Credo che la migliore definizione di cosa rappresenti veramente
l’euro sia stato dato più di vent’anni fa dal celebre
economista britannico Wynne Godley, che al tempo in cui anche nel
Regno Unito si discuteva se entrare o meno nella moneta unica
scrisse un breve ma illuminante articolo sulla London Review Books.
Questo è un estratto dall’articolo:
“Il potere di emettere la propria moneta, di fare ricorso alla propria banca centrale, è la cosa principale che definisce l’indipendenza di una nazione. Se un paese rinuncia a, o perde, questo potere, acquisisce lo status di ente locale o di colonia. Le autorità locali e le regioni, ovviamente, non possono svalutare. Ma si perde anche il potere per finanziare il disavanzo attraverso la creazione di moneta, mentre altri metodi di ottenere finanziamenti sono soggetti a regolamentazione da parte dell’autorità centrale [la BCE]. Né si possono modificare i tassi di interesse. Poiché le autorità locali non sono in possesso di nessuno degli strumenti di politica macroeconomica, la loro scelta politica si limita a questioni relativamente minori: un po’ di istruzione qui, un po’ di infrastrutture là”.
Aderendo all’euro, in breve, gli Stati membri hanno acquisito lo status di ente locale o di colonia. Se qualcuno avesse qualche dubbio a riguardo mi auguro che gli eventi delle ultime settimane lo abbiano fugato. La reazione dell’Europa alla manovra di bilancio del governo è la dimostrazione plastica di come un paese che non controlla la propria moneta non possa considerarsi una democrazia nel senso tradizionale – costituzionale, direi – del termine.
Cioè il rituale classico della democrazia in cui dei partiti si contendono le elezioni sulla base di programmi elettorali (e soprattutto di programmi economici) diversi viene completamente svuotato di senso nel momento in cui quei partiti, una volta andati al governo, sono costretti ad elemosinare i soldi necessari per implementare il loro programma elettorale – programma che può piacere o meno che ma che è legittimato dal voto popolare – dai mercati finanziari o da un’istituzione completamente avulsa dal processo democratico come la BCE.
E, come detto, direi che i fatti di queste settimane lo dimostrano.
La bocciatura della manovra di bilancio – indipendentemente, lo sottolineo, dai contenuti più o meno condivisibili della stessa – è la dimostrazione della natura anti-democratica, anti-economica e soprattutto squisitamente politicamente delle istituzioni europee.
Il fatto che la Commissione si accanisca in questo modo nei confronti di un modestissimo deficit del 2,4 per cento di deficit – che se confermato sarebbe il livello più basso degli ultimi dieci anni, oltre ad essere un deficit ben più contenuto di quello che hanno registrato negli ultimi anni e che si stima continueranno ad avere paesi come la Francia e la Spagna – è la riprova che le azioni della Commissione europea e delle altre istituzioni europee non hanno nulla a che fare con il rispetto delle regole – che innumerevoli paesi nell’eurozona hanno violato e continuano a violare, a partire dalla Germania, che da anni è in violazione del tetto massimo sul surplus commerciale previsto dalla Procedura per gli squilibri macroeconomici – e ha invece tutto a che fare con la volontà di punire un paese che viene percepito, a torto o a ragione, come alieno allo status quo.
Ciò detto, anche se uno accettasse che la Commissione europea sia in buona fede e prendendo per buone le argomentazioni dell’Europa sul presunto impatto della manovra sulla sostenibilità del debito, si tratterebbe di un’argomentazione che andrebbe comunque rigettata con forza:
1) perché gli ultimi anni hanno dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio che le politiche austerità peggiorano il rapporto debito-PIL (basta vedere l’esplosione del rapporto debito-PIL dell’Italia in seguito alle manovre del governo Monti e dei governi successivi);
2) perché è chiaro che l’unica maniera per rimettere il debito pubblico italiano su un sentiero di “sostenibilità” (secondo i canoni mainstream) è di tornare a far crescere il PIL.
