La globalizzazione sta accentuando l’avanzata delle economie tecnologico-informatiche in tutto il mondo, aumentando il rischio soprattutto per i lavoratori.
Numerose istituzioni socioeconomiche sono diventate “zombie”, vivono ma non funzionano come si deve.
La domanda di lavoratori specializzati sta superando l’offerta; al tempo stesso, molti lavoratori sollevati da incarichi meno tecnologici non sono riqualificati abbastanza velocemente, mentre altri non sono neanche preparati per la riqualificazione.
“La sicurezza del posto di lavoro” è una cosa che appartiene al passato.
A un certo momento, praticamente tutti si troveranno a dover cercare un lavoro fra le attività non tradizionali.
Questa situazione implica un passaggio dal lavoro dipendente al “lavoro cittadino” e richiede nuove istituzioni per far rientrare tutti i cittadini in attività che la comunità apprezza ritenendole auspicabili.
All’obiettivo della società della “piena occupazione” deve subentrare quello di una società del “lavoro multiplo” perché ogni cittadino abbia un senso e un posto in un ambiente sempre più a rischio.
Il processo di globalizzazione dovrà superare numerose “istituzioni zombie” che sono “morte” ma ancora funzionanti e non possono essere “messe da parte” facilmente.
Non sono adatte a un’economia mondiale aperta ma verranno mantenute da coloro che le hanno trovate utili in economie orientate verso l’interno della nazione.
Esse rappresentano un ostacolo di fondo alla comprensione delle dinamiche e delle sfide del nostro tempo.
L’istituzione zombie che trovo più problematica è quella della “piena occupazione”. È stata per decenni un principio per gli economisti ed è stata istituzionalizzata mediante la legislazione che la imponeva come politica obiettiva per la gran parte dei paesi aderenti all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE).
La piena occupazione nella politica europea
La maggiore questione nella politica europea della quale potremo star certi ancora per un bel pezzo è il modo di raggiungere la piena occupazione. Se il principale sistema in fase di globalizzazione si presume debba essere il capitalismo classico, la stessa priorità si presenterà in futuro. Eppure, dati gli alti tassi di disoccupazione nel secondo, terzo e quarto mondo, la frustrazione sarà forte e persistente. Le pressioni del benessere renderanno più profonda quella frustrazione perché la piena occupazione è considerata la chiave per la riforma dello stato sociale. È percepita come la chiave per una potente sinistra politica in Europa che presuppone che attirerà un largo appoggio popolare.
Ma è proprio questa politica della piena occupazione a essere uno zombie. Quella che sta crescendo rapidamente in tutto il mondo è la categoria del lavoro precario, fragile: che vuol dire flessibile, lavoro autonomo, lavoro con contratto a breve termine o del tutto senza contratto socialmente e geograficamente separato e differenziato. Per citare Ralph Dahrendorf: «È lavoro, Jim, ma non come lo conosciamo».
La velocità e la portata di questa trasformazione è già notevole e stanno subendo un’ulteriore accelerazione per via del processo di globalizzazione.
La disoccupazione è il prodotto di una società del lavoro regolare.
Nei secoli precedenti non si aveva idea di questo: di fatto esistono ancora alcune società che non hanno una parola per “lavoro” dal momento che uomini e donne si limitano semplicemente a compiere certi compiti o funzioni come allevamento, caccia, pesca, raccolta, tessitura, cura dei figli e cucina. Più di qualsiasi altra cosa, il concetto di lavoro contrattualizzato e separato è stato definito dalla rivoluzione industriale, che ha compartimentato il lavoro dalla vita familiare quotidiana. La separazione del “lavoro” o della “manodopera” fu rafforzata dalla precoce osservazione che i poveri non avevano un lavoro formale.
L’ascesa dello stato assistenziale era un tentativo di rimediare al mancato reddito dell’assenza di occupazione nel senso classico. Il concetto di piena occupazione era così importante che per i classicisti che costoro non potevano concepire un sistema senza di esso. Fu solo quando Keynes pubblicò la sua Teoria Generale che l’Occidente fu costretto ad affrontare le conseguenze teoretiche e politiche di quello che si vedeva in realtà.
