assente...
Vi è un notevole squilibrio, nella maggior parte dei casi, tra l’analisi e le priorità scelte.
Il testo dovrà chiarire le scelte operate in funzione di quelle in grado di fornire il massimo valore aggiunto in termini di Fondi strutturali...
I risultati sono enumerati in tutti i capitoli, ma non sempre per Fondo...
Alcuni risultati sono definiti in modo del tutto generale, altri sono difficili da misurare.
In alcuni casi sarà difficile fornire i dati di partenza che dovranno tuttavia essere presenti nella prossima versione dell'AP.
Il testo dovrà inoltre essere rivisto al fine di collegare più adeguatamente i risultati alle sfide e alle opportunità indicate nella sezione...
L’analisi di cui alla sezione 1 non fa riferimento alle specifiche sfide territoriali, alle esigenze di sviluppo e alle potenzialità di crescita.
Risulta pertanto impossibile individuare nel documento una chiara strategia di sviluppo territoriale...
Occorre rivedere il modo in cui sono formulati i diversi risultati attesi, in modo che essi rappresentino effettivamente i risultati e non gli obiettivi...
Il documento riporta un elenco indicativo dei programmi operativi.
Mancano tuttavia le assegnazioni finanziarie per Fondo e per anno.
Inoltre, la lista è incompleta in quanto non indica quali programmi saranno monofondo (FESR o FSE) e quali plurifondo (FESR-FSE).
In base alle informazioni fornite nella bozza di PA, i servizi della Commissione non sono in grado di valutare la piena coerenza e l’adeguatezza delle informazioni trasmesse dall’Italia in merito all’adempimento delle condizionalità ex-ante... Il duplice approccio applicato alla parità di genere dovrebbe essere sviluppato meglio e completato.
Attualmente vi sono soltanto dichiarazioni generali sull’applicazione del principio delle pari opportunità.
Inoltre, i temi della parità e della non discriminazione non dovrebbero essere affrontati esclusivamente in un'ottica di genere.
Occorre includere anche altre dimensioni, quali la disabilità, il colore/razza o l'orientamento sessuale».

E poi ancora: «Sembra che gli interventi del FESR siano destinati a sostituire risorse ordinarie nei settori delle infrastrutture sociali e sanitarie. 

Il testo dovrà chiarire l'aggiuntività del FESR». Infatti l'Unione Europea non ammette che i fondi strutturali possano venire utilizzati per sostituire le carenze di risorse ordinarie causate dagli stessi obblighi di Bruxelles a ridurli!
«Peraltro, gli interventi nel settore delle infrastrutture sanitarie dovrebbero essere escluse...
Interventi nel settore dell’edilizia abitativa sociale dovrebbero essere limitati alle comunità emarginate, come i Rom, e devono far parte di piani d’azione locali integrati che comprendono interventi per sostenere l’occupazione, l’istruzione e l’assistenza socio-sanitaria» (risposta Commissione Europea del 9 marzo 2014). 
Come se i Rom fossero gli unici ad avere il problema della casa! 

Senza contare che la richiesta di occuparsi per alcune questioni solo di minoranze, laddove il problema è più generalmente avvertito, non può che alimentare, purtroppo, i sentimenti negativi contro quelle minoranze, che possono sfociare nel razzismo (come verso i rom) o nella xenofobia (verso gli immigrati o i richiedenti asilo), già favoriti dall'acuirsi della crisi economica e dallo sgretolamento del tessuto sociale.

Ci sono anche altri paletti iniqui, come l'erogazione limitata alle regioni meno sviluppate, destinatarie dell'obiettivo "Convergenza", degli aiuti per realizzare infrastrutture di base per la gestione delle acque e dei rifiuti da parte del FESR, al fine di mettersi in regola con le direttive europee.
Viene ribadito, nell'ambito dell'obiettivo per l'adeguamento ai mutamenti climatici, che il FESR non può finanziare reti di irrigazione né le operazioni di monitoraggio delle risorse idriche, ma solo le infrastrutture/attrezzature necessarie per adeguarsi agli obiettivi ambientali fissati dalle pertinenti direttive UE, intervenendo unicamente nelle regioni meno sviluppate.

Si può destinare una piccola parte dei fondi all’assistenza all'infanzia e agli anziani al fine esclusivo di aumentare il tasso di occupazione femminile, e non come una misura di politica sociale di per sé (il rilievo è sul non avere ribadito in modo esplicito questa massima e non aver fornito in proposito un corredo di indicatori, obiettivi e metodi di rilevamento, nonché un'analisi ricca di dati sulla situazione di partenza dell'occupazione femminile generale e in ogni zona dove si prevede di richiedere i fondi) al fine di permettere alla CE una valutazione sull'opportunità di destinare i fondi a questo scopo. 

In realtà è ben difficile che fondi erogati per servizi all'infanzia o verso gli anziani, anche potendo alleviare il carico sulle donne che se ne occupano, possano di per sé creare posti di lavoro supplementari, mentre al contrario questi vanno diminuendo per altre cause; ma, dal momento che occorrerà provare l'utilità in questo senso dei fondi richiesti, è facile immaginare che la CE potrà sentenziare l'inutilità di queste spese ed eventualmente anche sospenderli.
Un altro rilievo critico viene svolto per il fatto che «alcune iniziative potrebbero essere viste come una compensazione della mancanza di sufficienti risorse nazionali per la lotta contro la povertà».

A questo riguardo, viene detto che il FSE non può essere utilizzato per misure passive a sé stanti, come la social card o altre misure di tipo assistenziale, neanche per il perseguimento dell'obiettivo «lotta alla povertà e all'esclusione sociale», ma solo per politiche attive.
Al massimo potrebbe finanziare le indennità versate ai partecipanti per il tempo in cui essi partecipano a un corso di formazione per acquisire maggior capacità competitiva nel mercato del lavoro, in quanto ciò può essere considerato come parte dei costi del progetto.

Anche qui spunta l'idea che vede la disoccupazione motivata dall'incapacità da parte dei lavoratori di ogni età di adeguarsi alle richieste di maggiori qualifiche.
Insomma, né il FESR né il FSE possono in alcun modo supplire alla mancanza di risorse nazionali da destinare al welfare, risorse nazionali ridotte anche per la contribuzione verso la UE, oltre che per le severe limitazioni dettate dai Trattati UE e per la crisi economica indotta dall'euro. 

Questa è soltanto una parte di una lunga serie di critiche che erano state rivolte nei confronti della proposta di partenariato italiana, la maggior parte delle quali  riconducibili al fatto di non aver esplicitato che l'attuazione del programma proposto all'attenzione della CE era da collegarsi alla realizzazione del piano di Riforme richieste e all'osservanza delle Raccomandazioni espresse dalla Commissione Europea, di non aver fornito sempre stime e calcoli di ogni cosa (non importa se dovessero essere inventate) e inoltre di non aver ripetuto al 100% le formule che devono sempre essere presenti in ogni documento per compiacere la Commissione Europea.
Alcuni rilievi suggeriscono proprio di cambiare specifici termini usati, per adottare in tutto e per tutto un linguaggio conforme a quello usato nei documenti di Bruxelles.
Forse sarebbe il caso di suggerire a Renzi, se non ci sarà la Trojka ad occuparsene direttamente, di inserire nella riforma della scuola, oltre all'inglese, anche diverse ore di “unioneuropeese” ovvero di linguaggio comunitario, per comunicare con la burocrazia europea, che si aggiunge a quella nazionale, di cui chiede la semplificazione, per poi sostituirla battendola in farraginosità ed elefantiasi.

