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Il lavoro in Italia tra ideali e perversioni


Precariato, disoccupazione, sfruttamento. L'aspirazione su cui la Costituzione voleva fondare il Paese è stata tradita. Ma per il giurista Onida contro la ferocia del mercato la Carta resta essenziale
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro: fatto però da precari, sommersi, da chi percepisce un salario così basso da non consentire una vita dignitosa e dai molti costretti ad autodemansionarsi per mancanza di alternative.
La chiarezza nobilitante della Costituzione, un testo così prodigioso nella lucidità e nella fermezza dei principi enunciati, sembra oggi fare a pugni con una quotidianità segnata tanto dalla disoccupazione quanto dalla diffusa mancata soddisfazione professionale, mescolata a polemiche, banalità e una gran confusione concettuale, prima ancora che terminologica: i bamboccioni e i ragazzi troppo choosy, le partite di calcetto per trovarsi un impiego e gli inviti a emigrare all’estero ai neolaureati (copyright, nell’ordine, dell’ex ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa, dell’ex titolare del Lavoro Elsa Fornero, del suo attuale successore Giuliano Poletti e dell’ex presidente dell’università Luiss Luigi Celli: una sfilza imbarazzante).

Eppure, nella Costituzione della Repubblica, entrata in vigore esattamente 70 anni fa, la parola lavoro ricorre 17 volte, distribuite tra i principi fondamentali (articoli 1-12) e i rapporti economici (articoli 35-47). A partire dallo stesso incipit della Carta, che per decenni ha costituito una spinta propulsiva della vita del Paese, rendendo milioni di persone parte indissolubile della stessa nazione, con una essenziale, imprescindibile funzione e immedesimazione nella stessa.

Ma se oggi il lavoro quasi non rientra nei programmi elettorali, nemmeno nelle promesse roboanti che una volta potevano galvanizzare (e illudere) parte dei cittadini, è necessario farsi qualche domanda. A partire da quella fondamentale: il lavoro è un diritto? Oppure va ripensato come, alternativamente, un privilegio per chi può sceglierselo o un dovere per chi deve accontentarsi?

«Il diritto al lavoro non è un diritto pienamente azionabile per cui il disoccupato va davanti al giudice e gli dice: “Dammi un impiego”», spiega Valerio Onida, eminente giurista, già membro della Corte Costituzionale e presidente della stessa, a cui chiediamo di guidarci in questa riflessione. «Ma la Costituzione non accetta il sistema puramente liberista per cui il lavoro sia una delle tante merci regolate dal mercato. Secondo la Carta, infatti, il lavoro non è solo uno strumento attraverso cui le persone acquisiscono mezzi per la sussistenza, ma – come dice l’articolo 4 – costituisce quel contributo che ogni individuo, titolare di diritti inviolabili, ha il dovere di dare, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, alla società».

Non si lavora insomma solo per mangiare, ma anche per nobilitarsi e darsi un senso. «Il diritto al lavoro significa dunque concretamente che l’ordinamento sociale deve preoccuparsi di fornire un assetto complessivo ai rapporti economici che risponda ai principi costituzionali». E, cioè, che siano promosse le condizioni per cui ognuno possa aspirare a svolgere una attività o una funzione che contribuisca tanto al progresso della società quanto al proprio benessere: il che include produrre leggi e tutele adeguate. Tanto più che, spiega ancora Onida, «da questa concezione del lavoro come diritto ma anche come dovere discende che la piena occupazione è un obiettivo costituzionalmente dovuto».

Lo sviluppo della personalità

Non solo per ragioni di mero conto economico. Bensì – ed è forse l’aspetto più trascurato di questi tempi disastrati – perché la mancanza di lavoro implica sia «la difficoltà a mantenersi, per cui si devono prevedere forme di assistenza, sia il mancato sviluppo della personalità». Tant’è vero che l’articolo 38 della Costituzione cita espressamente il rischio della «disoccupazione involontaria», insieme a quelli di «infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia» fra i casi in cui «i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita», chiarisce ancora il giurista.

È improbabile che i padri costituenti, sette decenni fa, potessero prevedere quello che sarebbe successo, ma si entra qui nel territorio della contemporaneità. Nelle storie di chi è qualificato e non trova un impiego per cui ha studiato, di chi non ha la possibilità di scegliere, o di chi per scegliere è costretto a emigrare. Situazioni che obbligano a domandarsi anche dove stia il limite: l’ingegnere che si rifiuta di fare il dog sitter sta tradendo il diritto e il dovere del lavoro?