In questo il governo ha ragione. Il problema è che le stime di crescita del governo sono del tutto irrealistiche, poiché il governo non controlla una variabile cruciale che è il tasso di interesse, che invece è controllato esclusivamente dalla BCE.
In questo senso, chi dubita della capacità della manovra di far ripartire la crescita ha ragione, ma si dimentica di dire che questo non è dovuto alla manovra in sé ma all’architettura dell’eurozona che non offre agli Stati alcuna difesa dalla speculazione dei mercati finanziari (e anzi spesso e volentieri contribuisce attivamente a destabilizzare i mercati: basti pensare all’impatto delle dichiarazioni di Juncker o Moscovici sullo spread).
Insomma, a prescindere che si pensi che la Commissione europea sia motivata da ragioni politiche o prettamente economiche, entrambe le logiche sono da rigettare con uguale forza.
Ora, io non ho particolare simpatia per questo governo ma accetto che questo è un governo democraticamente legittimato e ritengo che dunque chiunque abbia a cuore la democrazia non può esimersi dal difendere il governo – in quanto espressione della sovranità popolare – dalle ingerenze dell’Europa.
Allo stesso tempo, però, c’è un elemento che mi preoccupa molto: cioè che ogni giorno passa cresce sempre di più l’impressione che il governo sia andato allo scontro con l’Europa senza avere un vero piano B, sulla base dell’illusione che “l’Italia non è la Grecia”, una frase che abbiamo sentito spesso in questi anni, cioè dell’idea che l’Italia in virtù del suo peso economico avrebbe avuto un margine di manovra più ampio di quello concesso alla Grecia.
Gli eventi stanno dimostrando che le cose non stanno affatto così e anzi che proprio perché l’Italia è un paese così importante non gli si può permettere di sfidare esplicitamente le regole europee – perlomeno dal punto di vista retorico se non nella pratica.
L’errore di fondo a mio avviso è pensare che l’alternativa sia tra tenere un paese nell’euro o cacciarlo dall’unione monetaria.
Se così fosse effettivamente il margine di manovra dell’Italia sarebbe molto ampio, perché è condivisibile l’idea che gli altri paesi non abbiano interesse a precipitare una crisi così profonda che avrebbe ripercussioni pesanti su tutta l’Europa.
Ma se c’è una cosa che l’esempio greco ha mostrato è che esiste una terza alternativa, che è quella di tenere il paese nell’euro ma di mettere il governo in carica sotto pressione tramite il sistema bancario.
E le recenti dichiarazioni di Draghi sul fatto che la BCE non interverrà nel caso di una crisi del sistema bancario italiano fanno intendere che l’intenzione è quella di applicare la stessa strategia applicata in Grecia in Italia, cioè di strozzare il sistema finanziario per mettere pressione al governo. Tutto questo per dire che se veramente il governo ci ha portato allo scontro senza avere un piano B questo sarebbe molto grave, perché rischia realmente di spianare la strada alla troika.
In questo senso, bisogna senz’altro difendere il governo se decide di difendere la manovra e di alzare il livello dello scontro con l’Europa, ma bisogna attaccarlo senza pietà se dovesse emergere che non ha un reale piano alternativo, perché le conseguenze rischiano di essere molto gravi.
Nelle prossime settimane il governo sarà probabilmente costretto a scoprire le carte.
La lezione comunque è che non esistono spazi di manovra dentro questa Europa. Dobbiamo sapere qual è la posta in gioco per chi vuole fare politica sul serio oggi in Italia.
Anche perché se non esistono margini di manovra nel caso di un deficit molto contenuto per una manovra e un programma sostanzialmente abbastanza in linea col dogma liberista (basti pensare alla flat tax), non ci vuole molto a immaginare come reagirebbe l’Europa di fronte a una manovra che prevedesse un deficit ben più alto – quale necessiterebbe il paese – e che sfidasse più esplicitamente i dogmi neoliberisti dell’Unione.
