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Il crollo del viadotto Morandi: riflessioni di un ingegnere.


Questo post non vuol essere un’analisi delle cause del crollo del viadotto o un’attribuzione di responsabilità. Sarebbe assurdo anticipare conclusioni che richiederanno anni di indagini, perizie e controperizie. Alla fine arriveremo ad una verità giudiziaria (me lo auguro), ma difficilmente sapremo cosa è successo veramente al viadotto genovese. Come è consuetudine di questo blog, prima di polemizzare e sparare giudizi, bisogna cercare di capire. 
Questo articolo è il riassunto delle mie riflessioni su quello che è accaduto a Genova e rappresenta un punto di vista personale che, per certi aspetti, si allontana dalla narrativa corrente e vuole essere un tentativo, modesto ovviamente, di aiutare a comprendere ciò che ha colpito Genova, la Liguria, l’Italia e che ha frantumato l’orgoglio di molti ingegneri. 

Posted By on Set 4, 2018

Quando i notiziari e le agenzie di stampa annunciarono il crollo del viadotto progettato da Riccardo Morandi sul Polcevera a Genova, credo che ogni ingegnere italiano e non solo, abbia avvertito un senso di disagio e di smarrimento. 
Per gli ingegneri civili della mia generazione e di quelle appena precedenti, Riccardo Morandi e Pierluigi Nervi sono stati una specie di mito. 
Essi rappresentavano la punta di diamante dell’ingegneria strutturale italiana, in quanto avevano consentito al calcestruzzo armato di rivaleggiare con l’acciaio in quanto ad audacia strutturale ed a stile costruttivo.

Morandi e Nervi avevano voluto togliere al calcestruzzo la sua naturale pesantezza. I viadotti progettati da Morandi non avevano più i ciclopici piloni che caratterizzavano e caratterizzano i “normali” ponti. 

Al posto delle pile monolitiche, un reticolo di aste che conferisce leggerezza ed eleganza alla struttura. La materia cede il posto alla forma. Le strutture si alleggeriscono, evidenziano razionalità e funzionalità: neanche un centimetro quadrato in più di quanto serve. 
Basta entrare nella sala Nervi (ora sala “Paolo VI”) nella Città del Vaticano per rendersi conto di ciò di cui stiamo parlando: l’immensa volta parabolica sembra un merletto luminoso che, come una guida d’onda, convoglia gli sguardi del pubblico verso il trono papale. 
Il viadotto Morandi di Genova e la sala Nervi sono coetanei e rappresentano la sintesi di un’idea strutturale tipicamente italiana, tesa a valorizzare l’utilizzo del calcestruzzo armato ed a metterlo in competizione con l’acciaio.

Dopo qualche decennio, parlo degli anni ’80 del secolo scorso, le cose cominciarono a cambiare, in quanto il calcestruzzo cominciava ad evidenziare tutti i suoi limiti. 
Nelle aule universitarie molti docenti, tra cui i miei, mettevano in guardia i loro studenti sul rischio di utilizzare il “calcestruzzo nudo” caro a Morandi ed a Nervi. 
Il calcestruzzo è un materiale infido. Sembra una pietra, ma non ne ha le caratteristiche che hanno consentito alle piramidi, alle cattedrali ed ai ponti romani in muratura, di sfidare i millenni. 
Il calcestruzzo si degrada facilmente se esposto all’azione degli agenti atmosferici. L’alternanza del gelo e disgelo determina la formazione di fessure sulla superficie che, a lungo andare, ne provocano il degrado. 
La superficie perfetta del calcestruzzo appena disarmato, comincia a degradarsi: si formano dei vuoti, il legante viene dilavato e gli inerti cominciano a staccarsi dal corpo del calcestruzzo che perde coesione, forma e consistenza. Il manufatto viene assalito da muschi e licheni e nel giro di pochi decenni si trasforma in quello che era in origine: un mucchio di aggregati sciolti privo di qualsiasi caratteristica strutturale.

Il calcestruzzo conserva, però, tutti i difetti strutturali, intrinseci della pietra: non è in grado di resistere alla trazione. 
I greci antichi costruirono i loro templi in pietra, ma utilizzavano interassi tra le colonne estremamente ridotti. 
Le selve di colonne che caratterizzano il tempio greco, non sono dovute ad un fatto estetico (quello che oggi ci attrae), ma alla necessità di evitare che le trabeazioni cadessero sulla testa dei fedeli. 
Per le coperture essi si affidavano al legno che era meno duraturo, ma aveva la caratteristica di essere in grado di resistere a trazione: si potevano, cioè, realizzare travi lunghe e leggere.

