Expo non è limitato
a un periodo di tempo, non è circoscritto ad una determinata
regione, Expo è stato l’emblema di un sistema di gestione dei territori
che travalica la territorialità del qui ed ora, che sfrutta la
logica del grande evento, dello stato di eccezione, per mettere i
suoi tentacoli in ogni angolo della metropoli e della società:
dall’alimentazione al lavoro, passando agli umilianti discorsi
rispetto al ruolo della donna, alla consegna della città alla
speculazione edilizia e alla corruzione.
Expo non ha inventato nulla,
raccoglie e istituzionalizza percorsi d’attacco ai diritti, alla
vita, al futuro che da anni subiamo.
Expo è un modello di
governance, uno strumento del capitale, quindi è un acceleratore di
processi neoliberali che vanno dal superamento dello stato nazione e
delle sue rappresentazioni sotto forma di democrazia rappresentativa,
alla speculazione e all’esproprio di ricchezza dal territorio e di
sfruttamento delle vite, passando per l’imposizione della logica
del “privato”.
A queste parole sono corrisposte vicende, fatti e inchieste che Expo ha generato e che hanno confermato quanto affermiamo da tempo: Expo non è un’opportunità ma un problema e una minaccia non solo per Milano ma per l’intero Paese.
GREENWASHING
Attraverso la
mistificazione delle idee di ecologia e di sostenibilità e
dell’importanza di un’alimentazione sana, Expo si è tinto di verde,
con la green economy e il greenwashing, per mascherare l’ipocrisia
di un approccio al tema tutto interno al modello economico
neoliberista, in continuità con esso nel promuovere le politiche
legate agli investimenti di multinazionali dell’alimentazione, del
biologico a spot e dell’agricoltura intensiva ed industriale.
Un
evento, a sentire la propaganda, così dedito alla natura e
all’ecologia che avrebbe dovuto favorire i piccoli contadini ed un
rapporto diretto con la terra, basato sull’acquisto solidale,
la vendita diretta, il chilometro zero, la diffusione del biologico
all’intera popolazione, in definitiva l’accesso per tutti al
cibo.
Tuttavia, è bastato dare
un’occhiata a sponsor e aziende partner di Expo per comprendere
l’ipocrisia dei discorsi ufficiali.
La partecipazione delle
principali multinazionali dell’industria alimentare (basti pensare
a McDonald’s) e della grande distribuzione; l’investimento
sull’evento da parte di colossi dell’agroindustria che detengono
il monopolio sulla mercificazione delle sementi e la gestione di
quelle geneticamente modificate (e che moltiplicano in questo modo
rapporti di dipendenza dei paesi economicamente più indigenti verso
quelli più ricchi); il supporto alle politiche di sfruttamento
intensivo dei terreni e il sostegno ad un’agricoltura di tipo
industriale, che segue le regole del mercato schiacciando l’attività
agricola rurale, sono tutti elementi che raccontano un modello che
nulla ha a che fare con il “ritorno alla terra”.
Un concetto, sia
chiaro, emerso in funzione della cattura, all’interno della
ragnatela di Expo, dei soggetti socialmente attivi sul tema, attirati
da un immaginario, frutto di una banalizzazione e d’un
appiattimento, utile più a vendere un prodotto che a risolvere
problemi o presentare alternative.
Coca-Cola,
McDonald’s, Nestlé, Eni, Enel, Pioneer-Dupont, Selex-Es, e altre
aziende sponsor dei padiglioni nazionali, hanno rappresentato alcune delle
aziende responsabili dell’inquinamento di terre e mari, di
deforestazioni, di nocività e morti sul lavoro, di allevamenti come
campi di concentramento, di armi da guerra e di nuove tecnologie di
controllo utilizzate sia in ambito militare che civile, non certo
modelli da imitare.
E la propaganda di
Expo non ha potuto nascondere le reali conseguenze di questo grande
evento: enormi colate cemento sui campi agricoli inglobati dalle aree
espositive col contentino di seminare qualche mq in città, decine di
chilometri di nuovi percorsi autostradali su aree agricole o parchi,
con il taglio di migliaia di piante e la distruzione di habitat,
opere tanto edonistiche quanto nocive per l’ambiente e inutili per
la società.
