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Quel che resterà di noi potrebbe anche non piacerci: un panorama dall’Antropocene.

Una notte d’estate del 1949, l’archeologa britannica Jacquetta Hawkes uscì nel suo piccolo giardino sul retro di casa, nel nord di Londra, e lì si sdraiò. Sentiva sotto di sé la roccia ricoperta solo dal sottile strato di terra, e percepì la durezza del terreno che le schiacciava la carne contro le ossa.
 Le stelle splendevano tra le foglie e al di là dei comignoli vicini, fari “la cui luce li ha lasciati molto prima che su questo pianeta ci fossero occhi per riceverla”, come lei stessa diceva in A Land (1951), il suo classico di scrittura naturalistica.

Siamo abituati all’idea che la geologia e l’astronomia parlino di tempo geologico (deep time). 
L’immenso arco di storia che ha modellato, ancor prima della comparsa dell’uomo, il mondo per come lo conosciamo oggi. 
La poetica della Hawkes mescola l’intimo e l’eterno, il biologico e l’inanimato, il quotidiano con un senso del tempo geologico che anche del suo tempo. 
Lo stato del terreno era un problema reale in un paese stremato dai razionamenti in tempo di guerra, quando la terra stessa tornava ad essere un argomento d’interesse e la Gran Bretagna stava riconsiderando il suo ruolo nel mondo. 
Ma sdraiata nel suo giardino, Hawkes si trovava anche su un altro confine fondamentale, perché A Land è stato scritto alla fine dell’Olocene; noi, invece, lo leggiamo nell’Antropocene.

