un ente privato gestisce poteri
dello Stato, senza risponderne ad alcuno
I misteri della banca centrale : articolo completo
La banca
centrale ama circondarsi di una cortina di silenzio, alla quale viene
dato il nome di riservatezza ma che, nei fatti, significa carenza di
trasparenza.
Ancor
oggi, se si chiede ad un comune cittadino cosa è la banca, quali ne
siano i compiti e la collocazione istituzionale, si ricevono risposte
confuse ed incerte. Sopratutto, è del tutto ignota la sua funzione
più importante, quella di battere moneta: infatti tutti sono
convinti che questa funzione sia svolta dallo Stato.
Ma ciò che
maggiormente rende questa "banca" un incomparabile
fenomeno alieno, è la sua nascita e la sua collocazione nelle
istituzioni pubbliche. Già l'ideazione e la realizzazione delle
banche centrali è fenomeno che appare riduttivo definire
assolutamente sconcertante per la totale anomalia che presenta
sul piano politico-sociale, del diritto costituzionale e dei
principi e valori democratici più elementari.
Indubbiamente, ci
sono sempre stati dei centri di interesse privato che riescono in
qualche modo a far fare allo Stato ciò che fa loro comodo, ma qui
andiamo clamorosamente molto oltre gli episodi specifici per per
arrivare ad uno strumento di gestione diretta della collettività, in
grado di orientarne il livello di ben essere, le condizioni di vita,
e di dettarne le strutture interne.
Prenderemo in esame
il caso specifico della banca centrale italiana come caso e modello
emblematico di una realtà che, ancor più incredibilmente, è
planetaria. Ne tratteremo, ovviamente, con l'avvertenza che - oggi -
i relativi poteri e funzioni sono stati trasferiti (altro fatto
incredibile) alla Banca centrale europea. Immagineremo dunque che la
banca sia tuttora in condizione pre-Bce, ben sapendo che tutto ciò
che diremo si applica ora alla Bce medesima (come del resto, a tutte
le banche centrali di tutto il globo).
A. - Vediamo dunque
in dettaglio che cosa è la Banca d'Italia, cosa fa e con quali
effetti, così da inquadrarla sul piano funzionale e su quello
istituzionale.
1. - Si tratta in
effetti di un ente dalle caratteristiche assai particolari.
Nasce, con legge
dello Stato (n.443) del 10 agosto 1893, dalle ceneri della fallita
Banca Romana, e dalla fusione della Banca Nazionale del Regno, con la
Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito.
La forma giuridica è
quella di una qualunque società per azioni.
Pur essendo dunque
di diritto privato, ebbe attribuito lo specialissimo compito,
tipicamente pubblico, di battere moneta e di stabilire il livello dei
tassi di interesse.
Potestà, queste,
diventate esclusive con il R.D. 6.2.1926, n. 812 sull'unificazione
degli istituti di emissione. Tale autorità all'epoca era infatti
esercitata anche da Banco di Napoli e Banco di Sicilia.
L'attribuzione
peraltro della potestà di battere moneta (detta oggi anche
"signoraggio") ad un privato, è assolutamente al di fuori
delle righe.
Battere moneta non
solo è sempre stata antica, e diciamo pure gelosa, prerogativa del
sovrano, ma - per sua natura - aveva ed ha rilevanti ripercussioni
immediate sulla economia reale della collettività nel suo insieme.
È perciò facoltà
che supera la dimensione privatistica per assurgere a tipico - ed
essenziale - strumento di gestione di uno Stato.
La privatizzazione
della moneta, a fronte di quelle degli Uffici Postali, degli
acquedotti, dei servzi di comunicazione, dei trasporti, delle
autostrade, rappresenta - oltreché un tradimento della
collettività ed un grossolano abuso - un assai più grave
sovvertimento dei principi fondamentali che reggono la collettività
ed è generatrice di un modello economico-sociale perverso, che
costringe la società a sopportare sacrifici per arricchire
poche persone.
