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E se non fosse tutta colpa dei Benetton ?

Troppo spesso ci contentriamo sulle persone perdendo di vista il problema.
Immigrazione, disuguaglianze diffuse, avanzata di movimenti xenofobi con coloriture nazi-fasciste, lavoro sempre più flessibile, disoccupazione più o meno diffusa in molti Paesi soprattutto tra i giovani, ceti popolari e classi medie in rivolta.
Il XXI secolo si sta rivelando un secolo di regresso sociale e i popoli occidentali, non soli, scendono in piazza a contestare la globalizzazione e i suoi effetti devastanti.
Da più parti si protesta e si contesta quella forma di capitalismo ultra-liberista che sta alla base della globalizzazione.
Sul banco degli imputati sta il capitalismo e l’accusa è di essere venuto meno a ciò che prometteva: un mondo migliore, con meno ingiustizie e disuguaglianze sociali. Sotto accusa la politica che ha asservito la finanza in tutti questi anni , tradendo il ruolo sociale che dovrebbe svolgere, secondo i dettami costituzionali.
I Benetton sono in buona compagnia.


La stagnazione e la fase ribassista dei mercati degli anni ’70 hanno contribuito  all’emergere dell’attivismo degli azionisti, un trend che è stato immortalato negli anni ’80 con la figura del raider chiamato Gordon Gekko nella fiction “wall Street”.
“L’avidità è una cosa buona”, Gekko dichiarava, mentre licenziava compiaciuti e sovrapagati manager e ristrutturava aziende fragili.
E gli azionisti assediati giustamente brindavano.
Ma 30 anni dopo, la rivoluzione degli azionisti alla Gekko è ancora molto forte e il pendolo è oscillato troppo in là.

Spinti da una vasta e ipercompetitiva industria di gestori del risparmio, le aziende oggi servono una sola componente – gli azionisti – mentre irrigidiscono la forza lavoro e minimizzano gli investimenti.

Autostrade per l'Italia S.p.a. è controllata interamente da parte di Atlantia S.p.a., una società che ne possiede il 100% del capitale sociale. Essa attualmente ha come presidente Fabio Cerchiai e come amministratore delegato Giovanni Castellucci. Tale società non si occupa solo delle autostrade italiane ma anche di quelle situate in Brasile, Cile, India, Polonia, come pure della gestione degli aeroporti romani di Fiumicino e Ciampino e dei tre aeroporti francesi di Nizza, Cannes-Mandelieu e Saint Tropez. Guardando a chi detiene il pacchetto azionario di Atlantia (secondo quanto dichiarato alla Consob a marzo sorso), scopriamo che i Benetton sono proprietari di poco più del 30% delle azioni, detenute tramite la holding Edizione Srl.
La maggioranza delle quote di Atlantia non è quindi in mano alla nota famiglia veneta. Oltre l'8% delle azioni è infatti di proprietà di GIC Private Limited, un fondo di Singapore. Vi è poi un 5% in mano alla statunitense Blackrock, vale a dire la più grande società di investimento nel mondo con sede a New York (essa ha complessivamente un patrimonio totale di oltre 6.000 miliardi di dollari, di cui 1/3 in Europa). Un altro 5% è invece in mani italiane, precisamente alla fondazione Cassa di Risparmio di Torino. Un ulteriore 5% è invece nelle mani di HSBC, uno dei più grandi gruppi bancari del mondo, con sede a Londra, esso è anche primo istituto di credito europeo per capitalizzazione con 157,2 miliardi di euro. Vi è poi oltre il 45% in mano a numerosi piccoli azionisti e uno 0,96% costituto da azioni proprie di Atlantia stessa.



Questa religione della “creazione di valore per gli azionisti” è visibile nella divergenza tra profitti , salari e investimenti.
I profitti delle aziende sono andati crescendo negli ultimi 15 anni e sono ora vicini al loro livello massimo di sempre.
I salari aziendali, nel frattempo, sono andati declinando per quattro decenni e sono ora vicini al loro punto di minimo.
Gli economisti citano molti fattori che hanno contribuito all’ascesa dei profitti e al declino dei salari negli scorsi decenni  – la globalizzazione, il divario di capacità, il declino dei sindacati, la perdita di lavori ad alto contenuto manifatturiero.

Queste tendenze sono reali, ma oscurano la vera causa: i proprietari delle società hanno scelto di massimizzare i profitti di breve periodo.

Dal punto di vista della società globale serve l'affermazione di un capitalismo imprenditoriale connotato anche dall'aggettivo "civile", perché il processo  deve coniugare aumento del valore dell'impresa con crescita dei valori di condivisione e di reciprocità – variamente intesa – alla base di una maggiore equità e che quindi comportano anche riduzione delle diseguaglianze di reddito, ma pure sociali, di innovazione, di genere...

Recuperare il nesso tra capitalismo e imprenditore (mettendo al centro l'impresa vera) significa valorizzare un processo creativo allargato: la vera motivazione a far partecipare anche gli altri dei risultati del proprio successo comporta – sotto molti versi – un tuffo nella nostra storia economica, ripensando all'esempio di tanti imprenditori piccoli (e anche grandi) che nel loro agire traevano ispirazione dal conseguimento di una forma di "felicità" non solo misurata sul metro delle cose materiali, ma che includeva anche forme di reciprocità con gli altri e un processo più allargato di partecipazione e di coinvolgimento: una "felicità pubblica" che supera il senso del ben avere e punta al ben e buon vivere.
Tutto questo cozza contro la globalizzazione? 
Direi di no !
Un esempio tratto dalla storia industriale del nostro paese sta a dimostrarlo: l'Olivetti di Adriano era una realtà multinazionale e globale (ante litteram) in cui valori civili e crescita del business convivevano e si tenevano assieme in un progetto di reale sviluppo.
Ma ci sono anche tante storie d'imprenditori e imprese (magari non così eclatanti e note) che ancora oggi caratterizzano il nostro paese, in cui c'è voglia di fare e mettersi alla prova, si esprime un senso della sfida e la volontà di saldare economia e società, per sanare la grande ferita apertasi con il turbo capitalismo finanziario, recuperando e diffondendo i valori della nostra storia d'impresa e leggendoli in uno scenario che mette in risalto il "volto umano" della globalizzazione: quello della sfida imprenditoriale, della partecipazione e dello sviluppo di genuine idee di business, che vivono nel tempo e non si inceneriscono come è stato per l'economia della finanza di carta.






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