La presentazione ufficiale dell’Accordo di Partenariato corretta, per l’avvio del negoziato formale, che deve avvenire entro quattro mesi dall’entrata in vigore dei regolamenti comunitari di disciplina e attuazione dei fondi strutturali, è avvenuta il 22 aprile 2014. Il governo, per bocca di Del Rio, ha espresso fiducia che il negoziato con l'Unione Europea si concluderà con la sua approvazione entro agosto.
Il termine è poi slittato a settembre e poi a ottobre.
Il 29 ottobre è giunta la notizia che Bruxelles ha dato il via libera all'accordo di partenariato; sembra quindi che tutte le obiezioni siano miracolosamente cadute.
Anzi, la CE si è congratulata alla fine con l'Italia per aver recepito i suoi “suggerimenti”, tra cui quello di prevedere un maggior uso dei fondi FSE. Infatti dei 31 miliardi complessivi dei fondi strutturali veri e propri, escludendo perciò il FEASR (Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale) e il FEAMP (Fondo Europeo per gli Affari Marittimi e la Pesca), i fondi a valere sui FESR sono circa 20 miliardi e mezzo e quelli dei FSE circa 10 miliardi e mezzo, vale a dire più di un terzo. Eppure, come vedremo nel prossimo numero di “Indipendenza”, i fondi FSE sono i meno utili e quelli maggiormente a rischio spreco. In realtà i fondi effettivamente erogabili sono di meno, in quanto nelle cifre riportate è compreso circa un miliardo e mezzo da riservare all'assistenza tecnica relativa alla progettazione e ai controlli!
 
I Programmi Operativi regionali
  Entro il 22 luglio le Regioni hanno redatto i Programmi operativi regionali tranne per due Regioni monofondo (POR FESR e POR FSE), contenenti le definizione delle priorità, le disposizioni di attuazione ed il piano finanziario, unitamente ad un piano di valutazione ex ante, dove va dimostrato di essere in grado di corrispondere a tutte le condizionalità ex ante richieste.
Il tutto corredato da un gran numero di dati e cifre pseudoscientifici.
Vi si doveva anche essere spiegata la logica in base a cui sono stati scelti determinati progetti e non altri, dimostrare che questi sono coerentemente conformi con gli obiettivi europei, che hanno una valenza rilevante con le priorità indicate dagli Stati membri, che le risorse mobilitate sono proporzionali agli obiettivi attesi a medio termine e attraverso quali azioni si intenda raggiungerli, descrivendo allo stesso tempo «le azioni utili a tenere conto dei princìpi trasversali in tema di “parità e non discriminazione” e di “sviluppo sostenibile”».
Inoltre occorreva indicare le coperture individuate per il cofinanziamento di ognuno di essi. In ogni caso l'Unione Europea avrà sempre la facoltà di chiedere successivamente rettifiche o sospendere il programma, se giudicasse che non ci siano prove sufficienti sul fatto che gli obiettivi indicati siano stati raggiunti. Ritengo comunque che sia abbastanza strano che i piani operativi si siano dovuti presentare prima ancora che venisse concluso l'accordo di partenariato, quasi viaggiassero su binari diversi e non dovessero seguire le linee guida
dell'Accordo generale che doveva ancora essere approvato da Bruxelles.
Per ogni PO (Programma operativo) si sono dovute istituire, a seguito di richiesta da parte europea, un'Autorità di Gestione, un'Autorità di Certificazione, un'Autorità di Audit, un'Autorità Ambientale, un'Autorità per le Pari Opportunità, un Comitato di Sorveglianza, a livello regionale per i POR e nazionale per i PON. 
Quest'ultimo deve esaminare e approvare i criteri di selezione dei progetti, valutare i progressi compiuti dai PO e i risultati dei PO per ogni asse prioritario, proporre revisioni, esaminare ed approvare qualsiasi proposta di modifica inerente al contenuto della decisione della Commissione relativa alla partecipazione dei Fondi.

Un numero non esiguo di risorse dei fondi sono destinate al mantenimento di organismi burocratici europei, nazionali e regionali deputati ad  occuparsi delle varie incombenze.
La Commissione può formulare osservazioni entro tre mesi dalla data di presentazione dei programmi operativi e procedere all'adozione non oltre sei mesi dalla data di presentazione, a condizione che lo Stato membro e le Regioni abbiano tenuto debitamente conto di tutte le sue osservazioni.
La Regione Lazio, per tener conto di quanto richiesto dalla CE stessa, prima di redigere il POR FESR ha indetto diverse riunioni aperte a sindacati, associazioni territoriali e vari soggetti cosiddetti «portatori di interessi».
Ne è scaturita una proposta di partenariato alla CE che prevedeva 45 azioni centrate su dieci degli undici obiettivi, pur essendo obbligata a riservare l'80% delle risorse da impegnare ai primi 4 obiettivi, di cui il 20% al quarto in particolare.
Ma nella riunione pubblica in cui si dovevano tirar le fila prima della presentazione formale del 22 luglio, le autorità di Gestione designate hanno dovuto annunciare che nei contatti informali ristretti con la CE, quest'ultima aveva bocciato preventivamente gran parte degli obiettivi e le azioni correlate. Aveva chiesto di ridurre le azioni a 12 (in nome del principio della concentrazione enunciato come cardine di questa nuova programmazione), arrivando poi a concedere di arrivare a un massimo di 18 (come sempre, cifre numeriche prese di per sé come elemento determinante, a prescindere dai contenuti sottostanti).
Inoltre aveva bocciato tutti i progetti che non si riferivano in qualche modo all'obiettivo “Competitività”, in cui doveva rientrare a forza il Lazio, considerata nella rosa delle Regioni meno svantaggiate, quindi più ricche, categoria che comprende tutte meno le cinque del Sud storicamente definite svantaggiate e le tre “in transizione”. In realtà l'80% dei progetti era vincolato ai primi quattro obiettivi, ma il 20% teoricamente poteva riferirsi anche agli altri, pur dovendo sempre farlo in relazione all'obiettivo “Competitività” e non “Convergenza”.
Ma le raccomandazioni della UE specifiche per l'Italia, sulla base delle quali erano stati poi stilati i 351 rilievi critici, avevano ristretto ulteriormente il campo d'azione, ragion per cui, oltre a non poter essere utilizzati per organizzare una raccolta differenziata e la costruzione di impianti di riciclo, è stata perfino bocciata la richiesta fatta di utilizzare parte dei fondi, da cofinanziare, per una bonifica della inquinatissima Valle del Sacco, nel Sud del Lazio.
La Regione Lazio ha cercato invano di tranquillizzare i Comitati della zona, promettendo di mettere a disposizione fondi nazionali attinenti al Fondo di Coesione in sostituzione di quelli europei negati.
Per l'obiettivo “mobilità urbana” è stato ammesso l'acquisto, beninteso a gara, di nuovi autobus elettrici, mentre non è stato concesso di usare i fondi per migliorare alcune linee ferroviarie di collegamento di Comuni della provincia, in quanto collegamenti extraurbani non potevano considerarsi azioni rientranti nell'obiettivo specifico “miglioramento della mobilità urbana”.
 