Un politico,
soprattutto allorché accede a responsabilità di governo,
quando tollera questa enormità, si rende complice del potere
economico e si pone contro la collettività.
Comunque, alla banca
venne affidato, nel 1894, anche il servizio di cassa per conto dello
Stato (pagamenti ed incassi: detto anche Servizio di Tesoreria).
Un'attività,
quest'ultima, certamente delegabile dallo Stato al privato, anche se
comportante risvolti di particolare collegamento con il mandante,
oltrechè condizioni di speciale privilegio.
2. -
Successivamente, però, e questa appare come un'altra ancor più
notevole singolarità per un privato, le venne conferito il potere di
esercitare il controllo sull'intero sistema bancario (cioè, e qui è
un altro punto incredibile, sui detentori - come vedremo - del
suo stesso capitale!). In pratica, in tal modo, i controllati si
autocontrollano.
Questo insieme di
attribuzioni induce subito ad alcune considerazioni e suggerisce
taluni interessanti interrogativi.
E' sicuramente fuori
dalle regole di una società civile che il potere di battere moneta
sia affidato ad un privato, e così pure che a questi vengano anche
assegnati i delicatissimi compiti del controllo sui tassi, sul
credito e sulle banche, tutti strumenti essenziali per la gestione
dell'economia nazionale.
E' notorio, infatti,
che la disponibilità della leva monetaria costituisce il più
importante strumento di gestione dell'economia e, perciò -
indirettamente - della stessa collettività nazionale.
Quali motivi hanno
potuto indurre lo Stato a questa auto-privazione (giuridicamente del
tutto illegittima)?
Quali conseguenze essa ha sulla gestione della
cosa pubblica? E, in definitiva, a favore di chi è stata effettuata?
Cerchiamo di
rispondere a questi interessanti quesiti, non senza ricordare, per
inciso, che il R.D. 28.4.1910 n. 204 (Testo unico sugli istituti di
emissione) stabilì che "l'interesse dovuto dal Tesoro per le
dette anticipazioni (a suo favore) è ragguagliato alla ragione di
lire 1,50 per cento al netto di ogni imposta".
In altri termini
viene stabilito che lo Stato (e cioè la collettività) deve pagare
un interesse per la quantità di moneta ricevuta dall'ente
privato cui ne ha delegato la creazione.
Se il presupposto
dell'azione delle istituzioni è di perseguire il bene comune, questo
è il più perfetto esempio dell'esatto contrario.
3. - Intanto, nel
1936, con apposita disposizione legislativa (c.d. "legge
bancaria"), fu attestato che l'attività bancaria costituiva
"servizio di interesse pubblico" ed alla Banca d'Italia
venne attribuita natura quasi pubblica ("è ... istituto di
'diritto' pubblico": art. 20, detto).
Le sue azioni
vennero pudicamente battezzate "quote", e rimasero in
possesso sostanzialmente degli stessi soggetti che già possedevano
le azioni, e cioè (in via esclusiva) le casse di risparmio, le
banche ordinarie e gli istituti di assicurazione e previdenza (vale a
dire enti privati), tra i quali la legge esplicitamente circoscrisse
la possibilità di partecipare al capitale della Banca d'Italia
(anche quest'ultima appare una limitazione giuridicamente assai
anomal
a: nessun cittadino infatti può rendersi acquirente o detenere
le "quote").
Il "giardinetto" degli azionisti
della banca deve (evidentemente!) essere riservato ai membi del clan
finanziario.
Da rilevare, tra
l'altro, che la banca, esattamente come qualsiasi altra società
anonima, paga annualmente i dividendi ai propri azionisti (che,
con fine eufemismo, non scevro di involontario umorismo, sono
chiamati "partecipanti").
Questa legge sembra
voler fare un passo avanti, nella configurazione giuridica dell'ente,
ed invece, a ben guardare, ne fa due indietro.
Essa attribuisce
infatti natura quasi pubblica alla Banca d'Italia, ma senza
acquisirla fra gli organi dello Stato, tanto che se ne statuisce
l'autonomia.