Gli ingegneri romani inventarono la volta e l’arco. 
Le pietre (quindi il calcestruzzo di cui essi possono essere considerati gli inventori) potevano essere utilizzate anche per realizzare strutture prima di allora impensabili e per cui era necessario il legno. 
I ponti, gli archi e le volte costruiti dai romani, sono ancora ben visibili dopo quasi duemila anni. In questo caso è, però, la forma che consente alle strutture di resistere. 
La pietra lavora sempre a compressione, ma la forma consente di realizzare strutture che sono soggette a trazione. 
La cupola del Pantheon a Roma rappresenta, ancora oggi, una delle maggiori opere in calcestruzzo non armato realizzate dall’uomo e regge magnificamente i suoi circa 20 secoli di vita.

Nella seconda metà del XIX secolo gli ingegneri capirono che annegando nel calcestruzzo delle barre d’acciaio, si poteva ottenere un materiale che univa le caratteristiche della pietra a quelle dell’acciaio, ovvero un materiale capace di resistere tanto a compressione che a trazione. 
Esso divenne il materiale d’elezione per realizzare opere civili nel corso del XX secolo grazie a personalità come Le Corbusier, Wright, Morandi e Nervi. 
Ecco, in questo accostamento va ricercata l’origine del mito di Morandi e Nervi. Due italiani rivaleggiavano con figure eccezionali che avevano profondamente segnato l’architettura e l’ingegneria del XX secolo. 
Intere generazioni di ingegneri sono rimaste affascinate dall’immagine di Wright che, per convincere gli operai a smontare i casseri della Casa sulla Cascata, dovette mettersi sulla struttura: gli operai si rifiutavano di disarmarla per paura che crollasse loro in testa. Col senno di poi bisogna riconoscere che non avevano tutti i torti.

Il crollo del viadotto Morandi di Genova ha infranto questo mito. La mia prima reazione alla notizia è stata di incredulità e sconcerto. Possibile che l’opera di uno dei miei eroi giovanili avesse fatto quella miserrima fine? Le immagini impietose hanno fugato ogni dubbio. Ed allo sconcerto ha fatto seguito la rassegnazione, la rabbia e, soprattutto, la pietà per quelle 43 persone che hanno perso la vita nel crollo.

Dopo il primo smarrimento la razionalità ha ripreso, fortunatamente, il sopravvento e mi sono ritornate alla mente le raccomandazioni del compianto prof. Michele Pagano che ci invitava a valutare attentamente le caratteristiche dei materiali che utilizzavamo nei nostri progetti. 
Fu lui a farci prendere coscienza delle problematiche e delle criticità del calcestruzzo. 
Il ritiro del materiale (creep in inglese e fluage in francese) legato al contenuto d’acqua del calcestruzzo che determinava fessurazioni nelle strutture in calcestruzzo armato, la carbonatazione del calcestruzzo (qui su CM) che favorisce la corrosione delle armature in acciaio, la necessità di mantenere basse le tensioni nell’acciaio per evitare che il calcestruzzo si fessuri determinando il degrado dell’intera struttura, la necessità di armare il calcestruzzo anche quando non sembra necessario, in quanto esso è un materiale fragile e, pertanto, pericoloso. Potrei continuare ancora a lungo, ma voglio evitare di annoiare.

Prima di procedere oltre, è opportuno, però, focalizzare la nostra attenzione su quello che è l’elemento caratteristico del viadotto Morandi di Genova e degli altri tre o quattro ponti “gemelli” che Morandi progettò nel mondo. 

Nella foto che segue è raffigurata quella che in gergo si definisce macrostruttura: si tratta dell’elemento strutturale che, ripetuto un certo numero di volte, crea il ponte. Esso è costituito da una gigantesca “A”, detta cavalletto, che può considerarsi il simbolo distintivo delle opere di Morandi. 

All’interno della “A” la struttura ad “Y” è la pila vera e propria. 

La parte orizzontale è l’impalcato: al di sopra dell’impalcato i due stralli (le aste inclinate più snelle) e “l’antenna” alla sommità della quale sono collegati gli stralli. 
Le macrostrutture adiacenti sono collegate tra loro da travi Gerber dette anche “travi tampone” che non sono visibili nella foto del modello. 