CIBO
L’alimentazione è
stata il tema principale di Expo, ma il modo in cui è stata affrontata distorce
volontariamente alcuni concetti chiave in materia agroalimentare.
Expo è stato un evento-ponte per modellare il vestito nuovo del
neo-capitalismo, la green economy che usa concetti come “benessere
animale” o “sovranità alimentare” per darsi credibilità.
È evidente quanto
il modello Expo sia lontano dal concetto di sovranità alimentare,
visto il supermarket del futuro proposto da Coop e M.I.T. e basato
sul “consumatore integrato”, cioè un individuo con un conto
corrente e la disponibilità di tecnologia di ultima generazione per
poter scegliere il cibo, informarsi sull’intera filiera produttiva
e riceverlo a casa con i droni.
Da buon magnate democratico Expo ha
pensato anche a chi non potrà permettersi questo prospero futuro e
ha aperto i suoi spazi a McDonald’s, probabilmente il colosso
alimentare più cancerogeno e schiavista al mondo.
La formula
“benessere animale”, recuperata della propaganda Expo e ripetuta
come un mantra dai suoi partners alimentari, è un mal celato
tentativo linguistico di edulcorare i drammatici processi
dell’allevamento.
Sappiamo bene che è un concetto inventato per
rendere più accettabile la catena di smontaggio da individui a cibo,
in modo da confortare i consumatori, oggi apparentemente consapevoli
e attenti all’intero processo dell’alimentazione.
Riteniamo che
non è importante quanto gli animali da reddito vivano bene, come
crede di insegnare Slow Food, ma è importante che ognuno di loro
possa autodeterminare la propria esistenza e il proprio habitat e lo
si sganci dal considerarlo come merce produttiva all’interno di un
modello alimentare antropocentrico.
FREE JOBS
“Nutrire il
Pianeta, Energia per la vita” quindi, uno slogan che in superficie
tratta nella maniera appena descritta il tema dell’alimentazione,
ma nel profondo funge da alibi dietro cui si nascondono il cemento
dei piani di gestione del territorio nazionale e in cui si sostanzia
una precarietà lavorativa, che oltrepassa la dimensione della crisi
e diventa dispositivo strutturale per giustificare le politiche di
austerity che sottendono al sistema capitalista e alla sua
sopravvivenza.
Expo si è fatto quindi
laboratorio di sperimentazione di nuove politiche sul lavoro che
hanno, da una parte lo scopo di anticipare le legislazioni che
riguarderanno tutto il paese, e che in gran parte il Jobs Act ha già
realizzato, dall’altra quello di garantire un evento in cui la
redistribuzione della ricchezza è assente o riservata solo a chi sta
in cima alla piramide.
Attraverso deroghe al patto di stabilità e
accordi con i sindacati confederali, veniva sancito, con Expo, lo
stravolgimento del lavoro a tempo determinato. Permettendone la
somministrazione incontrollata e il rinnovo del 100% del personale
utilizzabile tra un contratto e l’altro, si abbassava la percentuale
di assunzione dopo il periodo di apprendistato, si determinavano
condizioni di stage che poco hanno a che fare con l’ambito
formativo e che invece riguardavano direttamente lo sfruttamento
lavorativo.
Ciliegina sulla
torta di Expo è stato l’esercito di volontari ottenuto grazie ai
suddetti accordi che permettono ad aziende e datori di lavoro di
servirsi del lavoro gratuito.
All’inizio 18500 persone solo sul
sito, poi fermi a 7000 per carenza di candidature, poi cifre di cui
diventa difficile comprendere il fondamento.
Quel che è certo è che
i volontari erano la tipologia prevalente di manodopera per Expo.
È
la ramificazione nella ramificazione: per Expo si cercavano lavoratori
disoccupati da inserire nei processi di perenne occupabilità, per
Expo hanno lavorato gratuitamente i Neet e gli studenti medi e
universitari, cui vengono imposti progetti e lavori con il ricatto
del voto finale, della maturità, della promozione o del “fare
curriculum”.