Il cofinanziamento
 
Il governo Letta aveva riconfermato per tutti i progetti di essere pronto a cofinanziare al 50% attraverso il Fondo di rotazione –cosa ben gradita dalla UE, ma non strettamente necessaria in base alle stesse regole dei fondi–, anche se questo significava poter finanziare meno progetti europei e sottrarre risorse a obiettivi scelti in sede nazionale.
In questo modo intendeva ostentare senso di responsabilità (in realtà dimostrando pieno servilismo e disinteresse alle sorti dell'Italia).
In seguito Renzi è andato pietendo il permesso che il cofinanziamento potesse essere escluso dal patto di stabilità, cosa che in tutti questi anni è stata continuamente negata dalla CE.
Alla fine è riuscito a ottenere quel che già era previsto nei regolamenti, di poter cofinanziare i fondi europei con solo il 25% di quelli nazionali per l'obiettivo Convergenza, che riguarda le cinque Regioni del Sud.
Dal momento che in questo modo i fondi dei progetti europei destinati al Sud complessivamente verrebbero a contrarsi, gli amministratori delle Regioni del Sud hanno elevato un coro di proteste, lamentando anche la diversità di trattamento rispetto alle altre Regioni del Centro-Nord, in cui la quota di cofinanziamento continuerebbe ad essere del 50%.
 
Il fatto è che, come abbiamo visto, è l'Unione Europea stessa che obbliga a mantenere, per le Regioni verso cui si può perseguire solo l'obiettivo “Competitività”, il cofinanziamento nazionale a una quota non inferiore al 50%, mentre per quelle più povere, destinatarie dei fondi a titolo dell'obiettivo “Convergenza”, è possibile scendere fino al 25%.
Per le Regioni considerate “in transizione” è possibile cofinanziare non meno del 40%.
Tuttavia per alcuni Paesi la UE autorizza tassi di cofinanziamento diversi, per esempio la Polonia, che ha avuto molti più finanziamenti degli altri Paesi e di ognuno degli altri Paesi preso singolarmente, cofinanzia sempre solo al 15%. Renzi ha promesso che le somme risparmiate, che valuta in dodici miliardi in meno su sette anni, verranno destinate in progetti per il Sud decisi autonomamente, senza dover rispondere ai paletti europei.
Ma le Regioni toccate non si fidano e pensano che, senza il pungolo della necessità di cofinanziare, per non perderli, i fondi europei, con grande probabilità quei fondi, promessi al Sud e impegnati sulla carta, nella migliore dell'ipotesi andranno a coprire spese nazionali ordinarie e nella peggiore, ancora più probabile, non avranno alcun utilizzo, ma saranno destinati alla diminuzione del deficit.
Allo stato attuale la Regione Puglia e la Regione Basilicata sono riuscite a strappare a Renzi l'impegno ad un cofinanziamento maggiore, anche se ancora non ben definito (all'inizio si pensava del 30 o 40%, ma ora pare che Renzi sia orientato a mantenere per queste due Regioni il 50%), come premio alla maggior capacità dimostrata di impiego dei fondi strutturali (da un punto di vista quantitativo), mentre per Campania, Sicilia e Calabria, che ne hanno spesi di meno, resta l'impegno del governo a cofinanziare solo al 25%. In effetti la capacità di spesa di una Regione è connessa all'obbligo che le viene imposto di contribuire al cofinanziamento nazionale nell'ordine del 30% della spesa statale per i progetti finanziati dal FESR e del 20% per quelli coperti dai fondi del FSE.
Un altro motivo di dissenso tra Stato centrale e Regioni è in ordine al conferimento di parte dei fondi regionali ai 6 PON (e ai POIN).
Sono le Regioni a dover rinunciare a parte dei fondi loro spettanti per conferirli a programmi nazionali, facenti capo a diversi Ministeri o a programmi interregionali.
Inoltre le Regioni non hanno gradito la “strigliata” di Renzi, che le ha rimproverate di non essere capaci di spendere tutti i fondi, minacciando di istituire una sorta di task force centrale che gestisca i fondi sostituendosi a loro. Infatti Renzi nel decreto “Sblocca Italia” ha previsto la possibilità per il governo di esercitare un potere sostitutivo dello Stato sulle Regioni, in forza dell'articolo 120 della Costituzione riformata nel 2001 attraverso il Titolo V.
Quell'articolo recita: «Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria». In realtà appare una forzatura considerare il non utilizzo di tutti i fondi un mancato rispetto della normativa comunitaria.
L’agenzia per la coesione territoriale avrebbe tre compiti fondamentali: monitorare l’uso dei fondi da parte delle amministrazioni; dare assistenza tecnica alle amministrazioni interessate per l'attuazione delle complesse procedure richieste dalla UE, infine «assumere compiti anche di gestione diretta per progetti sperimentali ma anche casi, che naturalmente vanno definiti con precisione, di gravi ritardi e inadempienza da parte delle autorità».
La Lega Nord ha protestato veementemente, considerando l'agenzia un ennesimo carrozzone succhiasoldi a sostegno delle Regioni del Sud «incapaci e parassitarie».
In questa programmazione alle Regioni è inoltre stato richiesto dal governo di rinunciare ad un'ulteriore quota dei fondi, che dovranno essere destinati alle città metropolitane (10 più 4 delle Regioni a Statuto Centrale), che li gestiranno in proprio.
 
È sconfortante vedere come tutte le Regioni ormai contino quasi esclusivamente su fondi connessi a progetti europei, che devono essere approvati dalla UE, sottoposti a regole complicatissime create da una burocrazia ossessiva e su cui vige sempre il ricatto della sospensione, accettando come dato di fatto ormai scontato la rinuncia a poter decidere obiettivi e modalità di spesa in modo autonomo.
 
Quanto alla possibilità di escludere dal computo del deficit la quota di cofinanziamento, numerose e sempre più accorate si sono levate richieste da parte della maggior parte degli Stati e di organismi sovranazionali, come il Parlamento europeo con la risoluzione dell'8 ottobre 2013, a tutt'oggi semplicemente ignorata dalla CE, o la dichiarazione unitaria siglata a Torino il 12 settembre del 2014 da tutte le Regioni dei 28 Paesi membri della UE e trasmessa alla presidenza italiana, formalmente alla guida del semestre europeo, peraltro senza alcuna possibilità di avere voce in capitolo. Senza rispondere direttamente alla richiesta delle Regioni o di altri, la CE ha ultimamente ribadito per l'ennesima volta che nei Trattati non è previsto che la quota di cofinanziamento vada esclusa dal computo del deficit –dimostrando così di voler chiudere ogni discorso in merito.
 
 
FONDI STRUTTURALI EUROPEI: MA SONO DAVVERO UN’OPPORTUNITÀ? (Terza parte)
Nelle prime due parti si è visto come sono nati i vari fondi europei, quali ne sono gli obiettivi conclamati e a cosa invece servono.
Nella realtà non fanno che sottrarre disponibilità di spesa autonoma agli Stati, condizionando le scelte di indirizzo.
Abbiamo poi esaminato come viene svolta la programmazione europea e quali sono le condizioni imposte agli Stati per poter avere indietro solo una parte delle risorse da loro già conferite all'Unione Europea (UE).
Ad ogni programmazione settennale, la Commissione Europea (CE) produce un gran numero di documenti di analisi e di indicazioni (generalmente tassative) su come sia possibile utilizzare i fondi negli anni successivi, modificando –più che la sostanza– la terminologia usata, nonché una gran varietà di numeri e percentuali.
Quello che aumenta nelle successive programmazioni, all'opposto di quanto viene dichiarato, è la difficoltà di accesso ai fondi e le condizionalità richieste.
Gli obiettivi principali che, a detta della CE, avrebbero i fondi, sono: “Convergenza”, da ricercare nelle regioni più svantaggiate (definite tali in funzione di alcuni parametri) per diminuire le disparità con le altre, “Competitività” da perseguire nelle altre regioni e, in modo più marginale, la Cooperazione territoriale europea tra le regioni e le nazioni confinanti.
Per raggiungere queste finalità, vengono indicati diversi obiettivi tematici, non tutti per entrambi i fondi, con la puntuale definizione di percentuali diverse delle risorse da impiegare a seconda del fondo e se il suo impiego avviene nelle Regioni destinatarie dell'obiettivo "Convergenza" oppure "Competitività".
Ora vediamo quali sono gli obiettivi –proclamati per il settennato che sta partendo– dei due principali fondi strutturali regionali, il FESR e il FSE, e quali sono state alcune modalità del loro utilizzo nel settennato appena trascorso.
 