Viene così a configurarsi un prodotto giuridicamente
mostruoso e deforme, oltrechè improponibile, per l'attribuzione
contemporanea di caratteri incompatibili, pubblici e privati.
All'etichetta:
"pubblico", non fanno riscontro i connessi contenuti
sostanziali di connessione "organica" con il corpo dello
Stato.
L'attribuzione
dell'appellativo "pubblico" ad un ente posseduto da
privati, è una palese contraddizione in termini.
Formalmente,
consente però di conferirgli la connessa posizione privilegiata e la
conseguente patente di autorevolezza e di affidabilità
istituzionale, (tale posizione attribuisce anche autorità erga omnes
alle sue decisioni).
Soprattutto, ha come
importantissimo effetto di sottrarre la banca al quadro normativo
privatistico, che le sarebbe proprio, cancellandone il riferimento
economico tipico: l'economicità della gestione (ed escludendone
anche il fallimento).
In tal modo la banca può vivere al di fuori di
qualunque logica di equilibrio contabile: in sostanza, a differenza
dello Stato, può prelevare - dalla moneta che crea - tutte le somme
che vuole, senza pagare alcun interesse.
La banca, sotto i
profili funzionale e strutturale, mantiene e rafforza l'originaria
condizione privatistica: è costruita cioè una entità, del tutto
autonoma e separata rispetto al corpo dello Stato, dotata di
regole sue proprie, da essa medesima stabilite e assolutamente
indipendente, non solo nell'autodeterminarsi, ma anche nel gestire la
collettività, potendo assumere insindacabilmente decisioni che ne
determinano le condizioni di vita.
Infatti, è libera
di chiudere o aprire i rubinetti del credito e di fissare a proprio
piacimento la massa del denaro in circolazione (e ciò significa il
livello dell'inflazione), influendo così, direttamente,
sull'attività produttiva nazionale e sulla occupazione.
Determinando
il livello dei tassi, stabilisce il prezzo del denaro per famiglie e
imprese (nonchè il livello dei profitti degli investimenti
finanziari).
La banca, già
obbligata per legge ad acquistare i titoli del debito pubblico a
breve che il Tesoro non riusciva a collocare presso i risparmiatori
venne sollevata anche da tale vincolo nel 1981.
Ora, parlare
di un ente pubblico centrale "autonomo", è
un'insensatezza.
Abbiamo detto
"pubblico", perché tale è la banca, sotto il profilo
sostanziale.
Un ente è pubblico
quando è parte organica dell'organizzazione amministrativa dello
Stato, nella quale svolge una funzione corrispondente ad uno dei
compiti propri dello Stato.
Se gli incarichi
attribuiti alla banca sono intrinsecamente di pertinenza dello Stato
(come non è contestabile), è assolutamente inconcepibile che un
braccio operativo dello Stato stesso sia del tutto indipendente dal
"cervello" che dirige l'organismo.
Lo Stato deve avere il
controllo e quindi disporre e disciplinare in ordine a tutte le
attività che gli competono.
Non solo, ma che la
banca disponga di discrezionalità operativa totale e addirittura che
partecipi, jure proprio ad organizzazioni internazionali nelle cui
sedi vengono definite strategie ed interventi vincolanti per lo
Stato, è assolutamente al di fuori delle righe.
E' da notare che a
questa patente di "nobiltà" pubblica non sono poi fatti
corrispondere gli obblighi e le responsabilità verso la comunità
nazionale che, della attribuzione di un potere pubblico,
costituiscono la naturale contropartita.
Comunque, per
riassumere: oltre ai compiti di Tesoreria dello Stato, alla banca
furono attribuite funzioni di regolazione della massa monetaria, di
supervisione del sistema bancario e finanziario, (con competenze
specifiche anche per la tutela della concorrenza), di fissazione del
tasso di sconto, nonché il potere di effettuare la vigilanza sui
mercati dei valori mobiliari e sul sistema dei pagamenti.