Con “Antropocene” si descrive come la civiltà industriale ha cambiato la Terra in modi che sono paragonabili ai processi geologici. 
I cicli di carbonio e di azoto del pianeta, la composizione chimica degli oceani e la biodiversità – ciascuno il prodotto di milioni di anni di lenta evoluzione – sono stati radicalmente e permanentemente modificati dalle attività umane. 
Lo sviluppo dell’agricoltura e la rivoluzione industriale, avvenuti rispettivamente diecimila anni fa e a metà del diciannovesimo secolo, sono stati entrambi proposti come date di inizio per l’Antropocene. 
Ma c’è sempre maggior consenso intorno all’idea di “grande accelerazione” – l’improvvisa impennata dei consumi che ha avuto inizio intorno al 1950, seguita da un enorme aumento della popolazione mondiale, un’esplosione nell’uso di materie plastiche e il crollo della biodiversità agricola.
Il concetto di “deep time” è stato descritto per la prima volta nel 1788 dal geologo scozzese James Hutton, anche se il termine fu coniato solo duecento anni più tardi, dall’autore americano John McPhee. 
Hutton postulò che le caratteristiche geologiche sono state modellate dai cicli di sedimentazione ed erosione, un processo di sollevamento e di lento sgretolamento delle rocce che ha richiesto tempi molto più lunghi di quelli presenti nelle narrazioni bibliche. 
Questo cambiamento, vertiginoso quanto “copernicano”, mise sia l’uomo che l’idea di Dio in dubbio. 
“La mente si stordiva guardando così indietro nel baratro del tempo”, scriveva John Playfair, uno scienziato che ha accompagnato Hutton in diverse spedizioni cruciali, descrivendo l’effetto provato nel guardare dal promontorio roccioso e stratificato di Siccar Point in Scozia.
Ma le intuizioni di Hutton hanno avuto successo solo durante il Romanticismo che caratterizzò il diciannovesimo secolo. 
L’immaginario emotivo del tempo geologico era fatto di terrore e meraviglia, e venne modellato per adattarsi a una visione del sublime che trascende, e in qualche modo afferma l’importanza dell’umanità.
Il poeta Percy Bysshe Shelley rimase colpito dalla forza implacabile del Monte Bianco, “il volto nudo della terra”, che guarda minaccioso come “tutte le cose che si muovono e respirano con fatica e rumore / nascono e muoiono; ruotano, si placano, e si gonfiano”. 
Ma “c’è della grandiosità in questa visione della vita”, come scrisse Charles Darwin alla fine del suo L’origine della specie (1859). 
La sua teoria dell’evoluzione è stata resa possibile dalla finestra che Hutton aprì per primo su queste nuove, terrificanti, prospettive temporali.
L’idea di deep time rappresenta un allontanamento dell’uomo e del divino dalla storia della creazione. 
Eppure nell’Antropocene, ironicamente, noi esseri umani siamo diventati una forza sublime, gli agenti di qualcosa di spaventoso al di sopra di noi stessi. 
Una sola miniera nella regione canadese dell’Alberta muove trenta miliardi di tonnellate di sedimenti all’anno, il doppio della quantità mossa da tutti i fiumi del mondo messi insieme. 
Il peso dell’acqua dolce che abbiamo ridistribuito ha rallentato la rotazione terrestre. 
L’estinzione di massa di specie animali e vegetali è improbabile che venga recuperata prima dei prossimi dieci milioni di anni.
Sicuramente “sublime” non è il termine più corretto per descrivere la nostra risposta a questi fenomeni, “incredulità” potrebbe essere più calzante. 
Uno dei segni tangibili più agghiaccianti dell’Antropocene è la dispersione globale di isotopi radioattivi da quando iniziarono i test di armi termonucleari, a metà del ventesimo secolo – il che significa che chiunque sia nato dopo il 1963 ha delle sostanze radioattive nei propri denti. 
Il tempo di decadenza dell’uranio impoverito (U-238) è di circa 4,5 miliardi anni, più o meno la stessa età della Terra, mentre quello del plutonio nel reattore nucleare di Chernobyl è 240mila anni. 
Tempi del genere sono difficili da immaginare, ma esistono nella nostra quotidianità come una costante presenza inquietante.
C’è anche qualcosa di banale circa l’Antropocene. 
Probabilmente, è nell’incontro con superfici e oggetti quotidiani che ci si fa un’idea più chiara della sua portata. 
Circa 60 miliardi di polli vengono uccisi annualmente per il consumo umano; in futuro, le ossa di pollo fossili saranno presenti in tutti i continenti come una testimonianza dell’intrusione delle volontà umane nel corso di questa era geologica. 
Le materie plastiche, che cominciarono ad essere prodotte in serie a metà del ventesimo secolo, ci restituiscono un mondo che corrisponde alla cultura occidentale – flessibile, immediatamente disponibile e ammorbidito a nostro vantaggio. 
Eppure ogni singolo pezzo di plastica che sia stato mai prodotto continua ad esistere in qualche forma, e le sue tracce chimiche sono sempre più presenti nei nostri corpi. 
È ironico che il caratteristico “nuovo” odore del PVC sia il risultato degli elementi instabili nella decomposizione chimica del materiale. 
Anche se apparentemente inerti, come gli isotopi “non morti” di Chernobyl, le materie plastiche sono infatti intensamente vivaci, e infiltrano sostanze chimiche nel sistema endocrino. 
Gli oggetti plastici usa e getta sembra che scompaiano quando si buttano via, ma loro (e dunque noi) continueranno ad agire sull’ambiente per millenni.
L’Antropocene è un prodotto delle nostre fantasie di un mondo iper-connesso e dove le nostre azioni sono prive di conseguenze. 
Gli esseri umani hanno creato cinque miliardi di gigabyte di informazioni digitali nel solo 2003; nel 2013 ci sono voluti solo 10 minuti per produrre la stessa quantità di dati. 
Nonostante le interessanti caratteristiche del “cloud”, questi dati dovranno pur stare da qualche parte. 
Greenpeace stima che il consumo di energia di uno soltanto degli immensi data centre di Apple sarebbe equivalente alla fornitura energetica annuale di 250mila case europee. 
Tracce di questi dati apparentemente effimeri persisteranno in futuro, considerato l’aumento delle concentrazioni di carbonio che riscaldano l’atmosfera.
L’intuizione di Hutton è stata che gli esseri umani vivono avvolti dal tempo geologico, che lascia tracce su di noi e che noi stessi scalfiamo con le nostre ansie, invenzioni e desideri. 
La maestosità di un meccanismo planetario che non ha “alcuna traccia di un inizio, nessuna prospettiva di una fine”, come Hutton lo ha descritto, è stato turbato dalle conseguenze catastrofiche della modernità.
Mentre Hawkes ha descritto una terra modellata da una combinazione di processo geologico, vita organica e attività umana, noi abbiamo decisamente spostato l’equilibrio. 
Ma la necessità di immaginare questo deep time alla luce delle nostre attuali preoccupazioni è più importante che mai. 
Il tempo geologico non è qualcosa di astratto o una prospettiva lontana, ma una presenza spettrale del nostro quotidiano. 
L’ironia dell’Antropocene è che saremo noi stessi i fantasmi che infesteranno il futuro più lontano.
(Questo testo è la traduzione italiana di un articolo precedentemente uscito su Aeon sotto licenza Creative Commons) di David Farrier


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