Il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR)
  Il FESR, secondo quanto è enunciato, «mira a consolidare la coesione economica, sociale e territoriale dell’Unione Europea correggendo gli squilibri fra le regioni».
A questo scopo la CE indica di concentrare gli investimenti su diverse aree prioritarie chiave. Tale approccio assume il nome di «concentrazione tematica». Per quanto riguarda la programmazione 2007-2013 sono:
a) innovazione e ricerca;
b) agenda digitale; c) sostegno alle piccole e medie imprese (PMI). Sono finanziati principalmente i settori dell'industria creativa e della cultura nonché i servizi innovativi che rispondono alle nuove esigenze della società; d) economia a basse emissioni di carbonio.

Il FESR finanzia le spese per i progetti legati a tutti e tre gli obiettivi (Competitività, Convergenza, Cooperazione territoriale europea), ancora una volta in base a percentuali tassative stabilite dalla UE.
«È necessario stabilire nell'ambito di ciascuno degli obiettivi tematici indicati nel regolamento (UE) n. 1303/2013 le azioni specifiche del FESR considerate come "priorità d'investimento".
Tali priorità d'investimento dovrebbero definire obiettivi dettagliati, che non siano reciprocamente incompatibili, cui il FESR deve contribuire e costituire la base per la definizione di obiettivi specifici nell'ambito dei programmi che tengano conto delle esigenze e delle caratteristiche dell'area di programma di ciascun fondo SIE e sono stabiliti nelle norme specifiche di ciascun fondo».

Quanto ai tre obiettivi cui i fondi devono mirare, quello della Convergenza va perseguito da tutti e tre i fondi –FESR, FSE e Fondo di coesione (a quest'ultimo, come già detto, l'Italia non può accedere)– mentre quello della Competitività regionale e dell'occupazione dai primi due (FESR, FSE) e infine quello della Cooperazione territoriale europea solo dal FESR.
La Commissione Europea ha individuato limiti precisi di utilizzo da richiedere a seconda del settore agevolato.
Le regioni che rientrano nell'elenco di quelle definite in transizione o di quelle più sviluppate dovranno destinare l’80% del budget all’efficienza energetica, alle energie rinnovabili, all’innovazione ed alla competitività delle Pmi. 

Le regioni definite meno sviluppate, invece, potranno utilizzare la loro dotazione per un numero maggiore di obiettivi, facendo scendere al 50% la fetta da dedicare esclusivamente all’efficienza energetica, alle rinnovabili (almeno il 6%), alle imprese e all’innovazione.
Le regioni in transizione dovranno destinare agli stessi obiettivi almeno il 50% dei fondi richiesti.
Alcune risorse FESR, inoltre, devono essere specificamente destinate a progetti attinenti all’economia a basse emissioni di carbonio e precisamente: nelle regioni più sviluppate: 20%; nelle regioni in transizione: 15%; nelle regioni in ritardo di sviluppo: 12%.
Sembra che lo stabilire per ogni questione rigidi paletti e percentuali a cui doversi attenere costituisca per i burocrati di Bruxelles una fissazione vera e propria!
Nelle regioni più sviluppate, a differenza delle altre, il FESR non può essere utilizzato per sostenere investimenti in infrastrutture che forniscono servizi di base ai cittadini nel campo dell’ambiente, trasporti e ICT (Tecnologie dell'informazione e della comunicazione). Poiché sono definite «più sviluppate», forse si presume (indebitamente) che siano già dotate di tutte le infrastrutture necessarie. 

«Ciascun progetto finanziato deve essere compatibile con le disposizioni dei trattati, gli atti adottati in virtù di questi e le politiche comunitarie, soprattutto quelle riguardanti la protezione dell'ambiente, i trasporti, le reti transeuropee, la concorrenza e gli appalti pubblici...».

Inoltre il FESR non sostiene:
a) la disattivazione o la costruzione di centrali nucleari;
b) gli investimenti volti a conseguire una riduzione delle emissioni di gas a effetto serra derivanti dalle attività elencate nell'allegato I della direttiva 2003/87/CE (in quanto –si dice– beneficerebbero già di altre facilitazioni);
c) la fabbricazione, la trasformazione e la commercializzazione del tabacco e dei prodotti del tabacco (è una novità rispetto al passato);
d) le imprese in difficoltà, come definite secondo le regole dell'Unione in materia di aiuti di Stato (questo secondo il principio che le imprese che non riescono a sostenere la concorrenza nel "libero" mercato è meglio che siano lasciate liberamente fallire); e) gli investimenti in infrastrutture aeroportuali tranne quelli connessi alla protezione dell'ambiente o accompagnati da investimenti necessari a mitigare o ridurre il loro impatto ambientale negativo.

Una parte del fondo FESR è destinato ad integrare le regioni ultraperiferiche nel mercato interno che sono sette: la Guadalupa, la Guyana, la Martinica e la Riunione (i quattro dipartimenti francesi d'oltremare) nonché le Canarie (Spagna), le Azzorre e Madera (Portogallo). Tutte hanno adottato come moneta l'euro.
 
Utilizzo del FESR in Italia
  La UE ha spesso criticato l'Italia per elargire aiuti finanziari "a pioggia".
È vero che la CE raccomanda una maggior concentrazione dei fondi, consigliando di destinarli a progetti che impegnino risorse complessive (tra fondi europei e nazionali) superiori ai 50 milioni, ma non permette una concentrazione verso poche priorità scelte dallo Stato, quali potrebbero essere il risanamento ambientale (come il dissesto idrogeologico o le bonifiche dei territori inquinati), la ristrutturazione energetica degli edifici o altro (che potrebbero anche essere perseguite attraverso tante piccole opere di valore economico molto inferiore ai 50 milioni), in quanto obbliga a distribuire i fondi destinandoli a finalità diverse, secondo percentuali stabilite in anticipo, definendo perfino quali e di quanto siano le voci di spesa finanziabili per ogni tipologia di progetto.

L'impossibilità per lo Stato e le Regioni di essere pienamente responsabili delle scelte che dovrebbero loro competere, li induce a elargire in maniera poco attenta, favorendo spesso l'affermazione di una logica clientelare.

Questo non sembrerebbe davvero essere il modo più efficace di perseguire ciò che viene pomposamente (e ipocritamente) enunciato nei documenti europei, la necessità di sviluppare la solidarietà e la coesione sociale o di aiutare chi è svantaggiato!
Inoltre, anche se ci volessimo porre in un'ottica puramente liberal-liberista, l'aiuto a singole attività o addirittura persone, in qualche modo modifica le condizioni per concorrere sul mercato, distorcendolo a favore di alcuni e a sfavore di tutti gli altri.

