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Zygmunt Bauman, Vite di scarto


Il  libro di Zygmunt Bauman, Vite di scarto, può essere interpretato, ad
una prima lettura, come una serie di diagnosi sul mondo globalizzato,
accomunate dal filo conduttore della produzione di rifiuti, e in particolare
della sottospecie rappresentata dai “rifiuti umani” che vivono ai margini
dell’attuale società del benessere.
In questo senso, dunque, il volume, di approfondimento di tematiche già presenti nella riflessione degli ultimi anni ’80.


I “rifiuti umani” sarebbero, in quest’ottica, assimilabili ai “repressi” prodotti dalla società post-moderna e descritti dal sociologo polacco in uno dei capitoli del suo saggio sugli intellettuali (Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali.
Da legislatori a interpreti, Tuttavia la tesi qui sostenuta è più complessa, e non limitata a questo aspetto: ad essere analizzato nelle sue conseguenze è un vero
e proprio passaggio epocale, già esaminato o richiamato in opere quali Modernità liquida, Voglia di comunità e Amore liquido. Si tratta della transizione, oggi estremamente evidente,dalla fase solida della modernità, ad una fase liquida caratterizzata dal venir meno di ogni sicurezza, di ogni appoggio stabile, di ogni orizzonte di lungo periodo.
L’argomento della produzione dei rifiuti non è dunque semplicemente il fenomeno su cui l’analisi di Bauman mette l’accento, ma rappresenta, allo stesso tempo, la lente d’ingrandimento attraverso la quale mostrare come particolari strutture “solide”della modernità – il lavoro, lo Stato, gli establishment – si stiano riadattando alla fase liquido-moderna che il mondo sta attraversando. Ciò che Bauman si propone nel libro è dunque innanzitutto di tracciare una «storia della modernità» (p. 3), sia pur raccontata a partire da un suo particolare aspetto, l’emergere di un fantasma dell’esubero manifestatosi di recente,
ma dalle radici profonde.

È la modernità stessa, fin dalla sua fase “solida”, ad essere messa sotto
accusa, in particolare per la sua attitudine progettuale, inevitabile creatrice di
confini nel momento stesso in cui si accinge a dare un ordine alla natura ed
alle relazioni umane. Sono, ancora una volta, temi più volte indagati da
Bauman negli ultimi vent’anni, ma in questo caso non si tratta semplicemente, ad esempio, di esaminare l’attitudine ordinatrice dell’intellettuale moderno, o di esplorare i tentativi di riprodurre il modello coeso della comunità.
Ad essere in gioco è l’interpretazione dell’epoca moderna nella sua interezza
, caratterizzata da una volontà di cambiamento del mondo in grado di autoperpetuarsi, fino a far assumere a questa fase storica l’aspetto di un mostruoso veicolo costantemente in moto e sottoposto ad un’accelerazione crescente tale che chi ne è scaraventato a terra, non riesce fin dall’inizio a salirvi, non ha possibilità di poter recuperare il terreno perduto. 
È dunque lo stesso habitus mentale alla base della modernità a risultare, di per
sé, produttore di rifiuti: la catena della progettazione-produzione caratteristica
di questa società porta infatti con sé l’inevitabile conseguenza della produzione di rifiuti, che tuttavia sembrano passare si- stematicamente in secondo piano di fronte ai prodotti sempre nuovi che escono dalle fabbriche.

I rifiuti sono dunque una sorta di “rimosso” della modernità, sia nella loro forma di cumuli di scorie e di prodotti scartati sia in quella più preoccupante degli esseri umani in esubero: i “rifiuti umani” della società liquido- moderna, prodotti dalla creazione di ordine e dal progresso economico incessante, da esso richiesti, paradossalmente, per legittimare l’esistenza delle istituzioni
 dello Stato moderno. 

 
Quello della produzione di rifiuti, a differenza di quello dell’esubero che sta
saturando il nostro pianeta, non è dunque, secondo Bauman, un problema
emerso recentemente, anche se è con i processi di globalizzazione attualmente
in atto che tutte le sue più gravi conseguenze vengono in primo piano: la
trasformazione del problema degli spostamenti e delle migrazioni in un
problema globale e pluridirezionale impedisce ai Paesi sviluppati di praticare
la tradizionale politica della ricerca di soluzioni globali a problemi locali
come la sovrappopolazione, la cui massima espressione si è avuta con i
processi di colonizzazione dell’Africa e delle Americhe. Riemergono le
preoccupazioni già espresse nel Settecento da Malthus, senza che tuttavia
appaia all’orizzonte una proposta concreta di soluzione al problema di una
vera e propria entropia causata dai centri dello sviluppo economico che,
secondo il sociologo polacco, attraggono incessantemente risorse e, altrettanto
costantemente, esportano rifiuti.