Riflessività e rischio
Vediamo questo discorso in modo un po’ più sistematico, specialmente per quanto riguarda la riflessività e il rischio che ne risultano. Sono entrambi concetti chiave per comprendere le realtà del lavoro e della vita, ed entrambi stanno emergendo come le nuove caratteristiche della “modernizzazione riflessiva” della società del lavoro.
1. Riflessività come fonte di produttività: La caratteristica evidente del lavoro basato sulla conoscenza è l’applicazione autonoma della conoscenza alla conoscenza come fonte fondamentale di produttività. È questo scambio costante tra innovazioni tecnologiche basate sulla conoscenza e la loro applicazione per creare nuove tecnologie e nuovi prodotti basati sulla conoscenza che non solo mettono in moto e fanno funzionare la spirale della produttività della società della conoscenza, ma addirittura la accelerano.
2. La dinamica transettoriale: Nella transizione alla società della conoscenza non ha creato alcun nuovo settore di produzione. Invece l’incremento della produttività legati alla conoscenza permea e modifica tutti i settori della produzione – agricoltura, industria e servizi – e dissolve la distinzione tra beni e servizi. Nelle società postindustriali o di servizio, la distinzione tra primario, secondario e terziario sta diventando una distinzione zombie.
3. Deterritorializzazione del lavoro: Chiunque tenti di interpretare le dinamiche di una società della conoscenza in termini di presupposti e categorie del vecchio paradigma del lavoro sottovaluta il suo potenziale autenticamente rivoluzionario. È rivoluzionario perché offre la possibilità di una connessione a presa diretta tra vari generi di attività: sviluppo, produzione, amministrazione, applicazione e distribuzione. Il risultato, comunque, è la dissoluzione del paradigma del vecchio “contenitore” territoriale della società industriale. Così la produzione di software si concentra negli istituti di ricerca in India da ogni parte del mondo. Al tempo stesso c’è un moltiplicarsi delle opzioni, che richiedono decisioni ed esigono la standardizzazione. Come conseguenza di ciò, il determinismo tecnologico viene contestato dalla stessa tecnologia informatica.
La produzione di massa di stile fordista andava bene per una società standardizzata.
Con l’avvento del regime di rischio, ci si aspetta che la gente adatti il proprio programma di vita individuale, la mobilità e le forme di autonomia alla società basata sull’informatica e sul mutamento tecnologico.
Il nuovo ceto medio diventa il ceto medio precario. La povertà diventa “dinamica”, il che vuol dire che viene spezzettata nelle varie fasi della vita e distribuita fra tutti i ceti come entrano ed escono dal flusso dell’attività economica.
Per contro il tempo flessibile e gli incarichi di lavoro precari diventano il perno della razionalizzazione in corso e degli aumenti di produttività in tutte e tre le dimensioni del lavoro: orario, sede e contratto. I risultati sono che il regime di rischio abbraccia e trasforma in misura sempre maggiore le condizioni di vita e di lavoro. Questo avviene non solo nel settore del lavoro non specializzato, ma anche in aree che richiedono personale altamente qualificato.
L’economia politica dell’incertezza è innanzitutto un’espressione del nuovo gioco di potere tra giocatori legati al territorio quali da una parte la forza lavoro, dall’altra i governi, i parlamenti, i sindacati e giocatori non legati al territorio quali il capitale e le forze finanziarie e commerciali.
Questo significa che il capitale diventa globale mentre la forza lavoro rimane in gran parte locale; in termini fisici, però, non di servizi: i servizi della forza lavoro sono altamente mobili, lo sono perfino quelli più qualificati ed educativi.
Da questo deriva la legittima impressione che lo spazio di manovra dei governi si sia ristretto alla scelta fra pagare per la crescente povertà con una crescente disoccupazione (come nella gran parte dei paesi europei) oppure accettare una cospicua povertà in cambio di una disoccupazione un po’ meno grave (come negli Stati Uniti).
Questo si ricollega al fatto che il lavoro ben retribuito e stabile sta diminuendo mentre aumentano gli esseri umani rimpiazzati dall’uso di tecnologie intelligenti. L’aumento della disoccupazione in Europa, dunque, non può più essere ascritto alle cicliche crisi economiche ma al successo di un capitalismo tecnologicamente avanzato. Questa “disoccupazione tecnologica” era stata prevista da decenni, non erano stati previsti invece né il lavoro multiplo per il lavoratore né l’incertezza del regime di rischio.