Già ci viene impedita per legge, in base ai Trattati europei, di definire e attuare una vera politica industriale, dal momento che i governi possono solo elargire alle imprese alcuni aiuti denominati "de minimis", vale a dire inferiori alla soglia massima di 200.000 euro (per alcuni settori il limite può essere anche molto più basso), un sostegno che si presta più ad aiutare qualche "amico" che a rilanciare l'economia. 
Secondo le disposizioni intervenute in anni più recenti, è possibile superare quella soglia solo in alcune località o in alcune Regioni elencate dettagliatamente dalla CE.
Oltretutto anche questi aiuti sono resi di anno in anno più difficili da erogare, per il rispetto dei pesanti vincoli europei di bilancio. Per questo motivo ormai la maggioranza degli aiuti alle stesse PMI viene data con il contributo dei fondi europei, cioè di una quota dei fondi che abbiamo conferito alla UE e che così ci può venire solo in parte restituita.

Questi aiuti pubblici alle imprese possono essere dati dalla UE, oltre che attraverso i fondi strutturali, anche attraverso finanziamenti diretti da parte della UE, o programmi come Cosmos, Horizon 2020 ecc., di cui questo articolo non si occupa.
Difficile pensare che l'obiettivo di sviluppare l'occupazione si persegua vantaggiosamente dando un piccolo contributo a qualche Pmi più fortunata, o più "amica", mentre tutte le altre aziende in difficoltà non sono per niente tutelate o al massimo, in alcuni casi, aiutate a delocalizzare!
I progetti cui la CE preferisce destinare finanziamenti sono legati allo sviluppo del digitale, dell'e-commerce e all'internazionalizzazione delle imprese, tutti progetti finalizzati a far aumentare la competitività delle imprese che ne beneficerebbero (a scapito delle altre, ma questo non va detto).
Il nostro sistema economico è in crisi, da un lato perché l'euro lo penalizza, non permettendo al complesso delle nostre imprese di essere competitive con quelle di altre nazioni e dall'altro perché lo Stato non può attuare misure di sostegno più generali ad aziende o, ancor meno, a settori in crisi. 
 Che senso ha poi non dare contributi a chi di più ne necessita, o a chi produce beni o servizi più utili alla nazione, ed invece privilegiare qualche costoso progetto, diverse volte perfino astruso e inutile, che tuttavia viene definito "innovativo", magari solo perché scritto nelle forme e nel linguaggio graditi alla Commissione Europea? 

Non è certo ciò di cui avremmo più bisogno.
Peggio ancora: l'obbligo a cofinanziare con fondi nazionali, fino ad ora al 50%, perfino per i fondi assegnati a titolo dell'obiettivo "Convergenza", che pure prevedono nel regolamento attuativo un tetto più favorevole di finanziamento europeo pari al 75%, non ha fatto che drenare risorse che potrebbe essere più utile spendere in altro modo e che, oltre tutto, per la quota di finanziamento nazionale –a carico della P.A. per il 70% e delle Regioni per il 30%–, devono essere contabilizzate nel Patto di Stabilità.
Così viene limitata ancor più la possibilità di spendere in modo autonomo alle Regioni italiane e agli enti locali, cui le Regioni possono trasferire sempre minori risorse. In realtà la quota percentuale di cofinanziamento, entro i limiti prefissati indicati sopra, è frutto di contrattazione tra uno Stato e la UE e può essere cambiata.

Nel 2013 iI governo Letta è riuscito ad ottenere, in relazione ai fondi non utilizzati del pregresso settennato 2007-2013 legati all'obiettivo convergenza, che il cofinanziamento nazionale potesse ridursi al 25%, mentre prima era sempre al 50% (per le regole stabilite in relazione al prossimo settennato si può leggere la seconda parte dell'articolo uscito su "Indipendenza", n. 37, al paragrafo "cofinanziamento"). Inoltre gli è stata concessa una possibilità di modificarne in parte la programmazione, attraverso la realizzazione di un nuovo accordo. Sono stati concessi poi a tutti i Paesi due anni di tempo in più per spenderli, prima che avvenga un definitivo disimpegno alla scadenza inderogabile del 31 dicembre 2015.
Il governo Renzi, dal canto suo, ha tentato di contrattare destinazioni ritenute più utili a fronteggiare la disastrosa situazione economica in cui versa l'Italia, per l'impiego dei fondi europei e quelli nazionali destinati al cofinanziamento, come la riduzione del cuneo fiscale o la cassa integrazione in deroga o la stabilizzazione dei precari della Pubblica Amministrazione o il pagamento di una parte (peraltro necessariamente piccola) dei rilevanti debiti verso le imprese, ma senza successo, in quanto la CE gli ha fatto notare che già la riprogrammazione era stata definita e ormai non era più possibile cambiarla.

Inoltre gli è stato ricordato, da parte europea, che i fondi europei non possono essere messi a bilancio o usati al fine di sostituire misure di politica nazionale, tanto più se di natura strutturale e non temporanea.
Purtroppo nella pratica, sottraendo (con il cofinanziamento) risorse finanziarie alla politica nazionale, vanno di fatto proprio a sostituire risorse e scelte nazionali con obiettivi cofinanziati e stabiliti dalla UE. 

Tanto più in una situazione grave come l'attuale, che senso ha parlare di favorire qualunque genere di innovazione, fingendo che potrebbe servire a rimettere in moto l'economia, quando le imprese chiudono a causa della mancanza di domanda dovuta alle misure di "austerità" richieste dall'Europa, oltre che per via di una tassazione eccessiva e di una moneta troppo forte?

Né ha senso pagare delle imprese perché assumano, anzichè aiutare quelle a rischio chiusura che non possono certo assumere. In questo modo è possibile spingere imprenditori di pochi scrupoli ad assumere al solo scopo di ottenere gli "aiuti" e successivamente a chiudere ugualmente, dopo essersi intascato il malloppo.
O finanziare l'apertura di qualunque genere di nuove imprese (start up), spingendola ad indebitarsi per reperire le risorse necessarie a dimostrare, come richiesto, di avere un capitale sociale almeno pari all'entità del finanziamento domandato, quando poi, esaurito "l'effetto fondi", sarà quasi sempre costretta a chiudere. 

Oltre a non poter concentrare tutti o la maggior parte dei fondi per affrontare delle questioni prioritarie, perché è previsto che i fondi debbano essere spezzettati e coprire più questioni ed essere dati a più soggetti e verso obiettivi diversi, men che meno possono essere usati per spese che dovrebbero essere di ordinaria amministrazione, come la manutenzione delle strade e degli istituti scolastici, proprio perché considerate spese ordinarie. Secondo la UE, è molto meglio destinare questi fondi a progetti stravaganti (purché innovativi) che –a quanto dicono– servirebbero ad aumentare la "competitività" del sistema.

Ma nemmeno formule considerate magiche nella liturgia neoliberista, quali "competitività" e "innovazione", possono servire a contrastare il declino economico provocato dalla mancanza di una domanda pubblica, bloccata dalla "spending review", mentre la domanda privata langue perché le famiglie hanno sempre meno risorse e per spendere quelle poche che hanno spesso scelgono beni d'importazione più convenienti, gravati da minori tasse ed espressi in una moneta più debole dell'euro. 

