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La fine della sovranità !

Alain de Benoist è, senza ombra di dubbio, uno degli intellettuali europei più attenti allo stato presente delle cose. Per questo, egli ha dedicato un secondo volume all’analisi della crisi che sta sconvolgendo dal 2008 gli assetti produttivi del mondo capitalista.
 
Dopo il successo di Sull’orlo del baratro, è da poco nelle librerie, per i tipi della casa editrice Arianna, La fine della sovranità. Come la dittatura del denaro toglie il potere ai popoli . Nelle sue pagine, il filosofo francese precisa e definisce in modo compiuto cause, conseguenze e possibili vie d’uscita dalla situazione presente.

 
Innanzitutto, egli ribadisce con estrema chiarezza, che la crisi presente è strutturale, indotta dalla completa emancipazione della finanza mercatista dall’economia reale. Il tratto saliente che la caratterizza, è l’indebitamento generalizzato.

Crisi del debito, dunque, la cui straordinaria amplificazione ha avuto un momento topico, nell’introduzione della moneta unica europea, l’euro.


La crisi è iniziata negli Usa nel 2007 con la vicenda dei subprimes: le famiglie americane sono state incitate surrettiziamente a indebitarsi ipotecando la propria abitazione ma, non riuscendo a restituire i debiti contratti, i fallimenti non hanno tardato a moltiplicarsi.
Ben presto, anche le banche europee, a causa dell’insolvenza dei clienti, si sono trovate sull’orlo del precipizio, e gli Stati sono intervenuti in loro favore con massicci prestiti.
Il debito privato si è trasformato in debito pubblico.
In Europa, gran parte dei debiti pubblici si trova nelle mani delle banche che, da allora, non hanno mai smesso di acquistarne porzioni rilevanti, finanziandosi presso la Bce a un prezzo risibile, e poi prestando denaro agli Stati a un interesse elevato.

Tali processi hanno avuto una lunga incubazione.
Già Giscard d’Estaing proibì alla Banca di Francia di accordare prestiti diretti allo Stato.

Tale disposizione venne poi estesa all’intera Europa con il Trattato di Maastricht, e con quello di Lisbona. 
Da allora, gli Stati contraggono nuovi prestiti per far “funzionare” i loro Paesi e ciò aumenta esponenzialmente il debito, anche per effetto delle politiche d’austerità. 

Quali gli altri momenti salienti di tale percorso verso il baratro?
Nella conduzione dell’esegesi della crisi, il teorico delle Nuove Sintesi sostiene che dopo il crollo del mondo sovietico, siamo davvero entrati nella età della globalizzazione, si è verificato un cambiamento epocale: da un’economia internazionale a un’economia globalizzata.
Questa la vera cesura storica dei nostri giorni, in essa è venuto meno l’altrove. Attualmente, infatti, assistiamo a un’interdipendenza generalizzata dei mercati e all’esternalizzazione sistematica di alcune funzioni economiche: “…al fine di approfittare del differenziale di costo tra i Paesi” (p. 24).
Al contrario, fino alla metà del XX secolo, i profitti realizzati all’estero rifluivano sul territorio d’origine.
Oggi le imprese più rilevanti sono nomadiche, de-territorializzate e lavorano nell’ottica del mercato planetario.
Il glorioso trentennio keynesiano terminò con la crisi petrolifera del 1974-75, così che la mondializzazione ha potuto poi attuare un’integrazione economica sempre più pervasiva, sotto l’effetto della circolazione dei capitali e delle merci e della rivoluzione comunicativo-informatica.
Il   risultato ottenuto lungo questa via è stata l’omogenizzazione programmata dei flussi finanziari e dei modi di pensare e di esperire la vita.

Del resto, rileva l’intellettuale transalpino: “Le misure di deregolamentazione…finanziaria degli anni 1970-80, corrispondono anche a un periodo, in cui l’  erosione dei tassi di reddito del capitale ha aperto una crisi strutturale del capitalismo, che questo poteva superare solo rimettendo in causa le acquisizioni sociali dei Paesi sviluppati” (p. 30).

Da tali presupposti sono sorte le “aziende in rete” o “globali”.
Attualmente, 50.000 di esse fatturano più di un terzo delle esportazioni mondiali. Esse sono state i soggetti economici capaci di far saltare i sistemi produttivi nazionali, rendendo Stati e governi le prime vittime della mondializzazione.
La forma del dominio territoriale propria dell’istituto statuale è, infatti, divenuta obsoleta: essi non possono neppure assumere iniziative controcorrente, perché queste indurrebbero la fuga degli investimenti.
Cos’è accaduto allora agli Stati?

La teoria liberale classica cercava di ridurre il ruolo dello Stato al minimo immaginabile. 

I teorici ultraliberali, successivi alla stessa Scuola di Chicago, gli economisti  di Friburgo, hanno ben compreso in qual modo fosse possibile porre le strutture dello Stato al servizio del mercato e di chi lo domina.

Gli Stati sono ora “occupati” dai mercatisti, che li hanno deprivati della sovranità politica a favore: “…delle organizzazioni o giurisdizioni internazionali, della sovranità finanziaria a favore delle banche e dei mercati finanziari, e della sovranità del bilancio a favore della Commissione europea” (p. 33). 

