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Sviluppo locale di tipo partecipativo

Tutta una serie di attività e beni comuni sono stati sottratti alle comunità dal capitalismo… Tale capitale in mano alle multinazionali è diventato immenso mentre pochi di tali beni sono rimasti bene comune; prima, al contrario, tanti erano i beni comuni e pochissimo era il capitale. Oggi, sostengono gli autori, urge ribaltare questa situazione giacché ha determinato gli sconquassi ecologici che conosciamo.


Gli autori ci ricordano l’impoverimento di intere aree, comunità, regioni del pianeta e lo smodato consumo di risorse da parte di alcune aree del pianeta: ad esempio, se tutto il pianeta avesse lo stesso consumo degli Stati Uniti non basterebbero cinque pianeta Terra a sostenere il consumo di questo Stato, consumo che viene, per fortuna, compensato da altri paesi che consumano molto meno.

La capacità del sistema Terra di riciclare i consumi dell’uomo (“Antropocene” viene definita dagli autori l’epoca del presente disastro ecologico) è stata superata. Oggi l’umanità consuma ed inquina a tale livello che non basta il pianeta Terra per riassorbire gli scarti, ma serve da subito almeno “un pianeta Terra e mezzo” per potere riciclare quanto smaltito ed emesso dall’uomo nel corso della presente era dell’Antropocene.

Gli autori coltivano la speranza di contrastare il destino, per molti versi ormai quasi ineluttabile, del pianeta.
La fisica e la scienza moderna hanno scoperto che la vita del pianeta è basata su un web, une rete di sistemi vitali autopoietici che generano e si autorigenerano, altrettanto la vita umana è basata su sistemi relazionali biologici, sociali, economici, etc.

La soluzione suggerita dagli autori è, allora, il diritto sistemico ed ecologico per mutare il capitale in beni comuni, dando adito ad investimenti durevoli in un’economia della condivisione, nell’architettura eco-compatibile e nell’ambiente.

Con l’eco-diritto, tra le altre cose, i beni comuni potranno essere trasformati in beni comuni sociali o culturali, potrà essere tutelato internet dalla privatizzazione e potranno essere resi obbligatori modelli generativi di proprietà e non estrattivi.

Ovvero un ritorno ad una vita ecologica comunitaria, tanto a livello rurale che urbano.
Comunità quali soggetti attivi dell’uso armonico dei beni comuni, per il consumo e recupero delle risorse e regolate, nei rapporti tra i soggetti delle comunità e tra le stesse comunità, dal diritto civile.
Il diritto pubblico non viene, infatti, considerato utile a tal fine, considerato il livello di influenza e controllo esercitato da parte delle multinazionali sulla politica a tutti i livelli.

E’ utile, invece, un costante negoziato di rapporti e di relazioni di diritto civile tra le comunità ed i soggetti, per l’organizzazione e gestione dei beni comuni.
Per salvare il pianeta dal disastro, tali beni devono essere riacquisiti alle comunità e gestiti dalle comunità con sistemi di diritto privato, dicono gli autori.
Dunque, un diritto privatistico dell’ecologia che disciplini rapporti tra soggetti e comunità, ed in particolare, tra soggetti che gestiscono temporaneamente, per conto delle stesse comunità, i beni comuni.

I privati potranno essere anche proprietari dei beni comuni, ma con vincolo di utilizzo, per esempio, dei terreni agricoli di cui vi sarebbe l’obbligo di uso per non lasciarli incolti, salvo ritorno alla comunità per darli a qualche altro lavoratore, per come suggerito dai due autori.

Si tratterebbe, dicono gli autori, di creare una coscienza giuridica ecologica (una “rialfabetizzazione”) al fine di realizzare un nuovo paradigma interpretativo per un diritto privato ecologico che non supporti e giustifichi capitale e rendite (ovvero applicazioni di tipo estrattivo), ma che implementi la remunerazione del lavoro quale valore d’uso dei beni comuni non più valore di scambio....

Aurelio Bruno
8 agosto 2018

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