4. - È interessante
notare, in proposito, che le disposizioni emanate dalla banca non
considerano ad essa medesima applicabili la maggior parte delle norme
dello Stato che regolano e guidano l'attività degli enti pubblici, e
ciò in ragione della "specificità che ci contraddistingue".
La banca, dunque, ha
una struttura privatistica, imperniata su di un consiglio di
amministrazione (il cosiddetto "Consiglio Superiore",
formato da persone selezionate per sicura fede capitalistica), che
(formalmente) ne determina e forma la volontà, come una qualunque
società per azioni, (ed a differenza della amministrazione dello
Stato, che dalle Istituzioni, e non dai privati, riceve le direttive
e gli indirizzi di comportamento).
Per certi aspetti,
si potrebbe addirittura affermare che essa è dotata di un potere più
forte ancora di quello dello Stato, poiché essa può farne libero ed
arbitrario uso (come vedremo infra) senza risponderne a nessuno, cioè
senza i limiti derivanti dalla responsabilità politica, che
caratterizza invece il potere pubblico davanti al Paese.
5. - Comunque,
non si può ignorare che questo inappropriato privilegio di potere
proviene alla banca dallo Stato medesimo, il quale glielo ha
attribuito con apposite norme di legge.
Ma portata e
risultato di questa operazione normativa lasciano assai perplessi, ed
inducono interrogativi rilevanti sulla legittimità di questa
estemporanea manifestazione legislativa, decisamente impropria.
Infatti, con queste
norme, il popolo è stato seccamente privato del suo potere con
riferimento ad un ente le cui decisioni, pur essendo solo sue
proprie, vincolano tutto il Paese (ed in aree di enorme rilevanza,
come vedremo). La cosa è in effetti sconcertante, ed evidenzia un
uso della potestà legislativa al di fuori delle righe: il Parlamento
si è svestito di un potere che appartiene al popolo.
6. - Il
delegato dal popolo (il Parlamento), non può, assiomaticamente,
disporre del potere di chi lo ha eletto, come invece in questo caso
ha fatto, spossessandolo di basilari poteri sovrani a favore della
privata banca centrale.
"Il popolo è
sovrano" dice la nostra Carta costituzionale, la quale non fa
che formalizzare una norma di diritto universale di ovvia evidenza
fin dai tempi di Platone, e che nessuno oserebbe contestare.
Pertanto, le sopra
descritte norme che attribuiscono alla Banca d'Italia poteri di
governo esclusivi in aree chiave della vita della nazione,
sono, prima ancora che anticostituzionali, del tutto contrarie al
diritto delle genti: il Parlamento, lo si ribadisce, non può privare
il popolo del suo potere sovrano, in nessuna materia.
7. - Ecco
allora, che prendono forma alcuni dei motivi per i quali qualcuno
tempo addietro ha proposto che addirittura una norma costituzionale
sancisse la "autonomia" della Banca d'Italia, e
qualcun altro si è dichiarato anche disposto ad applaudirla.
Una tale
disposizione, infatti, (che appare comunque, in quel contesto, come
una singolare contraddizione in termini), non cambierebbe nulla sul
piano sostanziale, alla evidente illiceità dello scorporo
scismatico della Banca d'Italia dal corpo dello Stato, ma - sul piano
formale - potrebbe servire a confondere le idee ai non esperti della
materia.
L'indipendenza della
banca centrale, che viene regolarmente imposta dagli USA (cioè dai
centri finanziari mondiali che vi hanno sede privilegiata) tramite le
"direttive" che il FMI pone tra le condizioni ai suoi
prestiti, ha come obbiettivo di sottrarre allo Stato la gestione
dell'economia, per quanto si riferisce a: livello dei tassi, entità
complessiva del credito erogato dal sistema bancario, controllo della
quantità di moneta in circolazione, determinazione del tasso di
cambio, controllo dell'inflazione (in pratica, le leve
essenziali per controllare l'economia, il benessere della popolazione
e il livello dell'occupazione).
