È l’aspirazione a prevedere una misura universale e incondizionata di
protezione sociale attraverso la quale ciascuna persona residente in
una determinata società politica riceve regolarmente dalle istituzioni pub-
bliche una somma di denaro sufficiente a condurre un’esistenza degna.
Garantirebbe la tutela dello Ius existentiae, per questo sarebbe meglio
chiamarlo “reddito di esistenza”, «revenu à vie», reddito a vita, «revenu so-cial» svincolato dal tempo di lavoro, come lo definiva André Gorz nel suo
libro Les chemins du paradis (1983).
Si diceva che è “un’aspirazione”, perché in tutto il mondo solo lo Stato di Alaska, dal 1982, redistribuisce a tutti i suoi cittadini residenti, inclusi i bambini, un dividendo annuale (Permanent Fund Dividend ) che nel 2016 ammontava a poco più di mille dollari a testa, frutto dei proventi dell’estrazione del petrolio.
Il tema del reddito di base universale ha una sua storia plurisecolare che lega dibattiti e lotte per l’emancipazione individuale e la solidarietà collet-
tiva intorno alle diverse ipotesi di garanzia di un reddito (dividendo sociale, basic income, allocation universelle, reddito di cittadinanza, etc.), dalla vi-
sione umanista di Thomas More nel XVI secolo, a quella libertaria e solidale di Philippe Van Parijs nel passaggio di millennio.
Dalla previsione dei “soccorsi pubblici” nei testi e nelle pratiche costituzionali in Europa dopo il 1789, alle misure universali di sostegno al reddito in alcuni dei modelli sociali del secondo Novecento, a partire dal reddito minimo garantito, contro l’esclusione sociale.
Fino all’attuale confronto intorno al Basic Income come assicurazione sulla vita al tempo dei robot (Basic income as an insurance policy for the robot takeover).
C’è una peculiarità tutta italiana di rimanere spesso al di fuori di questi dialoghi e pratiche, se si eccettuano rari, e poco conosciuti, tentativi.
Per questo è necessario inaugurare nuovi spazi di intervento pubblico e invenzione istituzionale per sperimentare le diverse ipotesi di reddito di base
inteso come diritto sociale e di libertà basilare nell’età digitale, ai tempi della
democrazia dell’algoritmo.
Legandolo con un progetto di trasformazione sociale ed istituzionale che abbia come altri due elementi centrali l’investimento pubblico su un nuovo concetto di istruzione, con taglio intergenerazionale e in dialogo con la «seconda ondata del capitalismo cognitivo» e dell’età delle macchine (Big Data, Internet of Things, robotica, intelligenza artificiale, machine learning, industria 4.0, stampanti digitali 3D, etc.) e sul favorire attività e competenze che concorrono al progresso dell’umanità
(transizione energetica, economia circolare, salute e benessere sociale, questione ecologica, alimentare, climatica, etc.) .
E sarebbe davvero curioso se questi spazi di pensabilità collettiva di nuova organizzazione sociale, a partire da un reddito di base, dovessero trovare un nemico proprio nelle istituzioni pubbliche.
O anche nelle forze culturali e politiche solitamente più sensibili alla diffusione di progresso e inclusione sociale.
L a m i s e r i a i t a l i a n a : W o r k f a r e e l e g g i s u i p o v e r i
Così si ritorna alla miseria italiana e al suo “dibattito” che sembra avvitato
in una caricaturale macchietta, sospeso in un alone di nostalgia per un la-
voro che si svolge sempre meno nelle forme tradizionali e cambia sempre
più, sospeso com’è tra gratuito neo-servilismo, cooperazione sociale in as-
senza di retribuzione, vita indebitata e messa al lavoro, penuria di impieghi
tradizionali, capacità di contribuire alla ricchezza sociale prodotta senza
passare per le tradizionali mediazioni del “secolo del lavoro”.
E allora da parte delle classi dirigenti si risponde con la proposta di introdurre un “lavoro di cittadinanza”, visione che accomuna progetti presentati dalla CGIL (fino a un milione di posti di lavoro di cittadinanza!), altre ipotesi ancora non poco chiarite da parte dell’ex-Presidente del Consiglio Matteo Renzi e prospettive suggerite in precedenza anche da Renato Brunetta, già
Ministro nell’epoca berlusconiana del “milione di posti di lavoro in più”;
strana assonanza con le sirene sindacali.
Un rumore di fondo che dal tentativo di ricerca di un benessere sociale nel Welfare ci conduce al lavoro permanente nel Panopticon del Workfare statale.
Così la nuova legge sulla povertà assoluta, approvata il 9 marzo 2017, è ri-
volta a famiglie con un reddito ISEE sotto i 3 mila euro annui (DdL AS 2494,
Delega recante norme relative al contrasto della povertà, al riordino delle
prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali), si inserisce
sulle orme della Social Card (carta acquisti) del Governo Berlusconi (2008)
e vincola l’erogazione di una non meglio quantificata entità monetaria al-
l’adesione da parte del beneficiario ad un “progetto personalizzato di atti-
vazione e di inclusione sociale e lavorativa”, anche questo ancora del tutto
indefinito.
Il messaggio è chiaro: chi è già in condizioni di esclusione sociale e povertà assoluta deve dimostrare di meritarsi il sostegno economico
(prevedibilmente modico), dichiarandosi disponibile al lavoro.
È una nuova legge sui poveri, che miscela paternalismo e Workfare, al posto di emancipazione e Welfare.
L’inclusione passa per il ricatto del lavoro, giocando su quel «doppio legame vizioso», descritto dal formidabile intelletto che ha deciso di lasciarci troppo presto di Mark Fisher (Buono a nulla, Good for Nothing), imposto ai disoccupati di lunga durata nel Regno Unito: essere considerati per tutta la vita dei “buoni a nulla”, eppure sempre pronti e di- sponibili a fare qualsiasi cosa per meritare “i sussidi”.
Dinanzi a quello che viene percepito come “l’incubo delle macchine che prendono il posto dell’uomo”, nei tempi austeri di “sacrifici” mai messi in discussione per le classi (in-)operose e di rischio esclusione sociale sempre più ampio, si reagisce con schemi mentali retaggio di un’epoca passata, quella di leggi che mortificano i poveri e di una ancestrale diffidenza nei confronti dell’innovazione sociale e tecnologica.
Il reddito di base per ripensare le garanzie sociali e le forme dei molteplici lavori, attività e imprese autonome e collettive contro le secche alternative del moderno, che riducono lo Stato e il mercato all’individuo predatorio e al
pubblico parassitario, subordinando le persone al ricatto del lavoro (oramai
povero, squalificato, immiserito, etc.) e alla sua mancanza.
Si tratta di reinventare la modernità, forse proprio a partire dalle possibi-
lità sopite in questo Paese, lasciandosi guidare dall’accelerazione digitale
delle nuove generazioni e da quell’indomita esigenza di autonomia, indi-
pendenza, solidarietà e condivisione che storicamente attraversa lo sguardo
mediterraneo verso il futuro e le altre sponde del mondo.
Provare a pensare concretamente le invenzioni dell’ingegno umano come strumenti collettivi per risparmiare fatica, guadagnare in libertà delle scelte e dei tempi di vita, facendo affidamento in quel dialogo intergenerazionale che porterà i nostri figli e nipoti a domandarci, riprendendo il Philippe Van Parijs riportato all’inizio di questo intervento: «come avete potuto vivere senza reddito di base?».
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