La macrostruttura è perfettamente bilanciata ed è stabile intrinsecamente: può restare tranquillamente al suo posto anche se crolla quella vicina ed a Genova ne abbiamo avuto, purtroppo, una dimostrazione pratica. 
Nel caso di Genova l’aspetto più rimarchevole è che la struttura residua, pur essendo sbilanciata (manca una trave tampone ad un’estremità), continua ad essere stabile: probabilmente questo schema fu preso in considerazione nel calcolo come “schema transitorio” in fase di realizzazione. Gli scricchiolii che si avvertono nella struttura residuata, rappresentano il sintomo degli aggiustamenti statici che si stanno verificando. 
La struttura deve assumere, infatti, una nuova configurazione di equilibrio conseguente alla variazione dei carichi agenti su di essa.

Staticamente l’impalcato può essere diviso in quattro parti: le parti più estreme gravano sugli stralli, quelle più interne sulla pila centrale. Sugli stralli scaricano anche le travi tampone appoggiate mediante selle Gerber alla macrostruttura. Dal punto di vista statico è un capolavoro e nessuno lo può disconoscere.

Non è, però, tutto oro ciò che luccica. Approfondendo un poco in più la questione specifica del viadotto sul Polcevera, saltano subito agli occhi alcune caratteristiche del ponte crollato che fanno riflettere. 
Nel ponte il calcestruzzo si trova anche dove uno non se lo aspetta. 
Che senso ha, infatti, il calcestruzzo negli stralli? 
Sono dei tiranti, soggetti, quindi, esclusivamente a trazione e, come abbiamo visto, il calcestruzzo non è idoneo a resistere alla trazione. 
Essi sono in calcestruzzo precompresso. Si tratta di una tecnica che cerca di conferire al calcestruzzo caratteristiche di resistenza alla trazione. 

La logica alla base della tecnologia è, la seguente. Se io comprimo una pila di libri e la dispongo in orizzontale, i libri non cadono per terra uno alla volta come succederebbe se non applicassi alcuna compressione. 

Nel caso di un materiale fragile lo sforzo di trazione applicato successivamente, deve prima annullare gli sforzi di compressione indotti nella struttura dalla precompressione. Se io opero in modo oculato, applico, cioè, un’opportuna precompressione, i carichi agenti sulla struttura non determinano sollecitazioni di trazione nel materiale fragile. 
E’ la stessa tecnica che si utilizza per costruire i vetri temperati. 
Avete assistito qualche volta a cosa succede se si pratica una piccola scalfittura su un vetro temperato? Esso esplode in migliaia di pezzi. Lo stesso capita in una struttura in calcestruzzo armato precompresso: collassa in modo improvviso se viene meno l’effetto precompressione. 

Nel caso del calcestruzzo la precompressione viene applicata in due modi distinti: precompressione mediante cavi tesi dopo l’indurimento del calcestruzzo e precompressione mediante cavi tesi prima dell’indurimento del calcestruzzo (a cavi aderenti). Nel primo caso si annegano nel calcestruzzo delle guaine cave, all’interno delle quali si fanno passare dei cavi. Dopo l’indurimento del calcestruzzo, i cavi vengono tesi comprimendo il calcestruzzo. Nel secondo caso i cavi vengono tesi prima del getto del calcestruzzo e tagliati dopo l’indurimento dello stesso. 

Non conosco la fattispecie precisa degli stralli del viadotto del Polcevera, ma in un’altra realizzazione simile (il viadotto strallato Carpineto I in Basilicata) gli stralli furono realizzati applicando entrambe le tecniche: gli stralli sono costituiti da conci precompressi mediante cavi paralleli e precompressi ulteriormente dopo la posa in opera mediante cavi ad andamento parabolico. 
Cosa succede se uno dei cavi di precompressione si corrode? Semplice. Si riduce la sua sezione e il cavo si trancia di netto. Il risultato è il collasso del manufatto. Se un cavo d’acciaio è a vista, è facile controllarne lo stato di degrado, ma se è immerso nel calcestruzzo, l’operazione diventa enormemente più difficile.

Perché Morandi ha utilizzato questa tecnica nella realizzazione dei suoi viadotti? Nel 1958 fu pubblicato sulla rivista “Rassegna Tecnica” della SIAT (Società Ingegneri e Architetti di Torino) un articolo a firma di R. Morandi dal titolo eloquente: “Su alcune recenti realizzazioni di strutture in cemento armato e precompresso”. In questo articolo R. Morandi spiega perché ha utilizzato il cemento armato precompresso negli stralli dei suoi viadotti: l’uso di semplici tiranti in acciaio avrebbe determinato deformazioni di circa un metro della struttura dell’impalcato, rendendolo, di fatto, inutilizzabile. 