Indubbiamente non tutte le innovazioni sono inutili, ma di fronte a una sottrazione di risorse così cospicua per far funzionare l'ordinario, è una pura finzione proclamare che il problema consista nel saper innovare per competere meglio. Ancora più assurdo credere che una maggior capacità di competere potrebbe favorire una maggiore coesione tra gli Stati e nella società. Naturalmente questo non significa che gli Stati nazionali non possano cercare di spenderli anche per progetti che siano il più possibile utili, ma di certo le regole europee non facilitano loro il compito.
 
Il Fondo Sociale Europeo (FSE)
  Il FSE, invece, secondo quanto viene affermato in documenti ufficiali, «investe sulle persone, riservando speciale attenzione al miglioramento delle opportunità di formazione e occupazione in tutta la UE.
Suo ulteriore obiettivo è avvantaggiare le persone in condizioni di maggiore vulnerabilità e a rischio di povertà».
Gli investimenti del FSE interessano tutte le regioni della UE.
Per far questo, nella programmazione del settennio 2014-2020, «il FSE si dovrà concentrare tra gli obiettivi generali su quelli che corrispondono
al n. 8 («promuovere un'occupazione sostenibile e di qualità e sostenere la mobilità dei lavoratori»), 
9 («promuovere l'inclusione sociale e combattere la povertà ed ogni tipo di discriminazione»), 
10 («investire nelle competenze, nell'istruzione, nella formazione e nell'apprendimento permanente») 
e 11 («rafforzare la capacità istituzionale e di una pubblica amministrazione efficiente»), anche se potrà perseguire indirettamente tutti gli altri, escluso quello della mobilità sostenibile (per gli altri obiettivi vedasi il n. 36 di “Indipendenza”)». 

Nella gestione precedente gli obiettivi indicati erano sostanzialmente gli stessi, anche se espressi con termini diversi e per ognuno di essi eranno espresse percentuali rigide.

Nel documento di programmazione del bilancio 2014-2020 è scritto: «...per ciascuno Stato membro almeno il 20% delle risorse totali del FSE è attribuito all'obiettivo tematico di promuovere l'inclusione sociale, combattere la povertà e tutti i tipi di discriminazione...». 

Le risorse del FSE per l'Italia previste dovranno corrispondere almeno al 23,1% del bilancio della politica di coesione, mentre prima d'ora la quota destinata al FSE era andata sempre a restringersi rispetto a quella degli altri fondi.
Rispetto al totale dello stanziamento dei fondi strutturali (FESR e FSE), la quota relativa al FSE dovrà essere pari a: 25% nelle regioni meno sviluppate, 40% nelle regioni di transizione, 52% nelle regioni più sviluppate.
Tuttavia la CE raccomanda di giungere a incrementi percentuali maggiori, giudicando un errore aver ridotto via via questa categoria di fondi nelle precedenti programmazioni.
Per quanto riguarda il FSE, gli Stati membri devono perseguire la concentrazione tematica secondo le seguenti modalità e dopo aver stabilito 18 priorità d'intervento:

a) nelle regioni più sviluppate, devono concentrare almeno l'80% della dotazione FSE a un massimo di cinque tra gli 11 obiettivi sopra enunciati; b) nelle regioni in transizione, almeno il 70%, ugualmente su un massimo di cinque degli stessi;
c ) per le regioni meno sviluppate, almeno il 60%, sempre su un massimo di cinque.

Eppure sembrerebbe che, princìpi astratti a parte, questo fondo sia ancor più inutile (o, se preferiamo, meno utile) del FESR e si presti a favorire ancor più interessi clientelari, anche perché non di rado è erogato addirittura a persone singole, per finalità che poco hanno a che fare con l'inclusione sociale e con lo sviluppo. 

I finanziamenti devono rispettare la regola per gli aiuti di Stato, cioè non superare la soglia del “de minimis”, tranne nei casi in cui sono previste delle deroghe (come in alcune zone).
Nei fatti, la stragrande maggioranza dei fondi FSE in tutte le Regioni sono stati utilizzati per organizzare corsi di formazione e dare un sostegno economico a chi vi accede, al fine di ottenere qualifiche e attestati professionali di ogni genere.
Sono indirizzati in genere a categorie specifiche, giovani, donne, ma soprattutto a lavoratori svantaggiati (come sono definiti dalla CE i disoccupati di lungo corso), a lavoratori cassintegrati o in mobilità o a disabili detti anche diversamente abili (nel Friuli per esempio sono numerosi i progetti per l'assunzione di disabili, che offrono finanziamenti a chi –generosamente– si offre di assumerli).
L'idea che viene sottesa anche qui è che la disoccupazione sia causata essenzialmente dall'incapacità di chi cerca lavoro di corrispondere all'offerta e di adeguarsi alle mutate condizioni dettate da quest'ultima e ipotizzando assurdamente che rivolgersi a categorie specifiche rimaste, per così dire, più indietro di altre, possa aumentare il numero complessivo di occupati (sarebbe un po' come dire che se tutti riuscissero a diventare più competitivi, la gara la vincerebbero tutti!).

Corsi realizzati più o meno bene, spesso per qualifiche inutili, idonei a finanziare per lo più solo chi li ha progettati e i "formatori" che li conducono. 

Oltre ad essere indirizzati attraverso criteri poco chiari e insindacabili a favore di singoli che sono riusciti più o meno fortuitamente a conoscere in tempo utile le caratteristiche dei bandi e hanno potuto farsi redigere le domande di accesso ai finanziamenti da esperti ben pagati, non sono serviti a far aumentare di una virgola il tasso di occupazione generale (escluso il lavoro dell'apparato che li programma e gestisce) e gli stessi "fortunati" che sono riusciti a fruirne non ne hanno tratto quasi mai vantaggio in termini occupazionali.
La quasi assoluta impossibilità di fornire sbocchi lavorativi e professionali ai corsi, ha incoraggiato varie volte associazioni private, spesso con la complicità di compiacenti funzionari regionali, a organizzare frodi, fingendo di organizzare corsi che in realtà non vengono svolti.

E questo è avvenuto con più facilità in Regioni, come la Sicilia, che si sono viste assegnare più fondi FSE delle altre, a fronte di una caduta generale della richiesta di lavoratori qualificati.
Un altro modo di impiegare i fondi avviene attraverso la creazione di agenzie di orientamento-collocamento al lavoro, peraltro inutili.
Oppure vengono dati ad aziende per assumere lavoratori per qualche categoria considerata svantaggiata, secondo le definizioni date dalla CE valide in quel momento. 
Quanto ai corsi di formazione, possono essere finanziati quelli diretti all'apprendimento delle professioni più varie.
Nel Lazio, ad esempio, tra i progetti andati a buon fine nel settennato 2007-2013 si contano svariate decine di corsi per acconciatore ed altrettanto per estetiste, le due voci più frequenti tra le tante altre, finanziati ognuno dai 100.000 euro in su, seguiti a ruota da quelli per operatore della gastronomia e per operatore della ristorazione.

In Campania, oltre a finanziare innumerevoli corsi, gran parte dei fondi FSE sono dati come «incentivi all'occupazione» a centinaia di ditte di ogni genere, in genere con importi minimali, come i 2.500 euro alla tintoria Pulcinosecco, i 3.750 alla ditta "non solo capelli" snc di Scola e i 5.000 alla "Coco Chanel", fino ad arrivare ai 156.034 alla multinazionale Almaviva contact, a 227.500 alla Visiant Contact, società leader dei call center.