In conclusione, piaccia o meno il nodo dell’euro è un nodo che non si può eludere poiché è intrinsecamente legato alla questione della sovranità democratica e popolare.
di Thomas Fazi
“Il potere di emettere la propria moneta, di fare ricorso alla propria banca centrale, è la cosa principale che definisce l’indipendenza di una nazione. Se un paese rinuncia a, o perde, questo potere, acquisisce lo status di ente locale o di colonia. Le autorità locali e le regioni, ovviamente, non possono svalutare. Ma si perde anche il potere per finanziare il disavanzo attraverso la creazione di moneta, mentre altri metodi di ottenere finanziamenti sono soggetti a regolamentazione da parte dell’autorità centrale [la BCE]. Né si possono modificare i tassi di interesse. Poiché le autorità locali non sono in possesso di nessuno degli strumenti di politica macroeconomica, la loro scelta politica si limita a questioni relativamente minori: un po’ di istruzione qui, un po’ di infrastrutture là”.
Aderendo all’euro, in breve, gli Stati membri hanno acquisito lo status di ente locale o di colonia. Se qualcuno avesse qualche dubbio a riguardo mi auguro che gli eventi delle ultime settimane lo abbiano fugato. La reazione dell’Europa alla manovra di bilancio del governo è la dimostrazione plastica di come un paese che non controlla la propria moneta non possa considerarsi una democrazia nel senso tradizionale – costituzionale, direi – del termine.
Cioè il rituale classico della democrazia in cui dei partiti si contendono le elezioni sulla base di programmi elettorali (e soprattutto di programmi economici) diversi viene completamente svuotato di senso nel momento in cui quei partiti, una volta andati al governo, sono costretti ad elemosinare i soldi necessari per implementare il loro programma elettorale – programma che può piacere o meno che ma che è legittimato dal voto popolare – dai mercati finanziari o da un’istituzione completamente avulsa dal processo democratico come la BCE.
E, come detto, direi che i fatti di queste settimane lo dimostrano.
La bocciatura della manovra di bilancio – indipendentemente, lo sottolineo, dai contenuti più o meno condivisibili della stessa – è la dimostrazione della natura anti-democratica, anti-economica e soprattutto squisitamente politicamente delle istituzioni europee.
Il fatto che la Commissione si accanisca in questo modo nei confronti di un modestissimo deficit del 2,4 per cento di deficit – che se confermato sarebbe il livello più basso degli ultimi dieci anni, oltre ad essere un deficit ben più contenuto di quello che hanno registrato negli ultimi anni e che si stima continueranno ad avere paesi come la Francia e la Spagna – è la riprova che le azioni della Commissione europea e delle altre istituzioni europee non hanno nulla a che fare con il rispetto delle regole – che innumerevoli paesi nell’eurozona hanno violato e continuano a violare, a partire dalla Germania, che da anni è in violazione del tetto massimo sul surplus commerciale previsto dalla Procedura per gli squilibri macroeconomici – e ha invece tutto a che fare con la volontà di punire un paese che viene percepito, a torto o a ragione, come alieno allo status quo.
Ciò detto, anche se uno accettasse che la Commissione europea sia in buona fede e prendendo per buone le argomentazioni dell’Europa sul presunto impatto della manovra sulla sostenibilità del debito, si tratterebbe di un’argomentazione che andrebbe comunque rigettata con forza:
1) perché gli ultimi anni hanno dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio che le politiche austerità peggiorano il rapporto debito-PIL (basta vedere l’esplosione del rapporto debito-PIL dell’Italia in seguito alle manovre del governo Monti e dei governi successivi);
2) perché è chiaro che l’unica maniera per rimettere il debito pubblico italiano su un sentiero di “sostenibilità” (secondo i canoni mainstream) è di tornare a far crescere il PIL.
In questo il governo ha ragione. Il problema è che le stime di crescita del governo sono del tutto irrealistiche, poiché il governo non controlla una variabile cruciale che è il tasso di interesse, che invece è controllato esclusivamente dalla BCE.
