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Le idee non hanno ali per volare...



A differenza di quanto accade nei settori professionali in cui la progettazione è giuridicamente definita ed economicamente inquadrata, in Italia,  questo fenomeno si manifesta, per usare un eufemismo, più di rado, quasi che progettare un piano di sviluppo locale sia giochino da ragazzi. 

Abbiamo daltro canto dinastie d’ingegneri o di esecutivi che hanno ingobbito sui tecnigrafi generazioni di architetti.

Senza scherzare oltre, è doveroso riconoscere che tale abitudine non trova corrispondenza nei paesi più civili, dove la progettazione è considerata una fase cruciale, il fattore critico del successo di qualsivoglia iniziativa ,cui dedicare il giusto tempo e riconoscere un idoneo compenso, con stanziamenti di budget che sull’italico suolo non vengono riservati nemmeno a talune fasi realizzative.

Lo sviluppo di uno spin-off : di norma non si fa gratis, ma esigono la giusta remunerazione del tempo dedicato e il riconoscimento del loro ruolo.

Perché l’economia della conoscenza è diversa da quella della riconoscenza.

Le idee servono e si devono pagare, perché le competenze hanno un valore economico, perché una cattiva progettazione figlia pessime gestioni, perché l’improvvisazione è difetto caratteriale, perché esistono nuove professionalità che, anche senza la rappresentatività di ordini prestigiosi, sanno fare bene e seriamente un lavoro assai più complicato di quanto si pensi.Gli ostacoli che si frappongono alla modernizzazione di un falso e peloso pseudomecenatismo sono molti.


Rimane il fatto che decine di migliaia di persone sono disposte a lavorare gratis, nella speranza di vincere un giorno il gratta e vinci.



Non meno delicata è la situazione della committenza, pubblica e privata.
Un progetto non è un capriccio: ha bisogno di committenti consapevoli, esigenti e risoluti.
Per fortuna alcune imprese, le più avvedute e innovative, hanno capito che solo riconoscendo dignità e valore all’opera progettuale di questi nuovi soggetti, allergici alle etichette ma capaci di saltare gli steccati sterili dell’iperspecializzazione, è possibile portare idee e vita in campi altrimenti condannati all’asfissia.

“Le industrie creative, un patrimonio da sfruttare.”
Non è il claim dell’ennesimo master farlocco, ma roba seria: il titolo del Libro Verde della Commissione Europea licenziato il 27 aprile del 2010, che ha circoscritto un campo altrimenti poroso e mutante, in cui operano omonime imprese.
Sulla carta posti fantastici, dove ogni neo diplomato/laureato smart sogna di lavorare.

Imprese in cui alle “strutture societarie” si antepone l’attenzione per la Società, all’utile di bilancio l’utilità sociale, al “dividendo” la condivisione, alla specializzazione la specificità.

Imprese dove il cappio del profitto non soffoca il pensiero al bene comune, dove la gratuità è un valore e la generosità non è un retaggio infantile, dove l’investimento in ricerca e sviluppo non è pianificato in termini percentuali, ma è il sangue caldo e misto che tiene in vita organismi in continuazione evoluzione.
Ma come le api operaie, queste imprese si fanno un culo a paiolo, vivono una stagione e muoiono di fatica: per produrre un chilogrammo di miele le api devono raccogliere circa 3 chilogrammi di nettare, effettuando circa 60.000 voli, in ognuno dei quali devono suggere circa 100 fiori, coprendo in media 2,5 chilometri a 24 chilometri orari.

Pertanto, per produrre un chilogrammo di miele devono sucarsi 6.000.000 di fiori e percorrere 150.000 chilometri, pari a 3,75 giri del mondo.
Non è un’attività riposante e, soprattutto, rimane collegata a cicli di vita specifici – di norma brevi – e forme di convivenza peculiari.
Negli alveari della creatività prevale una diffusa allergia per le formule societarie tradizionali, a causa dell’elevato turn-over del personale, della cronica sottocapitalizzazione, della pluriattività come scelta – sovente imposta, talora desiderata – di vita, della parzialità dell’ingaggio dei singoli individui, del confine sempre labile tra profit e no profit, libertà e free-riding.