Soldi che sono serviti a rimandare l'agonia di Almaviva, non più in grado di sostenere la concorrenza di società operanti all'estero.
Nonostante i sacrifici imposti ai lavoratori in Italia, la società è costretta a chiudere una sede dopo l'altra. Anche Visiant Contact ha annunciato, esauriti gli effetti degli incentivi, esuberi e conseguenti licenziamenti.
Questi incentivi una tantum, o meglio sussidi economici, ben poco possono fare per sostenere le aziende italiane e limitare la svalutazione selvaggia del lavoro, all'interno di un quadro globalista e con lo svantaggio apportato dalla moneta unica.
Una somma maggiore (245.000) è stata però erogata alla casa di cura polispecialistica del dr. Luigi Cobellis.
Altri finanziamenti vengono dati a svariate decine di corsi di formazione per i cassintegrati e almeno altrettanti a titolo di "patti formativi" o a "borse di formazione" di entità variabile. Un'altra scuola di formazione, con un aiuto di 200.000 euro, si prefigge di formare addetti alle vendite insegnando loro tecniche di approccio ai clienti, come se in questo modo si potessero aumentare le vendite, nonostante o indipendentemente dalla circostanza che la popolazione è sempre più squattrinata. 

Tra le specializzazioni per la cui formazione sono stati dati più soldi, l'addetto al sistema moda (268.800), il cameriere ai piani (280.000), l'operatore di pastificio (293.580). 
Il massimo importo, pari a 604.800, è stato dato alla società Mediterranea per formare la figura di «specialista di cantiere». 
In tutto il Centro Italia sono stati elargiti aiuti a pioggia per il finanziamento di moltissimi corsi per imparare a praticare tatuaggi o massaggi. 
Decine di migliaia di euro sono serviti a finanziare vari corsi di long drink e cocktail nel Friuli-Venezia Giulia. 
Altri fondi sono serviti per finanziare ditte che si sono offerte di fornire un impiego a lavoratori "diversamente abili". 
Ci sono poi molte decine di corsi per imparare l'inglese da svolgersi direttamente in Gran Bretagna, alcuni per studiare il francese in Francia e qualcuno di meno per il tedesco in Germania. 
Corsi finanziati dai cento milioni in su per ogni scuola che li organizza. Zeta Win, una società che si occupa di ricercare il lavoro (che non c'è), ha ricevuto un finanziamento di ben 261.458,33 €. 
Si pensa che in questo modo assumeranno tanti ricercatori che, magari andando a spasso sulla rete con la lanterna, riusciranno a scovare altri posti di lavoro, oltre ai propri! 
Anche un'Agenzia per il lavoro interinale, chiamata "obiettivo lavoro", ha ricevuto 170.000 euro. La somma di 121.875 è stata versata alla Cavamarket per progettare degli studi sul grado di soddisfazione dei clienti. 
La stessa società, proprietaria dei supermercati Despar, nel 2011 è stata accusata di bancarotta fraudolenta per illecite attività finanziarie. 
Anche ad altri supermercati sono stati concessi finanziamenti a fondo perduto, sia pure di entità minore, per studiare i gusti dei clienti. 

La Regione Campania si è assegnata 1.200.000 euro per l'obiettivo: «Supporto didattico attività di orientamento per lavoratori in CIG (Anticrisi)». 
Nelle altre Regioni la musica non cambia poi di molto. 
Nel Lazio, ad esempio, abbondano i corsi per barman e pizzaioli, ma vengono finanziati anche corsi per formare funamboli. 
Sono dati anche semplici incentivi temporanei all'assunzione, soprattutto di disabili o cassintegrati, a molte ditte individuali. 
Vengono aiutati anche diversi commercianti al dettaglio e perfino alcune imprese di pompe funebri. 
Al Nord come al Sud, le professioni per cui si organizzano più corsi di formazione sono quelle legate al settore culinario (cuochi, pasticceri, camerieri) o estetico (parrucchieri, estetiste) o commerciale (addetti alle vendite, banconisti, commessi). 
Anche se non mancano, sia pure in misura inferiore, corsi per elettricisti e meccanici, soprattutto al Nord. È chiaro che al Sud, dove tra l'altro sono destinati più fondi Fse, nell'ottica sbagliata che il sottosviluppo sia dovuto a un deficit di formazione e che colmandolo si possa colmare il divario con il Nord e con gli altri Paesi, si trovano più spesso corsi meno legati a mestieri "pratici", dal momento che ci sono meno aziende che li richiedono. In Basilicata gli incentivi all'occupazione sono stati dati prevalentemente a fronte dell'assunzione di lavoratori "svantaggiati", come i disoccupati di lungo corso. 
In Calabria sono molto diffusi i voucher dati a singole persone, di cui viene elencato solo il nome e il cognome. Voucher per singoli imprenditori e professionisti di qualche migliaio di euro a testa in Abruzzo, dove spicca un numero cospicuo di finanziamenti a soggetti vari per l'«Attuazione di misure attive e preventive sul mercato del lavoro». 
Un numero notevolmente maggiore di imprese ha ottenuto finanziamenti a titolo di un programma non meglio specificato denominato «lavorare in Abruzzo» di decine di migliaia di euro, diversi oltre 100.000 euro. 
La Sicilia, avendo potuto disporre di una sovrabbondanza di fondi FSE, è stata in grado di realizzare corsi veramente "innovativi", almeno nella denominazione, come ad esempio "Banchetti e ricevimenti", "Cuore, mente e professionalità", "I frutti dell'Etna", "Una carezza per la gioia", "Dal dialetto al teatro dialettale nel gelese". 
Non è che in altre Regioni cambi molto il "modus operandi" di questo fondo. 
E neanche in altri Paesi. Potrà essere dato come sostegno assistenziale a beneficiari diversi, più o meno meritevoli, potrà finanziare corsi più o meno validi o strampalati, ma se anche chi uscisse dai corsi fosse superqualificato non potrà trovare un lavoro che non c'è, e se riuscisse a trovarlo sarebbe necessariamente a discapito di qualcun altro, dal momento che l'offerta dei posti di lavoro non viene ampliata. 
Così anche le nuove imprese che dovessero aprire, dovrebbero necessariamente competere per ritagliarsi una fetta di mercato con le altre già esistenti, probabilmente causando altri fallimenti. 
Altro che sviluppo e coesione sociale!
 
Alcuni dei tanti paradossi e "sprechi" europei
  Se è sicuramente vero e criticabile che in Italia spesso prevale la logica clientelare nell'assegnazione degli aiuti, tuttavia bisogna riconoscere che è il meccanismo stesso e la "logica" di questi fondi che lo permette, lo suggerisce e lo facilita.

La politica e la burocrazia europea di fatto si alleano con la burocrazia e la classe politico-amministrativa italiana, permettendo a queste ultime di continuare a foraggiare gli interessi di clientele locali, in cambio dell'accettazione complice di un sistema europeo che è fondato sull'opposto esatto dei princìpi che va sbandierando. 

Perciò nessun politico metterà in discussione il meccanismo dei fondi, come nessun'altra decisione della UE.
Perciò i fondi europei verranno da tutti esaltati come una fondamentale opportunità per la crescita, dicendo che la colpa è solo nostra se non riusciamo a coglierla appieno, giammai della UE e dei meccanismi che utilizza!