Completamente differenti sono invece le cause dei timori interni agli stessi Paesi sviluppati, in massima parte derivanti dall’aumento del numero degli “altri”, dei diversi-da-noi che gli stessi processi di globalizzazione appena esaminati fanno venire in contatto con le nostre società. 

Tuttavia è ancora una volta questa presenza che permette di ritardare, secondo l’analisi impostata nel saggio, l’esplosione del problema: gli “altri”, infatti, se da
un lato divengono la figura deviante che catalizza le paure moderne, dall’altro si assumono il compito aborrito di fungere da manodopera addetta allo smaltimento delle scorie che circondano le città moderne, ripetutamente paragonate alla Leonia descritta da Italo Calvino ne Le città invisibili.
È tuttavia l’“altro” come figura deviante che si presta maggiormente a fungere da paradigma delle tendenze della società liquido-moderna, in cui ad uno spazio globalizzato ormai fuori dalla portata degli Stati-nazione, e non sottoposto a regole e leggi dalla validità parimenti globale,corrispondono le angosce dei cittadini delle formazioni statuali tradizionali. 

L’onnipervasività dello stile di vita moderno equivale inoltre ad una
condizione in cui nessuna parte del globo è immune dal problema dei rifiuti e dell’esubero: si tratta dunque di cercare soluzioni locali a problemi globali, che trovano la loro incarnazione in un modello statuale opposto a quello inclusivo del welfare state.


Il nuovo Stato, nella diagnosi di Bauman, mette in atto politiche nettamente improntate all’esclusione, ed è paragonabile più da vicino ad una caserma che ad un’istituzione assistenziale: è dunque inevitabile che nell’analisi tornino in primo piano coloro che vivono ai margini o al di fuori di questa istituzione, coloro che essa si incarica di “smaltire” tenendoli all’interno delle istituzioni carcerarie, o dei ghetti, fenomeno su cui Bauman si era già soffermato, ad esempio, in Voglia di comunità la cui analisi procede qui appro fondendo quella stessa linea d’indagine che aveva portato il sociologo, nel precedente volume a descrivere i nuovi ghetti –qui significativamente ribattezzati “iperghetti” – come istituzioni inevitabilmente destinate ad autoperpetuarsi ed a chiudere ai loro abitanti ogni possibile via d’uscita.
La politica dell’esclusione è tuttavia solo una soluzione parziale e di scarso successo, come la crescente chiusura nei confronti dei migranti e dei rifugiati, altro fenomeno su cui il saggio si sofferma a lungo.
La società liquido-moderna resta, non senza un elemento di intenzionalità, essenzialmente una società fondata sull’insicurezza, sul sospetto nei confronti di chiunque, con la conseguenza di un chiaro disimpegno, di una volontà di concepire gli impegni che si è costretti a prendere solo come temporanei, fragili e sempre revocabili.

Ancora una volta, dunque, l’analisi di fenomeni particolari porta Bauman a ribadire convinzioni di ordine generale: in questa visione la transitorietà rappresenta il connotato saliente della modernità liquida, una prospettiva in cui ciò che oggi ha un posto può repentinamente essere trasformato l’indomani in esubero. 
 
 È dunque inevitabile che i progetti di lungo periodo, fuori dalla portata dei
singoli, perdano di senso, e che ciò si rifletta in molteplici campi della vita
umana: dalla ricerca di una soddisfazione immediata dei desideri attraverso il
ricorso quasi illimitato all’indebitamento, allo smarrimento di un’idea-guida
di bellezza come perfezione, per finire con lo sgretolamento dei rapporti
personali, altro tema già affrontato dall’ultimo Bauman. 

La preoccupazione principale dei membri della società liquido-moderna
sembra dunque quella di diventare produttori di rifiuti per non essere, a loro
volta, rifiutati, in un meccanismo che sembra riflettere la logica perversa dei
reality show, opposta e speculare a quella del Grande Fratello di matrice
orwelliana che governa le esistenze di coloro che vivono stabilmente fuori
dalla società, i “rifiuti umani”.
È dunque un interrogativo, e non una ricetta alternativa, a concludere il
saggio: la scelta tra l’esclusione dalla società e l’inclusione sottoposta alle
leggi del consumo e della transitorietà è l’unica possibile, o esiste una
maniera diversa di concepire e vivere l’esistenza umana in comune?

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