Pieni di alta
coscienza ambientale, di sicuro siete già molto preoccupati di
quanto inquinano gli automezzi a
combustione interna, specie Diesel.
Presto vi faranno allarmare
sempre più, grazie ad appositi
servizi mediatici.
Ma ecco la soluzione: come a segnale convenuto,
Volvo annuncia che
produrrà solo auto elettriche o ibride, BMW costruirà una Mini
elettrica in Gran
Bretagna , “Mercedes
sfida Tesla: dieci modelli elettrici dal 2022”. Elon Musk , il più
geniale imprenditore secondo
i media , ha già costruito la Tesla Gigafactory, “la più grande
fabbrica del mondo”, che
(promette) “dal 2018 potrà fornire celle al litio per 500.000
vetture all’anno”.
E se accadesse che
la maggior parte dei consumatori, arretrati ed ecologicamente
scorretti, non fossero convinti
della convenienza di acquistare auto elettriche con batterie al
litio, decisamente più
costose?
Niente paura: ecco i governi che, sempre solleciti del
vostro bene, già annunciano:
vieteremo l’entrata delle auto a Londra entro il 2040, a Berlino
entro il 2020, “Parigi ed Oslo
dichiarano la guerra al Diesel”, i sindaci di diverse capitali
stanno seguendo: solo auto elettriche
nei centri cittadini.
Il governo Usa elargirà a Elon Musk 1,3
miliardi di sussidi pubblici,
per la sua geniale impresa (Musk è geniale anche nell’intercettare
sussidi pubblici). Vi
toccherà comprare un’auto elettrica. Ostinarsi a tenere un diesel
sarà segno di
rozzezza e
insensibilità, come essere “omofobo” e populista.
Di punto in bianco,
l’auto elettrica.
E anche i governi,
avrete notato, si sono schierati per l’elettrico “a segnale
convenuto” – signo dato, come
dice Giulio Cesare nel De Bello Gallico.
Chi e da qual luogo abbia
dato lo squillo di tromba
convenuto a cui tutti i leader e le Case obbediscono, è difficile
dire; ma dev’essere lo
stesso centro, che sta dovunque e in nessun luogo, che ha comandato
di insegnare il gender
ai bambini dell’asilo, l’obbligo di 12 vaccini ai neonati, il
matrimonio ai sodomiti, puntare
all’abolizione del contante, ridurre la Chiesa cattolica ad una
copia sbiadita
di Human Right
Watch, e presto legalizzare l’eutanasia per le bocche inutili.
Tutte cose di cui fino a pochi anni fa
nemmeno si parlava, e d’improvviso vengono attuate dalle due parti dell’Atlantico,
simultaneamente, come da segnale convenuto.
La decisione
titanica di riconvertire l’industria dell’auto non può esser
venuta che molto dall’alto, ed
esser dovuta a motivi strategici che saranno chiari più avanti.
Forse s’è deciso di tagliare per sempre
il lucro petrolifero ai paesi produttori, specie a quello che, solo,
si rifiuta di piegarsi alla
Superpotenza.
Forse hanno pronta una innovazione cruciale nelle
batterie, e questa innovazione è
nelle mani “giuste”.
Forse hanno escogitato questo processo per rivitalizzare –
letteralmente con un elettroshock – l’economia dell’intero
mondo occidentale, dal 2008 in
stagnazione irreversibile nonostante i troppi trilioni di dollari
iniettati dalle banche
centrali nel
sistema: nonostante il denaro a costo sottozero, le banche non lo
offrono, le imprese non lo
chiedono, i privati se possono li tengono in deposito; la velocità
di circolazione di
moneta cala invece di salire, di inflazione non si vede l’ombra .
L’obbligo di comprare auto
elettriche, con la riconversione di tutta la rete di rifornimento
dalla benzina alla corrente, dovrebbe
innescare l’auspicata ripresa e la fiammata inflazionista.
Contro
l’inquinamento, naturalmente
Qualunque sia la
ragione, quella che vi diranno è la più virtuosa: contro
l’inquinamento, contro l’effetto serra,
per bloccare il riscaldamento globale prodotto dalle auto coi loro
particolati dannosi.
Questo serve ad
introdurre e spiegare il titolo di questo articolo.
Voi non lo
sapete, ma venti navi porta
containers inquinano quanto la totalità degli automezzi circolanti
nel mondo.