In questo senso, chi dubita della capacità della manovra di far ripartire la crescita ha ragione, ma si dimentica di dire che questo non è dovuto alla manovra in sé ma all’architettura dell’eurozona che non offre agli Stati alcuna difesa dalla speculazione dei mercati finanziari (e anzi spesso e volentieri contribuisce attivamente a destabilizzare i mercati: basti pensare all’impatto delle dichiarazioni di Juncker o Moscovici sullo spread).
Insomma, a prescindere che si pensi che la Commissione europea sia motivata da ragioni politiche o prettamente economiche, entrambe le logiche sono da rigettare con uguale forza.
Ora, io non ho particolare simpatia per questo governo ma accetto che questo è un governo democraticamente legittimato e ritengo che dunque chiunque abbia a cuore la democrazia non può esimersi dal difendere il governo – in quanto espressione della sovranità popolare – dalle ingerenze dell’Europa.
Allo stesso tempo, però, c’è un elemento che mi preoccupa molto: cioè che ogni giorno passa cresce sempre di più l’impressione che il governo sia andato allo scontro con l’Europa senza avere un vero piano B, sulla base dell’illusione che “l’Italia non è la Grecia”, una frase che abbiamo sentito spesso in questi anni, cioè dell’idea che l’Italia in virtù del suo peso economico avrebbe avuto un margine di manovra più ampio di quello concesso alla Grecia.
Gli eventi stanno dimostrando che le cose non stanno affatto così e anzi che proprio perché l’Italia è un paese così importante non gli si può permettere di sfidare esplicitamente le regole europee – perlomeno dal punto di vista retorico se non nella pratica.
L’errore di fondo a mio avviso è pensare che l’alternativa sia tra tenere un paese nell’euro o cacciarlo dall’unione monetaria.
Se così fosse effettivamente il margine di manovra dell’Italia sarebbe molto ampio, perché è condivisibile l’idea che gli altri paesi non abbiano interesse a precipitare una crisi così profonda che avrebbe ripercussioni pesanti su tutta l’Europa.
Ma se c’è una cosa che l’esempio greco ha mostrato è che esiste una terza alternativa, che è quella di tenere il paese nell’euro ma di mettere il governo in carica sotto pressione tramite il sistema bancario.
E le recenti dichiarazioni di Draghi sul fatto che la BCE non interverrà nel caso di una crisi del sistema bancario italiano fanno intendere che l’intenzione è quella di applicare la stessa strategia applicata in Grecia in Italia, cioè di strozzare il sistema finanziario per mettere pressione al governo. Tutto questo per dire che se veramente il governo ci ha portato allo scontro senza avere un piano B questo sarebbe molto grave, perché rischia realmente di spianare la strada alla troika.
In questo senso, bisogna senz’altro difendere il governo se decide di difendere la manovra e di alzare il livello dello scontro con l’Europa, ma bisogna attaccarlo senza pietà se dovesse emergere che non ha un reale piano alternativo, perché le conseguenze rischiano di essere molto gravi.
Nelle prossime settimane il governo sarà probabilmente costretto a scoprire le carte.
La lezione comunque è che non esistono spazi di manovra dentro questa Europa. Dobbiamo sapere qual è la posta in gioco per chi vuole fare politica sul serio oggi in Italia.
Anche perché se non esistono margini di manovra nel caso di un deficit molto contenuto per una manovra e un programma sostanzialmente abbastanza in linea col dogma liberista (basti pensare alla flat tax), non ci vuole molto a immaginare come reagirebbe l’Europa di fronte a una manovra che prevedesse un deficit ben più alto – quale necessiterebbe il paese – e che sfidasse più esplicitamente i dogmi neoliberisti dell’Unione.
In conclusione, piaccia o meno il nodo dell’euro è un nodo che non si può eludere poiché è intrinsecamente legato alla questione della sovranità democratica e popolare.
di Thomas Fazi
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