Non sono molto d’accordo: la quasi totalità dei ponti strallati esistenti al mondo, ha stralli in acciaio e vengono percorsi normalmente da auto e da treni. La differenza tra i ponti di Morandi e quelli “classici” deve essere ricercata nel numero degli stralli: egli pensava ad un unico strallo, gli altri sono caratterizzati da molti tiranti, per cui si riesce a contenere le deformazioni degli stralli e, quindi, dell’impalcato. 

Più avanti egli chiarisce meglio l’utilizzo del calcestruzzo anche nei tiranti: una delle funzioni del calcestruzzo degli stralli è quella di proteggere l’acciaio. E’ la stessa filosofia del calcestruzzo armato, ma ciò presuppone che l’acciaio si deformi poco, altrimenti il calcestruzzo si creperebbe e verrebbe meno la sua funzione protettiva. 
Precomprimendo il calcestruzzo, l’azione dei carichi esterni è tale da “decomprimere” il calcestruzzo che, però, non verrà mai sollecitato a trazione perché i carichi determinerebbero delle sollecitazioni inferiori a quelle di precompressione. Analizzando bene il ragionamento di Morandi, si giunge alla conclusione che, precomprimendo il calcestruzzo, si riusciva a sfruttare tanto il modulo elastico del calcestruzzo (in fase di precompressione) che quello dell’acciaio (in fase di esercizio) e, quindi, si riducevano drasticamente le deformazioni. 
La componente orizzontale della forza di precompressione, infine, precomprimeva naturalmente l’impalcato, determinando una riduzione delle dimensioni strutturali e, quindi, una diminuzione dei costi dell’opera.

L’idea era geniale, ma non teneva conto delle problematiche connesse alla durabilità dei materiali, alle modalità esecutive ed al comportamento del calcestruzzo e dell’acciaio nel tempo.

Il viadotto Morandi è una struttura intrinsecamente isostatica: travi Gerber, mensole e tiranti (stralli). Un mio vecchio docente di Scienza delle Costruzioni ci esortava a diffidare delle strutture isostatiche in quanto avevano scarse riserve di resistenza. 

Ecco un’altra criticità del viadotto crollato. Il cedimento di un appoggio delle travi Gerber che collegano le tre macrostrutture, la rottura di uno strallo o il collasso di una mensola, avrebbero avuto un unico effetto, ovvero il crollo dell’intera struttura. 

Personalmente non amo le strutture isostatiche in quanto non hanno riserve di resistenza: se si rompe un elemento è finita, crolla tutto. Riconosco che anche questa è una conseguenza della mia formazione: mi è sempre stato consigliato di evitare le strutture isostatiche proprio a causa della loro fragilità e posso asserire di averne realizzate pochissime nel corso della mia carriera. Una di esse mi ha creato grossi problemi e, forse, dovrà essere demolita.

Negli anni scorsi ho avuto modo di seguire, attraverso la stampa specializzata, le vicende del viadotto Carpineto I cui ho fatto cenno poco più sopra. Nel 2015 sul sito “Strade & Autostrade” fu pubblicato un interessante articolo “Il viadotto strallato Carpineto I” a firma di A. Sabatiello, L. Della Sala ed R. Cerone, in cui venivano descritte le indagini eseguite sul viadotto strallato in questione. Tralasciando i dettagli relativi alle metodiche di indagini, è opportuno sottolineare due aspetti, secondo me fondamentali.

a) Gli stralli erano deteriorati e in qualche punto avevano perso una parte del copriferro. L’aspetto più importante del degrado della struttura era, però, costituito dal fatto che gli stralli si erano “decompressi”. Essi avevano perso tra il 20 ed il 30 per cento della precompressione iniziale ed il calcestruzzo cominciava a lesionarsi a causa degli sforzi di trazione che erano insorti in esso a causa dei carichi esterni.

b) Indagini endoscopiche ed estensimetriche eseguite sui cavi di precompressione evidenziavano segni di corrosione e cadute di tensione. In altre parole essi si erano “rilassati” per cui non erano più in grado di garantire le prestazioni iniziali.

Detto in altre parole il calcestruzzo si era ritirato e l’acciaio si era deformato eccessivamente, per cui erano state vanificate tutte le ipotesi di progetto di R. Morandi.