Per risolvere questi dilemmi è necessario inventare nuove formule societarie e nuovi assetti istituzionali.

Lo stesso discorso vale per le sedi lavorative.
Non servono uffici di rappresentanza: bastano un cesso, piani di lavoro, sedute essenziali, prese elettriche e connessioni veloci, serviti dai mezzi pubblici.

Per dimezzare i costi fissi e assicurare la sopravvivenza di queste realtà basterebbe garantire la disponibilità di spazi minimi, senza le pagliacciate degli scorsi anni, quando per assegnare a prezzi di mercato qualche metro quadrato nella Fabbrica del Vapore a Milano venne insediata una commissione internazionale di saggi di cui facevano parte De Kerckhove e Maeda (dubito volassero low-cost).

Sino a martedì scorso (quando l’Agenzia del Territorio ha comunicato la scoperta di un milione di immobili fantasma) in Italia erano accatastati circa 12,8 milioni di edifici, di cui 11,3 ad uso abitativo, per complessivi 120 milioni di vani, che fruttano il record mondiale delle case sfitte, con il 24% sul totale degli appartamenti, contro una media europea dell’11,8%. 

In siffatto contesto trovare un tetto da mettere sopra la testa non dovrebbe essere un’impresa proibitiva, anche se rimane il problema di scovare chi ti finanzia, mentre cerchi qualcosa da mettere sotto i denti.

Trovare credito, con simili garanzie, non è facile e gli istituti bancari italiani non conoscono mezze misure; dopo lustri in cui “fior di imprenditori” come Zunino, Coppola, Tanzi, l’Einstein di Zagarolo e compagnia cantante ottenevano linee di credito da sette zeri  in 0,7 nanosecondi, oggi, “per colpa di qualcuno non si fa credito a nessuno”.
Peccato non sia la scritta burlona sul piatto del buon ricordo di una scalcinata trattoria di paese, ma il payoff di una campagna che sta garrotando migliaia d’imprese, solide e operanti in settori tradizionalissimi, i cui fondamentali di bilancio sono più noti e vetusti delle incisioni rupestri di Altamira o Lascaux.

Figuriamoci la gioia con cui il responsabile fidi di una filiale del mediocredito artigiano cooperativo di Brugola di Sotto può accogliere la richiesta di apertura di una linea di credito o di accensione di un mutuo dei dieci fondatori di un hub creativo, titolari di esclusive carte di debito Coop o ancor più affidabili ricaricabili Bancoposta.
Bella scenetta da sitcom comica, ma in realtà c’è poco da ridere, perché è su questi scogli, alti come un panettone di Pao, che vanno a infrangersi molte aspirazioni imprenditoriali: se ti pagano poco e irregolarmente, se non sei nato ricco trovare qualcuno che ti presti pochissimi euri diventa un’impresa erculea.

Non va meglio con il private equity: i business angels tricolori non hanno la possente apertura alare e le spalle larghe degli esemplari californiani incarnati dal Warren Beatty di Heaven can wait.

Assomigliano piuttosto ai cherubini di tanta pittura cinque-seicentesca: piccini, paffuti, con due alette da piccione e le braccine molli e, soprattutto, corte. Un investimento di 40K è sudatissimo da ottenere. Una nuova versione di business plan per ogni 1.000 euro addizionali.
Ma il businessplanning è un eccitante psicotropo, tra l’LSD e l’Amanita Muscaria: fa vedere mondi meravigliosi, crescite portentose, profitti miracolosi.

Assumerne dosi massicce o andare in overdose, dal punto di vista medico-legale, è meno pericoloso di calarsi un cartoncino o ingollarsi un peyote.

Ma la visionarietà non è la virtù imprenditoriale del terzo millennio?

Liberamente tratto e adattato... http://www.leparoleelecose.it/?p=3980

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