Con Expo veniva
quindi esplicitato l’obiettivo delle politiche lavorative delle
ultime due decadi: da lavoratori a tempo indeterminato si è
costretti ad accettare qualsiasi forma di tempo determinato;
politiche che hanno portato a una crescente precarietà culminante,
ora, nello sfruttamento tout court.
Con Expo è continuata l’economia
della speranza rivolta al lavoro, per cui la condizione di sognare un
futuro prima o poi stabile parte già dal mondo della formazione e si
materializza nel tempo sempre più come un miraggio irraggiungibile,
mentre si alimenta il sistema di liberalizzazione del mercato del
lavoro attraverso l’impiego di agenzie interinali come Manpower,
macchine di precarizzazione che agiscono sui territori da tempo.
Una
speranza che, in fondo al percorso, diviene ricatto e minaccia
d’esclusione sociale, agito per rimpolpare un esercito di riserva
mai così numeroso.
SOCIAL?
Expo è stato al contempo,
quindi, l’emblema di una fabbrica di sogni e di immaginari, e una
farsa.
Le promesse di un futuro migliore, la “pulizia” e
l’eticità attraverso la categoria del “biologico&tradizionale”,
“buono, sano e giusto”, diceva Expo dopo aver fagocitato Slow Food
e con esso l’operazione “Expo dei Popoli”.
Questo contenitore
di oltre 40 ONG, associazioni e reti contadine ha voluto cavalcare
“l’occasione” del grande evento, ma attraverso le sue
rappresentanze non ha espresso una critica alla squallida speculazione
sul vivente messa in campo dal grande evento, giustificando e
legittimando così tutte le logiche di cui Expo si è fatto vetrina.
Non ci
si può dire contro, dichiararsi per la sostenibilità ed essere
stati complici di Expo 2015.
Non contento di aver
fagocitato senza particolari resistenze questa fetta di mondo
associativo e di società civile, che si dice attenta alle
“compatibilità”,
Expo ha rilanciato con il tentativo di creare una
piattaforma sensibile alle questioni di genere.
In un primo momento
il carattere “gay friendly” di Expo, con la volontà di creare
una gay street in via Sammartini e di presentare uno scenario attento
al mondo della diversità di genere, ha fatto ben sperare tutto quel
giro di locali e affini che speculano sulle identità, e tutti i
sinceri democratici che han creduto in un’apertura sociale del
grande evento.
Ma le carte in tavola si sono scoperte velocemente: la
denuncia del processo di ghettizzazione alla base della creazione di
luoghi “per gay” e il patrocinio di Expo ad un evento omofobo nel
gennaio 2015, hanno svelato la vera natura di Expo rispetto alle
questioni di genere e l’uso strumentale delle stesse.
Tale natura
viene confermata anche dalla creazione di un portale “Women for
Expo” che diffonde una rappresentazione della donna come nutrice,
cuoca e madre, parametri funzionali alla conferma di immaginari che
vedono la donna relegata ad un unico ruolo e subalterna ai meccanismi
di governo della società e dei territori.
IL PARADIGMA
Milano è diventata
il laboratorio di un paradigma che vuole imporre un modello di
sviluppo e governance che trasforma irreversibilmente e in modo
lesivo la società e i territori.
Vediamo la nostra città
trasformata, modellata per farla diventare una bomboniera da vetrina,
facendo tabula rasa della memoria dei quartieri popolari e del verde
cittadino.
Un modello che prevede l’accumulo di ricchezza a favore
di quei pochi che regolano il gioco del settore edilizio o che
gestiscono in generale le eccedenze di profitto; ci sottraggono
territorio, beni comuni, servizi, reddito per darli in pasto ai
grandi squali dell’edilizia o della finanza, mentre le aziende
appaltanti intascano mazzette.
Lo scenario dell’Expo era allestito
per far da copertura a queste operazioni e mettere in moto un nuovo
dispositivo predatorio.
Questa è la
crescita tanto decantata dalla Troika.
Questo il tipo di progresso
che si sta promuovendo: un avanzare effimero che serve a rigenerare
la finanziarizzazione di beni e servizi e la sottomissione di regole
e priorità alle esigenze del mercato, applicate in tutti i settori,
perfino nell’immaginario, per darsi autogiustificazione.