Sono cargo
colossali, lunghi trecento metri – Maersk ne ha di 400 metri,
quattro volte un campo di calcio –
perché più sono colossali, più peso e containers possono
trasportare, e quindi più il costo
del trasporto diminuisce.
I loro titanici motori, onnivori, bruciano
ovviamente tonnellate di
carburante: ovviamente il meno costoso sul mercato, residui della
distillazione catramosi, financo
“fanghi di carbone”, con altissime percentuali di zolfo che alle
auto,
semplicemente, sono
vietate.
Per questo 20 cargo
fanno peggio che tutto gli automezzi sulla Terra.
Il punto è che non
sono venti; sono 60 mila
supercargo che stanno navigando gli oceani, traversano gli stretti di Malacca, fanno la
fila per entrare nel canale di Suez, superano Gibilterra e dirigono
alle Americhe.
Non solo, ma ogni anno si contano 122 naufragi – uno ogni tre giorni – di cargo con
più di 300 containers; che
finiscono in mare col loro contenuto: quanto di questo contenuto è
inquinante?
Secondo gli esperti,
ogni anno vanno a fondo in questo modo 1,8 milioni di tonnellate
l’anno di prodotti tossici.
Insieme, beninteso, a duemila marinai; duemila morti l’anno, perché
il loro è il secondo mestiere più
pericoloso del mondo.
Il primo è quello
del pescatore, spiega un’esperta intervistata in una inchiesta di
France 5, “Cargos, la face
cachée du Fret” (Cargo, la faccia nascosta del trasporto
marittimo): una inchiesta
impressionante, che non si capisce come sia riuscita a passare in un
medium mainstream –
evidentemente ci sono ancora giornalisti non-Botteri.
Una indagine
spietata su questo settore –
le multinazionali dell’armamento – che preferisce stare
nell’ombra; i cui colossi battono
bandiere di comodo, dalla Liberia alle Isole Marshall, da Tonga a
Vanuatu, e persino della
Mongolia, che non ha sbocco a nessun mare, ma offre condizioni di
favore agli armatori globali.
Fra le quali c’è questa: che qualunque sia la nazionalità dei
marinai, le leggi
sul lavoro, obblighi
salariali ed assicurazioni infortunistiche e sanitarie applicate loro
sono quelle della nazione
di bandiera. Tonga e Mongolia sono famose per l’avanzata
legislazione sociale.
Di fatto, metà del
personale navigante è filippino, perché “i filippini sanno
l’inglese e costano poco”; un
saldatore filippino su un cargo conferma, guadagno quattro volte più
di quello che prenderei al mio
paese, “ma è come stare in prigione”.
Gli smartphone non
prendono, Internet nemmeno a pensarci,
gli alcoolici sono vietati sulla flotta Maersk. Se poi un’ondata ti
porta via
dal ponte durante
una tempesta, oppure resti schiacciato dallo scivolare dei containers
male assicurati, la
famiglia può adire alle corti mongole o di Vanuatu.
Ormai non si
sbarca più nel porti, non c’è
riposo: la grande invenzione dei containers, questi parallelepipedi
di quattro misure standard,
intermodali, ossia concepiti come caricabili su pianali di treno o di
camion, non consentono soste: lo
stivaggio non esiste più, ormai dagli anni ’60; uno solo di questi
mega-
cargo, ci informano,
può caricare 800 milioni di banane (abbastanza per dare una banana
ad ogni abitante
d’Europa e Nordamerica), scaricarle in 24 ore, e poi via, perché
il tempo è denaro.
Il
comandante (il servizio ne intervista uno, è un romeno) non sa cosa
trasporta e non gli importa: del
contenuto di ogni container – che parte sigillato – è legale
responsabile lo speditore, e il
destinatario.
Ciò praticamente azzera i controlli doganali, con gran
risparmio del tempo che è
denaro. Vari dirigenti di frontiera sostengono che “solo” il 2%
può contenere
armi o droga,
“perché la massima parte degli spedizionieri rispetta le leggi”.
Un’industria senza regole , del tutto
estraterritoriale, che rende alle compagnie giganti 450 miliardi di
giro d’affari.
Quando i grandi
cargo ripartono, sono in parte scarichi avendo lasciato sulla
banchina parte dei containers: allora,
per stabilizzare l’equilibrio, pompano nei cassoni decine di
tonnellate di acqua di mare.
Con
migliaia di pesci e creature viventi che poi trasportano, e
scaricano, a
migliaia di
chilometri dal loro habitat nativo. Per tacere del rumore dai motori
(sott’acqua, risulta 100 volte il
volume sonoro di un jet), un inquinamento acustico fortemente
sospettato di disorientare i
grandi cetacei, che sempre più spesso finiscono spiaggiati.