Tali compiti sono
ora affidati alle mani sicure di un elemento di fiducia della finanza
mondiale: il governatore della banca centrale. Una personalità
scelta in quanto di gradimento, e tale da garantire la fedele
esecuzione dei dettami impartiti, indipendentemente dalle esigenze
del Paese.
8. - A questo
punto, appare comunque interessante scoprire quali forze abbiano
potuto sottrarre al popolo la sua sovranità, manovrandone i
delegati perché ponessero mano a questa incredibile prevaricazione.
Al quesito si può
trovare una risposta in "contro faccia", andando a vedere
chi sono i "partecipanti" al capitale della suddetta banca,
cioè chi la comanda e chi ne è il padrone.
Come abbiamo già
visto, sotto il profilo giuridico si tratta di casse di risparmio,
banche in genere ed istituti di assicurazione e previdenza. Sotto
quello del potere effettivo, abbiamo già visto chi tira le fila.
Si tratta
quantitativamente, di una cerchia molto ristretta di persone, forse
neppure lo 0,01% dell' intera popolazione italiana e internazionale.
Deve però trattarsi di un gruppo di cittadini di prima classe, se è
riuscito a creare un ente, la Banca d'Italia, munito del potere
pubblico per gestire i suoi interessi privati.
Al grande capitale
che costoro rappresentano, è stato in effetti concesso, con la banca
centrale, lo straordinario espediente di sistemare nella
amministrazione dello Stato una specie di proprio dicastero che, in
via del tutto autonoma dal meccanismo di volizione dello Stato
stesso, si trova in grado di gestire l'intera economia della nazione,
(nell' ottica, ovviamente, della protezione primaria dei suoi
specifici, privati, interessi).
9. - In
definitiva, la Banca d'Italia ha per funzione statutaria, (stabilita
con legge dello Stato!) quella di tutelare, gestire e
proteggere gli interessi della finanza internazionale, disponendo -
per far ciò - del potere, esclusivo degli organi dello Stato,
di emanare disposizioni che vincolano, direttamente o indirettamente,
tutta la nazione.
Indubbiamente, per
un privato cittadino, tale condizione rappresenta veramente il
massimo che possa desiderare: tutelare la propria personale posizione
economica con il potere superiore dello Stato, così da imporla a
tutta la collettività.
10. - Emerge
con chiarezza, dunque, quella che è la vera funzione
istituzionale di questa banca, per la quale è stata creata:
garantire la non democraticità delle istituzioni.
L'affermazione può
sembrare eccessiva e smodata, ma si ponga mente allo scopo di questo
improprio aggeggio istituzionale: scongiurare - in modo tassativo e
definitivo - il pericolo che la volontà del Paese (cioè del
Parlamento) possa esprimersi in ordine alle scelte riguardanti
l'economia monetaria, il credito ed i tassi di interesse.
Si tratta di un
fenomeno di tale gravità che riesce difficile perfino concepirne
l'esistenza nel nostro secolo, erede della grande cultura illuminista
e della tradizione giuridica romana.
Eppure è così:
tutta la materia attinente i fondamenti dell'economia è stata
sottratta alle decisioni del Paese e consegnata, attraverso la Banca
d'Italia, ai centri finanziari privati, perché provvedano a
gestirsela in modo autonomo e separato, in base alle proprie
convenienze, ma con la forza e l'efficacia delle decisioni dello
Stato.
C'è di che restare
allibiti: l'illegittimità costituzionale di questo "ente"
è clamorosa, almeno quanto il silenzio con il quale è stata
circondata e nascosta all'opinione pubblica nazionale.
Se aspiriamo ad uno
Stato democratico, è ovvio che questo corpo estraneo deve
immediatamente scomparire.
11. - La
descritta posizione istituzionale privilegiata acquista particolare
rilevanza e specifica corrispondenza, anche nella prospettiva
della Unione europea, la cui struttura istituzionale è stata
concepita proprio dai rappresentanti della finanza in modo da porre
in primo piano non il potere politico, ossia la volontà del popolo,
ma esclusivamente il potere finanziario privato.