Eseguita la diagnosi, i tecnici suggeriscono anche il rimedio: applicare dei cavi esterni per precomprimere nuovamente la struttura e ripristinare le condizioni di sicurezza iniziali, anzi migliorarle. In altre parole la stessa soluzione utilizzata per il viadotto del Polcevera per consolidare una delle macrostrutture negli anni scorsi. Nelle conclusioni essi avvertono, però, che le indagini eseguite sono state puntuali e, quindi, non possono escludere che nella struttura esistano altri problemi.

Non conosco nei dettagli i risultati delle indagini eseguite dal Politecnico di Milano sul viadotto di Genova, ma non mi sembra che esse abbiano dato esiti molto diversi da quelle eseguite sul viadotto Carpineto 1°. Stando alle mie fonti, il Carpineto 1° è l’unico viadotto strallato progettato da R. Morandi ad essere ancora in servizio, ma sono pronto a fare ammenda se qualcuno mi dimostra il contrario. Quello realizzato sul lago di Maracaibo è fuori servizio da anni, quello realizzato in Libia, è fuori servizio dal 2017, quello di Genova è crollato due settimane fa.

Ragionando per analogia con quanto successo al viadotto Carpineto 1°, dobbiamo concludere che il sistema ideato da R. Morandi, era perfetto da un punto di vista statico, teorico ed economico, ma non aveva tenuto conto di alcuni aspetti che sono emersi in modo prepotente nel corso degli anni e che accomunano molte altre opere ad esse coeve.

Il primo aspetto riguarda la durabilità dei materiali: essi si degradano per cui bisogna intervenire con continue manutenzioni che diventano sempre più onerose con il passare degli ann,i fino al punto che conviene ricostruire la struttura. 
Nel caso del viadotto sul Polcevera fu lo stesso Morandi a lanciare l’allarme nel 1979: salsedine e fumi industriali avevano creato un’atmosfera altamente aggressiva che metteva a repentaglio la sua opera e che rendeva necessario procedere al rivestimento dell’intera superficie del ponte con resine polimeriche ad altissima resistenza chimica. Altro aspetto riguarda il fenomeno del ritiro del calcestruzzo ed il rilassamento dell’acciaio. Entrambi determinano una riduzione dello stato di compressione del calcestruzzo precompresso e la sua fessurazione con conseguente ossidazione dell’acciaio delle armature. 
La carbonatazione del calcestruzzo è un ulteriore fonte di degrado strutturale. Non dobbiamo dimenticare, infine, che i ponti sono soggetti a sollecitazioni dinamiche, per cui all’interno delle strutture si vengono a creare sollecitazioni cicliche di carico-scarico che le sollecitano a fatica di e, quindi, possono determinarne il collasso anche lontano dai valori limite della resistenza del materiale. 
Altro aspetto da tenere in conto è che il volume di traffico che caratterizza le strade odierne è enormemente superiore (oltre quattro volte, nel caso di Genov) rispetto a quello di progetto, per cui le sollecitazioni dinamiche sono fortemente aumentate rispetto a quanto progettato in origine.

Nonostante ciò il viadotto Morandi ha garantito oltre mezzo secolo di traffico in condizioni di sicurezza. Ad un certo punto però non ce l’ha fatta più ed è crollato.

Con questo non voglio difendere la “categoria”: ho evidenziato impietosamente tutte le criticità delle strutture progettate da Morandi e ne ho sottolineato la delicatezza e la fragilità. 
Ciò non toglie che da un punto di vista statico, sono dei capolavori. Il problema non sta nella struttura, ma nella testa di chi non ha voluto e non vuole capire che nessuna opera umana è eterna. 
Nella testa di chi non si vuol rendere conto che ogni costruzione ha una vita utile, oltre la quale il suo utilizzo diventa pericoloso. All’epoca in cui Morandi, Wright, Nervi, Le Corbusier e via cantando, progettavano le loro opere, non si teneva presente la loro vita utile: nessuna norma imponeva di farlo, né in Italia, né altrove. Oggi non è più così: i ponti devono essere progettati per avere, sottoposti ad opportuna manutenzione, una vita operativa di 100 anni, dopo di che devono essere demoliti. Ciò non significa, però, che un’opera realizzata nel passato deve essere eterna, ma che essa avrà una vita utile che, non essendo stata calcolata, va valutata caso per caso.