Il
paradigma Expo vorrebbe continuare a costruire un mondo che si è già
dimostrato superato, protagonista della crisi iniziata nel 2007, e
che cerca di rialzarsi calpestando le sue stesse macerie.
L’ATTITUDINE
NOEXPO
Il rifiuto di questo
modello e il suo superamento nella propulsione di altre logiche sta
alla base dei nostri ragionamenti e porta la rete dell’Attitudine
NoExpo a individuare le seguenti priorità:
• Fermare
l’estrazione di risorse e lo smantellamento dei servizi e dello
stato sociale per promuovere la tutela del bene comune e del bene
pubblico.
• Riaffermare la
sostenibilità della vita attraverso l’abbattimento della
precarietà, l’attenzione all’utilità del lavoro e alla sua
retribuzione. Combattere la precarietà come dato acquisito e
destinare, ad esempio, le risorse finanziarie dedicate a questi
eventi ai settori lavorativi messi in ginocchio dalle nuove
legislazioni.
• Trovare nella
lotta ad Expo la possibilità di un fronte sociale comune, bloccando
immediatamente la logica del lavoro gratuito in favore di quella del
reddito garantito.
• Promuovere la
cura dell’educazione e della formazione che devono tornare a
focalizzarsi sullo scambio di saperi e non sulla compravendita di
energie da impiegare nel mercato seguendo bisogni determinati
unicamente da logiche di consumo. Ripartire dalla scuola, contestando
con forza tutte le forme di aziendalizzazione della formazione
pubblica e i meccanismi di falsa meritocrazia che sviliscono la
qualità dell’insegnamento trasformato in una competizione senza
fine.
• Ripartire dal
sostegno ai piccoli agricoltori e al biologico per tutti e non solo
per la ricca élite che si può permettere Eataly.
• Ripensare ad un
rapporto equiparato tra le specie che popolano terre, acque, cielo,
in prospettiva del superamento della prevaricazione di una
popolazione sull’altra e della specie umana su tutte le altre.
• Affermare
immaginari che ribaltino quelli di una società machista, maschilista
e patriarcale, che svelino la ricchezza e la pluralità dei generi
oltre il binarismo della categorizzazione imposta.
• Tutelare il
diritto alla città, salvaguardando in primo luogo i parchi di Trenno
e delle Cave che potrebbero subire, a causa di Expo, trasformazioni
strutturali che porterebbero alla parziale distruzione di uno dei
polmoni più importanti di Milano e metterebbero a repentaglio la
vivibilità della zona.
• Riappropriarsi
della città, della memoria dei sui luoghi, della ricchezza dei suoi
parchi, della possibilità di vivere liberamente il territorio
urbano.
• Il carattere
estemporaneo di Expo rivela la necessità di una battaglia che non si
esaurisce né inizia con il primo maggio, il primo maggio viene
assunto come momento centrale di un percorso che si è articolato
prima e si articolerà dopo la chiusura del megaevento.
Questa è
l’Attitudine No Expo: un approccio a questo modello che sappia
rispondere tentacolo per tentacolo e crei iniziativa, azione,
(ri)creazione oltre alla mera contrapposizione.
COSA VOGLIAMO
In questo periodo
contraddistinto da una liquidità sociale senza precedenti, Expo è
stato emblema “del nemico”, di tutte le lotte che ci accomunano.
La
nostra forza sta nella capacità di riconoscerci soggettività,
inseribili in una globalità che modelleremo solo se sapremo metterci
in discussione per tessere nuove reti di espressione, di crescita e
sviluppo di lotte, saperi, percorsi e pratiche.
Il superamento di
Expo è una scommessa, vogliamo creare un’agenda
politica che ci permetta di intrecciare le lotte territoriali,
nazionali e internazionali e sviluppare quelle connessioni tangibili,
che non si esauriranno in una manciata d’ore nei giorni della
“grande” inaugurazione, e che sono condizione necessaria per dare
gambe e respiro a una lunga stagione di lotta.
Testo rivisitato e corretto

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