Il risultato è che l’economia politica dell’incertezza porta a un effetto domino. Se nei bei tempi andati la piena occupazione (nel senso classico), pensioni sicure e alto gettito fiscale, e le politiche dello stato erano complementari, ora si insidiano reciprocamente.
Il lavoro dipendente diventa precario e le basi dello stato sociale si stanno sgretolando. Ma questo altera anche la nostra concezione di inclusione ed esclusione, definite entrambe in base a ciò che è “costante” in un oceano di cambiamento: un lavoro regolarmente retribuito per tutti.
Di conseguenza, le strategie difensive ortodosse sono costrette ovunque ad andare in pensione. Da ogni parte si chiede “flessibilità”. In altre parole, a un “datore di lavoro” deve essere consentito di licenziare i suoi “dipendenti” più facilmente. “Flessibilità” significa anche una ridistribuzione dei rischi dallo stato e dall’economia ai singoli individui. I lavori disponibili possono concludersi facilmente con breve preavviso, cioè sono “rinnovabili”. Da ultimo, “flessibilità” significa “congratulazioni, le tue conoscenze e le tue abilità sono obsolete, e nessuno è in grado di dirti che cosa devi imparare per essere utilmente impiegato di nuovo”.
Sempre più persone vivono, per così dire, a metà tra le categorie della povertà e della ricchezza.
Il lavoro cittadino
Il lavoro ha sempre avuto il monopolio della capacità di determinare l’inserimento, è sempre stato il fattore che determina il ruolo e lo status di qualcuno all’interno di una società?
In realtà, è vero il contrario; nell’antica Grecia democratica, nell’India delle caste, nel Giappone e nella Cina di prima del diciannovesimo secolo il lavoro era stigmatizzato, era il principale simbolo di esclusione. Chi era costretto a lavorare, le donne delle caste inferiori e gli schiavi, non erano membri della società. Se gli antichi greci potessero ascoltare le nostre discussioni sull’esigenza antropologica di lavorare per essere un membro rispettato della società e un essere umano pienamente apprezzato riderebbero e non capirebbero una parola. Il sistema di valori che proclama l’importanza del lavoro e del lavoro soltanto per costruire e controllare una società inclusiva è un’invenzione moderna del capitalismo e dello stato sociale. La lingua della società del lavoro è l’esempio più radicale di come i presupposti antropologici nel corso della storia possono essere ribaltati.
Nella vita e nella politica di ogni giorno è necessario un cambiamento di prospettiva sul ruolo della forza lavoro di base in “astratto”. In concreto, esistono già molti segnali del fatto che sta avendo luogo. Al di là della disoccupazione e della tensione al lavoro c’è una vita, e si pone sempre maggiore enfasi sulla “qualità di vita” all’interno e all’esterno del posto di lavoro. Dobbiamo renderci conto che la penuria di lavoro dipendente significa abbondanza di tempo, e che lo stato sociale dev’essere ricostruito per prendere in considerazione il lavoro dipendente saltuario. Quello significa che i casi documentati di lavoro saltuario e di lavoro multiplo devono essere riconosciuti e protetti socialmente e legalmente. All’opposto della società del lavoro, tuttavia, non c’è la società del piacere ma la società del lavoro multiplo e una riforma dello stato sociale basata sul rischio della socializzazione.
La mia proposta si scontra a un ostacolo fondamentale. È la fondamentale inconciliabilità tra la partecipazione attiva alla democrazia e l’economia politica dell’incertezza. Nel contestare l’economia politica dell’incertezza, le istituzioni democratiche possono uscirne a loro volta danneggiate. Cito Zygmunt Bauman: «Lo scopo della repubblica non è d’imporre un modello preconcetto di “bella vita” ma di mettere in grado i cittadini di discutere liberamente i modelli di vita che preferiscono e metterli in pratica».
Una tesi che mi trova d’accordo è quella di Bauman: «La separazione del diritto acquisito al reddito da lavoro retribuito e del mercato del lavoro può aiutare la repubblica in un modo solo, ma essenziale: allontanando la tremenda minaccia dell’insicurezza dal paradiso della libertà.
Ma questa limitazione dei rischi e dei danni è proprio il più importante degli obiettivi del reddito di base».