Nel caso del ponte sul Polcevera era doveroso fare delle scelte politicamente coraggiose allo scopo di ridurre drasticamente il volume di traffico e, quindi, creare una viabilità alternativa. 
Questo doveva essere fatto indipendentemente dallo stato del ponte, in quanto una nazione moderna non può consentirsi di dipendere da una sola arteria di vitale importanza: l’autostrada A10 che è stata interrotta dal crollo del viadotto Morandi collega, ad esempio, l’Italia alla Francia. 
Viviamo, però, nel paese del NO-TUTTO per cui il progetto della Gronda di Genova che altro non è che un raddoppio della viabilità autostradale genovese, è stato approvato dopo circa 20 anni di polemiche e contestazioni. 
Neanche a farlo apposta i principali antagonisti del progetto, sono stati proprio quelli che oggi si stracciano le vesti, inveendo contro chi, quel progetto, lo ha realizzato e portato avanti con fatica estrema sottoponendolo anche ad una discussione pubblica protrattasi per diversi mesi ed alla fine della quale molti suggerimenti e richieste di varianti sono stati inseriti nel progetto finale. 
Se invece di opporsi senza se e senza ma, quell’opera fosse stata realizzata, forse non dovremmo piangere i 43 morti provocati dal crollo del viadotto che, badiamo bene, non è stato provocato dalla mancata realizzazione della Gronda (qui un piccolo riassunto della vicenda, mentre per una disamina molto più approfondita si possono leggere le circa cento pagine della Relazione conclusiva della Commissione sulla Gronda qui ).

Non dobbiamo dimenticare, infine, che sicuramente i morti non ci sarebbero stati se il viadotto sul Polcevera, come consigliato da molte parti compresi ingegneri, architetti, docenti universitari e, non ultimo, il gestore della struttura, fosse stato demolito, considerati sia i risultati delle indagini eseguite, sia quanto avvenuto per altre strutture similari. 
E la cosa grave è che tutti ne erano a conoscenza anche se ora sembra che tutti cadano dalle nuvole: l’abbattimento e la successiva ricostruzione del ponte Morandi è stata all’ordine del giorno per anni, ma la cosa è restata lettera morta. 
Anzi, in passato suscitò irrisione, in quanto l’ipotesi del crollo del viadotto Morandi, fu liquidata in certi ambienti come una “favoletta”. Con il senno di poi bisognerebbe parlare di una favola horror, ma si mancherebbe di rispetto ai morti.

Ancora una volta dobbiamo contare i morti e ancora una volta devo constatare con disgusto che su questi poveri morti si specula. C’è poco da fare, non siamo in grado di imparare dai nostri errori, non siamo capaci di assumere posizioni razionali, ci facciamo guidare dall’istinto e dalla passione ideologica. Neanche i disastri riescono a farci rinsavire. In queste due settimane avrei voluto che la Nazione piangesse le proprie vittime e si impegnasse subito per risolvere al più presto i problemi che il disastro ha prodotto. Nulla di tutto ciò. Solo polemiche e chiacchiere in libertà, non un’analisi seria delle problematiche messe in evidenza dal disastro.

Un esempio? Basti pensare che sono stati messi sotto osservazione tutti i ponti progettati da Morandi. Come se stessimo parlando non delle opere di uno dei maggiori ingegneri del mondo, ma di quelle di un lestofante qualunque. 

Anche quando non vi è nulla da temere (a Benevento, giusto per evidenziare un caso pratico, ne hanno chiuso uno ristrutturato da un paio d’anni e che non mi sembra manifesti segni di dissesto tali da farne temere il crollo). 
Bisognerebbe, invece, varare un grande piano di verifica delle infrastrutture esistenti, ormai datate, certificarne le condizioni statiche e, se necessario, prevederne di nuove che le sostituiscano. 

Con serenità e responsabilità, senza isteria e furori ideologici. Sono convinto, invece, che tra qualche settimana non si parlerà più di Morandi, Polcevera, ponti e viadotti. I No-Tutto torneranno alla ribalta e ci ossessioneranno con le loro becere lamentazioni, ribadendo fino alla noia che non abbiamo bisogno di grandi (e piccole, aggiungo io) opere, ma di “ben altro”, vagheggiando di irrealistici “modelli di sviluppo alternativi e sostenibili”, di “viabilità dolce”, di “trasformazione del modello di mobilità”, di “passaggio dal modello di trasporto su gomma al modello di trasporto su ferro”, ecc., ecc.. 
Il tutto nell’ottica della “decrescita felice” e nella prospettiva di andare tutti a vivere in un bel mulino bianco. Fino al prossimo disastro."

Ho messo in corsivo il finale non condividendo per nulla la riflessione

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