Ma allora – direte
voi – se governi e lobbies ecologiste sono così preoccupati per
l’inquinamento dei
mari e il riscaldamento globale, tanto da aver deciso di vietare prossimamente tutte
le auto a motore a scoppio del pianeta e sostituirle con motori
elettrici puliti e più
efficienti, perché non pongono qualche limite ai mega-cargo e alle
mega-petroliere?
Se 20 di
loro inquinano come la totalità degli automezzi, basterebbe ridurre
dello 0,35 per cento il
traffico navale per ottenere lo stesso risultato di disinquinamento
della riconversione
globale all’auto elettrica.
Ma no. Avete fatto
la domanda sbagliata. Vi deve mettere sull’avviso il fatto che il
Protocollo di Kioto non copre il
trasporto marittimo, ignora quel che inquina e distrugge.
Come spiega l’economista Mark
Levinson, autore dello studio più approfondito sui containers, The
Box: How the Shipping
Container Made the World Smaller and the World Economy Bigger,
(Princeton University Press),
“la gente crede che la globalizzazione sia dovuta alla disparità
dei salari, che provoca la
delocalizzazione della produzione in Asia o dovunque la manodopera è
meno cara.
Errore: la disparità
di salari esisteva anche prima della
mondializzazione. Quello che permette lo
sfruttamento della manodopera a basso costo per fare
prodotti da vendere poi sui mercati di alto
reddito, è l’abbassamento tremendo dei costi
di trasporto navale.
Questo è il fattore
cruciale, reso possibile dai containers e dalle
mega-cargo, che riducono il costo all’osso”.
Costi talmente
bassi, “che conviene spedire i merluzzi pescati nel mar di Scozia
in Cina in container
refrigerati per essere sfilettati e ridotti a bastoncini in Cina, e
poi rimandati ai supermercati e
ristoranti di Scozia, piuttosto che pagare retribuire sfilettatori
scozzesi”.
Questo lo racconta Rose
George, giovane giornalista britannica, che dopo 10 mila chilometri
fino a Singapore a bordo
della Mersk Kendal, una portacontainer da 300 metri, manovrata da
solo 20 uomini, ha scritto
un libro chiamato “Novanta per cento di tutto – Dentro
l’industria invisibile che
ti porta i vestiti
che indossi, la benzina nella tua auto e il cibo nel tuo piatto”.
(Ninety Percent of Everything: Inside
Shipping, the Invisible Industry That Puts Clothes on Your Back, Gas
in Your Car, and Food on
Your Plate).
Perché la brava giornalista ha scoperto questo: che
nella nostra società
post-industriale dove non produciamo più ma compriamo, il 90 per
cento di ciò che ci occorre e che
acquistiamo, ci viene portato dalle portacontainers.
Tutto: dalla
carta al legname, al bestiame
vivo al macellato e surgelato.
Il giaccone di sintetico imbottito, i
jeans, le giacche che trovi da
Harrod’s o alla Standa, sono cuciti in Vietnam o Bangladesh; smartphone e tablets
e tutta l’elettronica di consumo, viene dalla Corea, dalla Cina,dal Giappone; non
parliamo di frigoriferi e lavatrici; il grano, dal Canada o
dall’Australia; le
primizie di frutta e
verdura fuori stagione, dagli antipodi.
Una volta scaricati,
i containers sono vuoti a rendere, che sono noleggiati
per altri viaggi;
prima o poi finiscono per rifare la rotta di ritorno,
dall’Occidente
all’Asia.
Riempiti, per non fare il viaggio a vuoto, di rottami metallici e di
plastica, di stracci e vestiti vecchi, di carta usata da riciclare.
Tutto ciò che ci
resta dopo aver consumato cose che un tempo sapevamo
fare, ma che adesso
compriamo perché ci costano meno che pagare i
nostri operai.
Un
“meno” che ha un costo altissimo, sociale, di civiltà, ed ambientale.
Basta
pensare all’eventualità che il colossale traffico si debba bloccare, come è
possibile per un una guerra guerreggiata che blocchi, poniamo, il Canale
di Suez, o renda impraticabile Malacca o – facilissimo – Ormuz :
la nostra
autosufficienza,
insomma autonomia economica vitale, sarebbe il 10 per cento di quel
che ci abbisogna.
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