Si può così
constatare quale tipo di potere gestirà la futura Unione europea:
non certo quello del popolo europeo.
Si noti,
incidentalmente, che questa violenza istituzionale a favore della
finanza, è avvenuta nel 1936 e cioè sotto il governo "forte"
di Mussolini. Concomitanza interessante e significativa.
12. - Vale
ancora la pena di ribadire che la Banca d'Italia non è responsabile,
di fronte al Paese, delle scelte che pure ad esso impone, come
avviene invece - e come deve essere - per qualsiasi organo dello
Stato, per tale intendendosi chi ne esercita il potere.
Come è noto
infatti, se il popolo è insoddisfatto dell' operato dei propri
rappresentanti, può mandarli a casa in occasione delle successive
elezioni.
Non così avviene
invece per la Banca d'Italia, quale che sia l'opinione che di essa e
del suo operato il popolo può nel frattempo essersi formata.
Ove il popolo si
interessasse dell' economia, senza demandarne la gestione ad altri, e
potesse perciò eventualmente inorridirsi di ciò che fa la banca
centrale, esso non potrebbe comunque mai cambiarne il vertice.
Infatti, come è
noto, quest' ultimo non è eletto dal popolo (né direttamente né
indirettamente) bensì dal consiglio di amministrazione della stessa
banca, come avviene per tutte le società anonime, e successivamente
avallato dagli organi istituzionali.
13. - Ordunque,
gli esponenti di un ente che esercita fondamentali poteri di governo
sulla nazione, non sono da questa eletti e, da questa medesima, non
posso essere allontanati. Essi rendono conto del loro operato solo a
coloro che li hanno nominati, cioè ai detentori del potere
finanziario.
A questo punto se -
come è concettualmente acquisito - democrazia significa "potere
del popolo" si deve dedurre che le strutture esercitanti il
potere pubblico in Italia non sono democratiche, poiché al di fuori
del potere del popolo agisce la Banca d'Italia, che di potere
istituzionale ne esercita (e molto).
14. - Tutti
sanno, o possono intuire, che la politica economica costituisce il
nucleo centrale della azione di un governo.
Dalle decisioni
prese in materia dipendono infatti lo stato di benessere dei
cittadini, il livello dell' occupazione, l'attività economica in
generale, gli investimenti, la qualità dei servizi, dei trasporti, i
problemi connessi agli affari esteri, alla difesa, agli interventi
sociali, alla sanità, alla scuola, alla tipologia delle strutture
economiche del Paese, e così via.
In definitiva, non
si può fare politica, cioè amministrare un qualunque Paese, senza
gestirne l'economia.
Sarebbe come quella
famiglia dove il genitore "comanda" ma è la moglie che
decide qualunque spesa.
E non è possibile
fare politica economica senza il controllo della moneta e del
credito.
Controllo di cui il
governo si è illegittimamente privato, esautorandone il detentore:
il popolo.
Ed infatti, chi
gestisce moneta e credito è la Banca d'Italia che, in materia, è
completamente indipendente ed autonoma dalle pubbliche istituzioni.
Così autonoma che
se - in ipotesi - un esecutivo, per favorire occupazione, sviluppo e
benessere, volesse decidere una politica di espansione economica, la
banca centrale sarebbe in grado di impedirglielo, bloccando
interessi, credito e massa monetaria e così imponendo al Paese
sacrifici e recessione, nell'interesse dei grandi gruppi finanziari
che la dirigono, ai quali interessa sopratutto l'assoluta mancanza di
inflazione (che colpirebbe proprio le attività finanziarie che essi
posseggono).
Di tale contrasto si
è visto non lontano esempio allorquando l'allora primo ministro
Craxi chiese (e già questo termine suona evidentemente anomalo in
tale contesto) al governatore Ciampi di abbassare i tassi di
interesse, al fine di rilanciare l'economia del Paese, all'epoca
stagnante.