Secondo la Carta, pare di capire, no. «È incostituzionale il non fare nulla, o il rifiuto di formarsi. Ma esiste oggi un difetto di politiche formative, nonché delle cosiddette politiche attive del lavoro, il cui obiettivo non è solo fare incontrare domanda e offerta di lavoro ma mirare a un sistema nel quale tutti coloro che sono in grado di lavorare siano messi in condizione di dare il loro contributo». Detto in altre parole: non si può stare con le mani in mano, ma il contesto ideale tracciato dalla Costituzione non vuole che ci si adegui a qualsiasi offerta di lavoro. Piuttosto, si dovrebbero creare le condizioni perché gli impieghi disponibili rispecchino le forze e le aspirazioni delle persone.

Il profitto non può guidare le scelte


Se suona molto lontano dalla realtà, è perché lo è. L’aspirazione ideale della Costituzione è tradita nei fatti: non solo dalla scarsità di impieghi, ma anche dal ricorso a formule e surrogati di un lavoro soddisfacente, che possa dare adeguato sostegno a sé e alla propria famiglia, come prevede l’articolo 36. La retorica della “libertà” della gig economy – l’economia dei lavoretti – è uno degli esempi più evidenti di questo travisamento; il ricorso massiccio al lavoro nero ne è un altro pilastro, fatto anche di finti contratti, partite iva e formule postmoderne che ledono una serie di altri diritti per cui si è lottato nei secoli: la tutela del lavoratore come individuo, con riguardo alla retribuzione e al rispetto dei limiti della fatica (orari, riposo settimanale, ferie). «La Costituzione riconosce che il lavoro non deve essere oggetto di sfruttamento in nome del profitto e dello sviluppo economico. Ai tempi della sua redazione, si pensava soprattutto al lavoro in fabbrica, ma oggi esistono altre forme di sfruttamento o di sottovalutazione e bisogna trovare i modi idonei per adattare le discipline del lavoro alle diverse circostanze».

Su questo principio, va detto, è difficile trovare qualcuno che non convenga. Ma i nodi, come dimostrano le statistiche e certe dichiarazioni in libertà di ministri e affini, vengono al pettine quando si tratta di agire concretamente. Specie in quei casi in cui lo sfruttamento degli uni produca servizi migliori per altri: «Se Amazon consegna gli articoli venduti pacchi in 24 ore, se distribuisce merci a prezzi più bassi rispetto ai negozi, esiste certo un vantaggio dei consumatori, ma c’è anche un costo sociale. E su questo non c’è sufficiente attenzione: l’ordinamento non può disinteressarsene, non può essere soltanto la spinta del consumo a determinare tutto», chiarisce ancora il presidente emerito. Né è corretto – aggiungiamo noi – che tocchi al cittadino farsi carico della scelta tra il proprio vantaggio personale e l’erosione del diritto altrui.

La sinistra senza idee

Chi dovrebbe interessarsene è quantomeno la sinistra, una sinistra che, 70 anni fa, non chiedeva l’adesione della Costituzione al collettivismo comunista, ma riteneva necessaria la tutela dei lavoratori, incontrandosi in questo con le correnti socialiste e cattolico-democratiche. «Ma oggi tutte le sinistre, sia quelle una volta marxiste sia quelle nuove, appaiono un po’ sguarnite di idee e di programmi. Bisogna allora lavorare ripartendo dal fronte costituzionale, perché l’alternativa è lasciar fare al mercato: e la conseguenza inevitabile è la crescita delle disuguaglianze interne della società, il famoso 1% della popolazione che detiene tanta ricchezza quanto l’altro 99%», tira le fila il presidente emerito, con lucidità che pochi, anche tra chi è molto più giovane di lui e quotidianamente si cimenta con queste cose, dimostra.

Perché due secoli dopo, seppur in forme diverse, combattiamo ancora contro gli stessi «mostri» della prima industrializzazione: il lavoro come merce e il profitto come obiettivo supremo. Fortunatamente, però, la Costituzione sta qui a ricordarci che facciamo bene a lottare.

Autore Gea Scancarello

Art. 1
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la eser- cita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Art. 4
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Art. 35
La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori.
Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro
Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse generale, e tutela il lavoro italiano all’estero.

Art. 36
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.
Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.

Art. 37
La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.
La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato.
La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione.

Art. 38
Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al manteni- mento e all’assistenza sociale.
I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidita` e vecchiaia, disoccupazione involontaria.
Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale.
Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.
L’assistenza privata è libera.

Art. 46
Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.



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