Una visione in cui, passo dopo passo, la sovranità sull’orario e sulla concreta libertà politica nei centri di attività organizzati autonomamente prende il posto di una società basata sul lavoro salariato che la definisce si deve confrontare con infiniti dilemmi. Come si può organizzare la spontaneità? Chi pagherà per tutto questo? Farò solo un breve commento su quest’ultima impellente questione. In Europa, paradossalmente, vengono spesi miliardi di euro sotto forma di sussidi di disoccupazione e pagamenti assistenziali per retribuire il fatto di non lavorare. Allora perché non cercare appoggio con lo slogan «soldi per il cittadino e non per la disoccupazione»?
Da qui lo stimolo di una democrazia del lavoro cittadino è subordinata ai seguenti requisiti:
1. Una riduzione dell’orario di lavoro per tutti i lavoratori salariati a tempo pieno;
2. Tutti, uomini e donne, dovrebbero avere un piede nel lavoro salariato se lo desiderano; e
3. L’attività genitoriale, la cura dei figli, sarà riconosciuta dalla società proprio come lo sono l’attività artistica, quella culturale o il lavoro cittadino, nel senso che tutti, per esempio, danno diritto alla pensione e alla copertura sanitaria.
Stiamo vivendo in un’epoca in cui sperimentiamo la speranza tinta di disperazione.
La società del normale lavoro dipendente sta corrodendosi mentre sempre più persone vengono soppiantate dalle tecnologie intelligenti.
Tutto questo deve necessariamente condurre a una catastrofe? No, anzi, solo se è possibile trasferire alle macchine tutto il lavoro manuale sarà liberato tutto il potenziale creativo umano, consentendo agli esseri umani di fare dei piccoli passi avanti in direzione delle grandi questioni del futuro. Nessuno è in grado di prevedere se questo avverrà o meno; perché mai, dunque, essere del tutto pessimisti o al contrario del tutto ottimisti e non entrambe le cose allo stesso tempo? Per anticipare questa prospettiva di “democratizzazione della democratizzazione” nei decenni a venire si devono vivere e comprendere dei paradossi sconcertanti.
Traduzione dall’inglese di Dora Bertucci
Numerose istituzioni socioeconomiche sono diventate “zombie”, vivono ma non funzionano come si deve.
La domanda di lavoratori specializzati sta superando l’offerta; al tempo stesso, molti lavoratori sollevati da incarichi meno tecnologici non sono riqualificati abbastanza velocemente, mentre altri non sono neanche preparati per la riqualificazione.
“La sicurezza del posto di lavoro” è una cosa che appartiene al passato.
A un certo momento, praticamente tutti si troveranno a dover cercare un lavoro fra le attività non tradizionali.
Questa situazione implica un passaggio dal lavoro dipendente al “lavoro cittadino” e richiede nuove istituzioni per far rientrare tutti i cittadini in attività che la comunità apprezza ritenendole auspicabili.
All’obiettivo della società della “piena occupazione” deve subentrare quello di una società del “lavoro multiplo” perché ogni cittadino abbia un senso e un posto in un ambiente sempre più a rischio.
Il processo di globalizzazione dovrà superare numerose “istituzioni zombie” che sono “morte” ma ancora funzionanti e non possono essere “messe da parte” facilmente.
Non sono adatte a un’economia mondiale aperta ma verranno mantenute da coloro che le hanno trovate utili in economie orientate verso l’interno della nazione.
Esse rappresentano un ostacolo di fondo alla comprensione delle dinamiche e delle sfide del nostro tempo.
L’istituzione zombie che trovo più problematica è quella della “piena occupazione”. È stata per decenni un principio per gli economisti ed è stata istituzionalizzata mediante la legislazione che la imponeva come politica obiettiva per la gran parte dei paesi aderenti all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE).
La piena occupazione nella politica europea
La maggiore questione nella politica europea della quale potremo star certi ancora per un bel pezzo è il modo di raggiungere la piena occupazione. Se il principale sistema in fase di globalizzazione si presume debba essere il capitalismo classico, la stessa priorità si presenterà in futuro. Eppure, dati gli alti tassi di disoccupazione nel secondo, terzo e quarto mondo, la frustrazione sarà forte e persistente. Le pressioni del benessere renderanno più profonda quella frustrazione perché la piena occupazione è considerata la chiave per la riforma dello stato sociale. È percepita come la chiave per una potente sinistra politica in Europa che presuppone che attirerà un largo appoggio popolare.