Ma Ciampi - forse
istruito? - si rifiutò nettamente, in nome della sua "autonomia",
di abbassare il livello del costo del danaro, e l'economia del Paese
continuò a segnare il passo e la disoccupazione ad aumentare.
Riducendo i tassi,
egli avrebbe - tra l'altro - causato difficoltà a molte banche che,
all' epoca, avevano bisogno di compensare, con alti ratei di
interesse sui fidi, le perdite accumulate con gestioni clientelari.
La banca centrale
lotta strenuamente contro l'inflazione per difendere il valore della
moneta, cioè del bene fondamentale del sistema finanziario. E'
evidente, infatti, che l'inflazione erode i margini di profitto.
15.- In definitiva,
la Banca d'Italia, con l'acquiescenza del potere politico, ha sempre
manovrato da sola l'economia del Paese decidendone in piena
discrezione il tasso di sviluppo, il benessere, la disoccupazione,
eccetera, il tutto però nell' esclusivo interesse dei grandi
detentori di capitali, e non di quello del popolo (che, però, ne
paga le spese).
Chi apre e chiude il
rubinetto del credito è sempre la banca centrale e la depressione o
l'incremento dell'attività economica del Paese dipendono solo dalle
sue decisioni.
Non può dunque
sorprendere che, in tali condizioni, esista qualche (interessato?)
sostenitore della indipendenza della banca centrale. Tema che non è
superato oggi dalla costituzione della Bce: si pone solo su di un
piano diverso.
Per la verità,
costui preferisce ignorare le considerazioni ora svolte e si limita
ad affermare, a sostegno della sua tesi, che i politici "potrebbero
manipolare il governo della moneta a fini elettorali".
Sennonché, siffatta
argomentazione appare macroscopicamente inconsistente e pretestuosa.
L'elettorato giudica il governo dai risultati concretamente
conseguiti.
Una manovra sulla
moneta a fini "elettorali" è sicuramente possibile:
rientrerebbe nei poteri (e doveri) ordinari dell' esecutivo. In
ogni caso, però, se ne dovesse conseguire una recessione economica,
il popolo sceglierebbe altri rappresentanti. Come è suo normale
diritto.
Ai fautori dell'
"autonomia" chiediamo ancora se non sarebbe meglio,
per un governo, farsi condizionare da finalità elettorali o dagli
interessi privati.
Nelle attuali
condizioni, invece, questa diversa scelta esso non potrà mai fare
per i responsabili della banca centrale, quali che siano gli esiti
della politica economica da costoro posta in atto. Svilupperemo nel
prosieguo altre argomentazioni al riguardo.
16. - Alla
Banca d'Italia incombe il compito di tutelare la redditività degli
strumenti finanziari, non gli interessi della collettività
(che potrebbero anche trovarsi in contrasto con questo obbiettivo).
Per questo motivo ai cittadini è sottratto ogni giudizio (nel senso
di potere sanzionatorio), in ordine al suo operato.
17. -
Incidentalmente, si può rilevare che la scelta, attuata e
ripetuta in tempi recenti e meno recenti, di porre degli esponenti
della banca d'Italia a ricoprire importanti ruoli nelle istituzioni
(decisione che - si noti ancora - non proviene dal popolo), assume un
pesante significato politico, poiché si tratta di persone
incaricate di anteporre gli interessi del potere finanziario
internazionale, a quelli della nazione.
La loro scelta per
incarichi istituzionali è dunque assai inquietante in ordine alla
tipologia di compiti che costoro saranno chiamati a svolgere.
18. - Ma
riprendiamo il filo del nostro discorso, ed osserviamo che, ormai, la
maggioranza dei Paesi, industrializzati e non, dispone di una banca
centrale "indipendente".
Tale circostanza è
fortemente dimostrativa del fatto che la finanza internazionale ha
raggiunto ovunque posizioni di grande influenza, che le consentono,
dietro la mascheratura di appositi enti "tecnici" (i
famigerati FMI, Banca Mondiale, Ue, WTO, ecc.), di esercitare un
potere sovranazionale, trasversale e indipendente rispetto alle
strutture legali delle istituzioni.