A riprova di ciò, possiamo andare a vedere cosa succede in altri Paesi e troveremo spesso lo stesso andazzo, il che farebbe pensare a un vero e proprio difetto di fabbrica.
Intendiamoci, è sempre meglio utilizzare i soldi in quelli che sono considerati "sprechi" che non utilizzarli affatto.

Ma non prendiamoci in giro sulle loro virtù taumaturgiche!

Il paradosso è che nello stesso momento agli Stati –e all'Italia con la scusa che avrebbe un debito pubblico troppo elevato ancor più che agli altri– viene impedito di spendere, anzi viene richiesto di tagliare sempre più le spese.
E per di più resta l'obbligo a cofinanziare i "progetti" europei, sottraendo altre risorse e altra sovranità allo Stato nazionale!
E non è vero che questo accade solo in Italia, perché i furbi e i politici poco onesti esistono dappertutto e perché i criteri e i modi di erogazione dei fondi sono simili in tutti i Paesi.
Solo per citare qualche esempio di utilizzo quanto meno discutibile, in Germania, sempre per migliorare la coesione sociale, è stata finanziata la costruzione di costosi campi da golf e vari alberghi di lusso.
Alberghi esclusivi e costosi campi da golf sono stati costruiti anche in Spagna, uno dei quali al confine col Marocco, a pochi metri dal punto da cui tantissimi profughi cercano disperatamente di entrare in Europa e sono violentemente respinti, campi realizzati nell'ambito dell'obiettivo "Cooperazione territoriale transfrontaliera", con l'approvazione della Commissione Europea.
Ancora in Germania è stato finanziato dai fondi europei un crematorio per animali e un complesso di marketing, al fine dichiarato di «migliorare la posizione di mercato di macellai isolati». 
All'Ungheria, per migliorare il «benessere animale» è stato dato quasi mezzo miliardo per costruire un centro di idroterapia canina, che però non è stato mai realizzato! 
In Finlandia i fondi hanno promosso corsi di tango argentino. 
Diverse costruzioni edilizie del tutto inutili, vere e proprie cattedrali nel deserto, del genere che il nostro Sud è abituato a conoscere, sono state realizzate in vari Paesi, prevalentemente in Bulgaria. 
Inutile dire che per tutti questi progetti non sono stati richiesti indietro i fondi concessi, dal momento che hanno ottenuto l'approvazione in sede europea.
Per quanto riguarda gli aiuti alle Pmi, fondi in teoria a loro destinati sono invece finiti nelle casse di multinazionali come Ibm, Nokia Siemens, Fiat, Coca-Cola, British American Tobacco (1,6 milioni per la costruzione di una fabbrica di sigarette) e persino McDonald's. In Polonia, un gruppetto di multinazionali ha speso circa sette milioni di euro provenienti dai FSE, che dovevano servire alle PMI per offrire corsi di formazione ai nuovi assunti e ai propri dipendenti, compresi i manager. 

Del resto la Polonia, pur non avendo per propria scelta adottato l'euro, è la nazione a cui sono destinati di gran lunga più fondi europei di qualunque altra e quindi si sente più autorizzata ad utilizzarli senza badare a sprechi.
Nel passato settennato le sono stati messi a disposizione, in fondi strutturali, 67 miliardi e per il prossimo ciclo 73.
C'entrerà qualcosa il fatto che la Polonia rappresenta il più grande partner commerciale della Germania e che può assumere il ruolo di "vetrina" per far credere ai Paesi dell'Est Europa che non avevano o non hanno ancora aderito all'UE (come l'Ucraina), che entrarvi sia un'occasione fantastica da non perdere?

La possibilità per la Polonia di utilizzare i fondi europei come occasione di crescita, con tutti i limiti che questi presentano, è data, più ancora che dalla loro maggiore entità, dal fatto che ha conservato la sovranità monetaria e inoltre, pur stando nell'Europa, ha richiesto ed è stata autorizzata a usufruire di parziali deroghe ad alcuni Trattati. 

Quanto a quel che viene detto, che solo l'Italia sarebbe "incapace" di spendere i fondi che le sarebbero messi a completa disposizione, non è vero che gli altri Paesi li "sappiano" spendere poi tutti (come spesso si sente dire).
Alla fine del 2013 l'Italia è arrivata al 52,7%, nello stesso periodo la Francia era al 54,83%, la Spagna al 60%, la Romania al 33,47%, la Bulgaria al 50,8%, la Polonia al 62,4%, il Portogallo, che ne utilizza più di tutti gli altri, arriva al 70,5% Per diversi Paesi, tra cui l'Italia, una certa accelerazione si è verificata negli ultimi mesi del 2013 (nel giugno del 2013 era ferma al 40,27%). A fine 2014 è arrivata a quota 61,2% per il FSE e a 49% per il FESR: sarebbero rimasti ancora ancora 7,9 miliardi da spendere (quando si parla di 13,6 miliardi si comprende il cofinanziamento nazionale obbligatorio richiesto).
Ma vengono fornite anche cifre diverse, in genere maggiori: in effetti se la cifra sopraddetta fosse esatta, significherebbe che in questi mesi si sarebbe verificata una forte accelerazione della spesa, dovuta certamente anche alla ricontrattazione, oltre che dei programmi, della quota di cofinanziamento ridotta dal 25% per la parte dei fondi rimasti ancora da utilizzare del programma "Convergenza", come in gran parte degli altri Paesi europei.

Diversi progetti, specie relativi ai fondi FESR, vengono bocciati per ritardi nell'espletamento di formalità burocratiche o semplici vizi formali di stesura. Altre volte progetti già approvati vengono eseguiti troppo lentamente, per problemi dovuti alla burocrazia italiana o alle procedure imposte dalla UE. Spesso i concorsi vengono vanificati da ricorsi proposti (a ragione o pretestuosamente) da concorrenti esclusi o che hanno perso.
E la UE impone scadenze tassative, spesso difficili da rispettare, di pagamenti da dimostrare effettuati sulla base di vari stati di avanzamento dei lavori, per ottenere i successivi rimborsi.
Se qualcosa va storto, c'è il rischio di vedersi bloccare i fondi o perfino, a volte, di vederseli richiedere indietro, bloccando le opere, con possibilità di richiesta dei danni da parte delle imprese interessate e di sforamento del Patto di Stabilità interno da parte dei Comuni o degli altri enti deputati al cofinanziamento. Lo stesso Patto che rende arduo il tentativo di destinare fondi al cofinanziamento, dal momento che, per farlo senza sforarne i parametri, può essere necessario rinunciare a destinarli a spese più necessarie, senza contare la difficoltà di formulare in anticipo date certe di spesa e previsioni esatte su quanto il Patto peserà di volta in volta.
Per non considerare il supplemento di difficoltà che si verificherà nella prossima programmazione a causa della moltiplicazione delle condizionalità che la CE ha previsto per rendere più incisivo il potere ricattatorio di cui vengono dotati i fondi. Potere che travalica il perimetro del loro utilizzo, investendo l'insieme delle scelte di politica economica e la stessa sfera giuridica di tutti gli Stati europei, danneggiando in primis quelli con meno potere e risorse economiche, come analizzato nel n. 37 di Indipendenza.
I fondi dunque, al posto di servire per lo sviluppo e la coesione, servono per togliere i residui spazi di autonomia, inducendo alla sudditanza verso le istituzioni dell'Unione.

(articolo pubblicato su“Indipendenza”  in tre parti: le prime 2 nel 2014 e la terza nel 2015, numeri 37, 38 e 39)

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