Ma è proprio questa politica della piena occupazione a essere uno zombie. Quella che sta crescendo rapidamente in tutto il mondo è la categoria del lavoro precario, fragile: che vuol dire flessibile, lavoro autonomo, lavoro con contratto a breve termine o del tutto senza contratto socialmente e geograficamente separato e differenziato. Per citare Ralph Dahrendorf: «È lavoro, Jim, ma non come lo conosciamo».
La velocità e la portata di questa trasformazione è già notevole e stanno subendo un’ulteriore accelerazione per via del processo di globalizzazione.
La disoccupazione è il prodotto di una società del lavoro regolare.
Nei secoli precedenti non si aveva idea di questo: di fatto esistono ancora alcune società che non hanno una parola per “lavoro” dal momento che uomini e donne si limitano semplicemente a compiere certi compiti o funzioni come allevamento, caccia, pesca, raccolta, tessitura, cura dei figli e cucina. Più di qualsiasi altra cosa, il concetto di lavoro contrattualizzato e separato è stato definito dalla rivoluzione industriale, che ha compartimentato il lavoro dalla vita familiare quotidiana. La separazione del “lavoro” o della “manodopera” fu rafforzata dalla precoce osservazione che i poveri non avevano un lavoro formale.
L’ascesa dello stato assistenziale era un tentativo di rimediare al mancato reddito dell’assenza di occupazione nel senso classico. Il concetto di piena occupazione era così importante che per i classicisti che costoro non potevano concepire un sistema senza di esso. Fu solo quando Keynes pubblicò la sua Teoria Generale che l’Occidente fu costretto ad affrontare le conseguenze teoretiche e politiche di quello che si vedeva in realtà.
Riflessività e rischio
Vediamo questo discorso in modo un po’ più sistematico, specialmente per quanto riguarda la riflessività e il rischio che ne risultano. Sono entrambi concetti chiave per comprendere le realtà del lavoro e della vita, ed entrambi stanno emergendo come le nuove caratteristiche della “modernizzazione riflessiva” della società del lavoro.
1. Riflessività come fonte di produttività: La caratteristica evidente del lavoro basato sulla conoscenza è l’applicazione autonoma della conoscenza alla conoscenza come fonte fondamentale di produttività. È questo scambio costante tra innovazioni tecnologiche basate sulla conoscenza e la loro applicazione per creare nuove tecnologie e nuovi prodotti basati sulla conoscenza che non solo mettono in moto e fanno funzionare la spirale della produttività della società della conoscenza, ma addirittura la accelerano.
2. La dinamica transettoriale: Nella transizione alla società della conoscenza non ha creato alcun nuovo settore di produzione. Invece l’incremento della produttività legati alla conoscenza permea e modifica tutti i settori della produzione – agricoltura, industria e servizi – e dissolve la distinzione tra beni e servizi. Nelle società postindustriali o di servizio, la distinzione tra primario, secondario e terziario sta diventando una distinzione zombie.
3. Deterritorializzazione del lavoro: Chiunque tenti di interpretare le dinamiche di una società della conoscenza in termini di presupposti e categorie del vecchio paradigma del lavoro sottovaluta il suo potenziale autenticamente rivoluzionario. È rivoluzionario perché offre la possibilità di una connessione a presa diretta tra vari generi di attività: sviluppo, produzione, amministrazione, applicazione e distribuzione. Il risultato, comunque, è la dissoluzione del paradigma del vecchio “contenitore” territoriale della società industriale. Così la produzione di software si concentra negli istituti di ricerca in India da ogni parte del mondo. Al tempo stesso c’è un moltiplicarsi delle opzioni, che richiedono decisioni ed esigono la standardizzazione. Come conseguenza di ciò, il determinismo tecnologico viene contestato dalla stessa tecnologia informatica.
La produzione di massa di stile fordista andava bene per una società standardizzata.
Con l’avvento del regime di rischio, ci si aspetta che la gente adatti il proprio programma di vita individuale, la mobilità e le forme di autonomia alla società basata sull’informatica e sul mutamento tecnologico.