Gli interessi del
grande capitale riflettono d'altronde una organizzazione altamente
efficiente ed in grado di influenzare i governi, che ne sono
diventati l'Agenzia d'affari. Le scelte politiche provengono oggi
dalla finanza, quelle finanziarie, dai governi, su istruzioni della
finanza.
E' del resto
agevole costatare che, ormai da molto tempo, nelle nazioni
economicamente più sviluppate, si perseguono linee di politica
economica orientate a favorire il grande capitale
(privatizzazioni, contenimento della spesa sociale, prevalenza della
logica del "mercato" rispetto alle esigenze "umane",
liberalizzazione dei salari, libertà di licenziamento,
eliminazione del rapporto di "pubblico" impiego, con la
perdita delle connesse garanzie, tra le quali il concorso per le
assunzioni (la c.d. "privatizzazione del lavoro"),
limitazioni allo sciopero,
liberalizzazione dei contratti di affitto, agevolazioni fiscali per
le imprese, utilizzo senza limiti della Cassa
Integrazione Guadagni, contributi a fondo perduto alle aziende,
facilitazioni importanti a queste ultime, vincoli per i sindacati "di
base", collegamento del salario alla "produttività"
(una sorta di ritorno al famigerato "cottimo"), limitazioni
all'accesso al servizio sanitario pubblico, riforma delle pensioni
e del trattamento
di fine rapporto, ristrutturazione dell'ISVAP (per conferire
totale autonomia anche all'organo di governo delle assicurazioni), e
così via elencando.
Questi, e consimili
provvedimenti sono evidentemente contrari all'interesse delle
popolazioni cui accrescono, anziché ridurre, le difficoltà del
vivere.
Anche le
privatizzazioni, oggi tanto diffuse e propagandate ovunque (anche
grazie alle sollecitazioni delle banche centrali), altro non sono che
possenti pilastri allo sviluppo del profitto privato.
19. - Per
altro verso, (e ciò costituisce una conferma "a contrario"
di quanto sopra), da molti anni a questa parte non è dato
riscontrare, in alcun Paese industrializzato (salvo sporadici,
casuali e limitati episodi), un solo importante provvedimento di
legge di qualche valenza sociale, a favore del lavoro, dei cittadini
più deboli, dei pensionati, dei disoccupati, dei più poveri.
Al contrario, si è
verificato ovunque un forte inasprimento fiscale a carico del c.d.
"ceto medio" (che, contrariamente all'equità, già
contribuisce per oltre l'80% al totale del prelievo complessivo),
mentre si sono diffusi ovunque alleggerimenti di imposta per i grossi
capitali.
Nel contempo, molte
garanzie minime della condizione del lavoratore, conquistate
nell'ultimo secolo spesso con costi umani gravosissimi, sono state
via via eliminate, tra la più sconcertante indifferenza generale.
Tutto ciò sta
inequivocabilmente a dimostrare che, oggi, le strutture gestionali
pubbliche che si identificano con il termine "Stato", sono
interamente colonizzate dal grande capitale di cui proteggono gli
interessi, in via prioritaria rispetto a quelli della collettività.
In questo contesto
si chiarisce e si spiega l'inquietante anomalia della quasi
onnipresente "indipendenza" delle banche centrali.
E' appena il caso di
ricordare e ribadire, come abbiamo per l'innanzi spiegato, che il
potere pubblico è stato attribuito perché venga esercitato
nell'interesse della collettività.
Tale potere esso
trasferisce ai suoi delegati entro i limiti della finalità loro
demandata: l'amministrazione della collettività.
In queste
condizioni, è chiaro a chiunque che l'esercizio del potere
"collettivo" (o dello Stato), non può essere "autonomo"
(acome avviene per la banca centrale), cioè non originato da una
concreta delega del popolo e non direttamente controllato da questo.
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