Allo Stato non è rimasto che il ruolo ingrato di dover contenere, con le politiche d’ordine, le nuove classi pericolose e potenzialmente sovversive dell’ordine globalista, in un frangente storico in cui il messianesimo mondialista, mostra il proprio fallimento.

Tutti gli attuali parametri economici evidenziano il progressivo impoverimento dei popoli e l’inarrestabile arricchimento dell’establishment economico-finanaziario.
La situazione è aggravata dal carattere impositivo che in Europa la governance sta assumendo nei confronti della sovranità dei popoli, attraverso la stipulazione del MES.
Tale trattato stabilisce che  assistenza finanziaria può essere concessa solo agli Stati che metteranno in opera un programma di riforme strutturali conformi alle esigenze mercatiste e liberali.
I paesi aiutati perderanno: “…ogni autonomia, dovranno accettare le condizioni che verranno loro imposte” (p.51).
Un secondo trattato del marzo 2012, il TSCG, pone sotto controllo della Commissione europea le politiche di bilancio dei singoli Paesi, con il concorde plauso delle destre e delle sinistre presenti su piazza in Europa.

Questo fenomeno è definito dal filosofo francese “alternanaza unica” o, più propriamente, mancanza di alternative politiche, conseguenza diretta del dominio del “pensiero unico”.
Il passo ulteriore che la governance sta compiendo, senza che di ciò i popoli abbiano contezza, riguarda la creazione del “grande mercato transatlantico”, mirato a far sorgere una immensa area di scambio tra Nord America e zona euro, naturalmente a tutto vantaggio degli Usa.
Il trattato, infatti, porterebbe alla abrogazione delle norme sanitarie europee, implicante la fine della “denominazione d’origine controllata” e l’immissione, tra le altre cose negative, degli OGM.
Per non parlare dell’invasione della produzione culturale e audiovisiva dell’industria statunitense, in grado di influenzare perniciosamente l’immaginario dei popoli.
Il paternariato transatlantico riaffermerebbe, in questo modo, la leadership occidentale su un mondo multipolare, nel quale sta emergendo la potenza cinese.

Pertanto, la ragione dello stato presente delle cose, è da leggersi nella de-sostanzializzazione generalizzata del Capitale, cui si accompagna la de-tradizionalizzazione universale dei rapporti umani e sociali.
Sotto il profilo antropologico ed esistenziale, assistiamo all’accelerazione dei processi tipici del mondo liquido, analizzato a suo tempo da Bauman, nel quale la “religione” dell’io narcisistico poggiante sul perseguimento, a tutti i costi, del mero desiderio, ha svuotato l’egemonico individuale.

Gli uomini sono divenuti malleabili e suggestionabili, e il loro status, non solo giuridico e sociale, è ora più precario e nomadico. 

I popoli, a causa del dominio incontrastato della ricerca del profitto, sono stati dimidiati, sono semplici clientele, prive della luce interiore.

La stessa percezione dello spazio e del tempo si è modificata, come mostra il continuo riferirsi dei media alla “cittadinanza mondiale”. 

Espressione senza senso, in quanto: “…non vi è democrazia possibile, se non all’interno di frontiere territoriali determinate, perché è solo in un quadro del genere che è possibile la distinzione tra cittadini e non cittadini” (p. 100). 

La società gassosa, questa la definizione debenoistiana, vede il diffondersi dell’endemico “polemismo”, un conflitto irrefrenabile che cova sotto e oltre la dimensione del mero consumo, in conseguenza del fatto che un quarto della popolazione europea (circa 120 milioni di individui), è a rischio povertà.

Con la crisi, ricorda il pensatore, è crollato davvero un mondo, un’epoca del capitalismo fondata sulle tutele dello Stato Sociale.
Al di là dei rimpianti e del  piagnisteo, oggi assai diffusi anche negli ambienti intellettuali oppositivi al sistema, è necessario tornare a pensare per poter agire politicamente.

In questo senso, il libro del filosofo è uno strumento prezioso per quanti ritengano si debba operare per un Nuovo Inizio. 

Infatti, con Heidegger egli sa che: “…il ripiego sulla tradizione da solo non può fare null’altro, se non portare alla fuga e alla cecità davanti all’esistente istoriale” (p. 25).

E’necessario    contrapporre alle politiche d’austerità, scelte protezionistiche.

I fatti hanno chiarito drammaticamente l’inesistenza di un pensiero economico “puro” e, in alternativa alla prassi neo-liberista, è essenziale ri-localizzare produzione e consumi.

Nello specifico, in Europa, l’euro potrebbe rimanere la divisa di riferimento per gli scambi internazionali, ed essere affiancata per i mercati interni, dal ritorno delle monete nazionali.
La cosa allo stato attuale, pare a de Benoist auspicabile ma improbabile.
Comunque, il pensiero del Nuovo Inizio deve farsi latore del recupero delle appartenenze, del passato storico dei popoli d’Europa.

Soprattutto, sarà dirimente acquisire la consapevolezza che non è sufficiente volere un altro mondialismo, un mondialismo riformato.

Si tratta, al contrario, di comprendere la necessità di una contestazione globale dei valori dell’economicismo liberale universalista, di quello che Marx definì il mondo del “meretricio” universale.

Concordiamo con Baudrillard quando scrive che: “ … si tratta di uno scontro, quasi antropologico, tra una cultura universale indifferenziata e tutto ciò che, in qualsiasi contesto, conserva qualcosa di irriducibile” (p. 113).


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