Il nuovo ceto medio diventa il ceto medio precario. La povertà diventa “dinamica”, il che vuol dire che viene spezzettata nelle varie fasi della vita e distribuita fra tutti i ceti come entrano ed escono dal flusso dell’attività economica.
Per contro il tempo flessibile e gli incarichi di lavoro precari diventano il perno della razionalizzazione in corso e degli aumenti di produttività in tutte e tre le dimensioni del lavoro: orario, sede e contratto. I risultati sono che il regime di rischio abbraccia e trasforma in misura sempre maggiore le condizioni di vita e di lavoro. Questo avviene non solo nel settore del lavoro non specializzato, ma anche in aree che richiedono personale altamente qualificato.
L’economia politica dell’incertezza è innanzitutto un’espressione del nuovo gioco di potere tra giocatori legati al territorio quali da una parte la forza lavoro, dall’altra i governi, i parlamenti, i sindacati e giocatori non legati al territorio quali il capitale e le forze finanziarie e commerciali.
Questo significa che il capitale diventa globale mentre la forza lavoro rimane in gran parte locale; in termini fisici, però, non di servizi: i servizi della forza lavoro sono altamente mobili, lo sono perfino quelli più qualificati ed educativi.
Da questo deriva la legittima impressione che lo spazio di manovra dei governi si sia ristretto alla scelta fra pagare per la crescente povertà con una crescente disoccupazione (come nella gran parte dei paesi europei) oppure accettare una cospicua povertà in cambio di una disoccupazione un po’ meno grave (come negli Stati Uniti).
Questo si ricollega al fatto che il lavoro ben retribuito e stabile sta diminuendo mentre aumentano gli esseri umani rimpiazzati dall’uso di tecnologie intelligenti. L’aumento della disoccupazione in Europa, dunque, non può più essere ascritto alle cicliche crisi economiche ma al successo di un capitalismo tecnologicamente avanzato. Questa “disoccupazione tecnologica” era stata prevista da decenni, non erano stati previsti invece né il lavoro multiplo per il lavoratore né l’incertezza del regime di rischio.
Il risultato è che l’economia politica dell’incertezza porta a un effetto domino. Se nei bei tempi andati la piena occupazione (nel senso classico), pensioni sicure e alto gettito fiscale, e le politiche dello stato erano complementari, ora si insidiano reciprocamente.
Il lavoro dipendente diventa precario e le basi dello stato sociale si stanno sgretolando. Ma questo altera anche la nostra concezione di inclusione ed esclusione, definite entrambe in base a ciò che è “costante” in un oceano di cambiamento: un lavoro regolarmente retribuito per tutti.
Di conseguenza, le strategie difensive ortodosse sono costrette ovunque ad andare in pensione. Da ogni parte si chiede “flessibilità”. In altre parole, a un “datore di lavoro” deve essere consentito di licenziare i suoi “dipendenti” più facilmente. “Flessibilità” significa anche una ridistribuzione dei rischi dallo stato e dall’economia ai singoli individui. I lavori disponibili possono concludersi facilmente con breve preavviso, cioè sono “rinnovabili”. Da ultimo, “flessibilità” significa “congratulazioni, le tue conoscenze e le tue abilità sono obsolete, e nessuno è in grado di dirti che cosa devi imparare per essere utilmente impiegato di nuovo”.
Sempre più persone vivono, per così dire, a metà tra le categorie della povertà e della ricchezza.
Il lavoro cittadino
Il lavoro ha sempre avuto il monopolio della capacità di determinare l’inserimento, è sempre stato il fattore che determina il ruolo e lo status di qualcuno all’interno di una società?
In realtà, è vero il contrario; nell’antica Grecia democratica, nell’India delle caste, nel Giappone e nella Cina di prima del diciannovesimo secolo il lavoro era stigmatizzato, era il principale simbolo di esclusione. Chi era costretto a lavorare, le donne delle caste inferiori e gli schiavi, non erano membri della società. Se gli antichi greci potessero ascoltare le nostre discussioni sull’esigenza antropologica di lavorare per essere un membro rispettato della società e un essere umano pienamente apprezzato riderebbero e non capirebbero una parola. Il sistema di valori che proclama l’importanza del lavoro e del lavoro soltanto per costruire e controllare una società inclusiva è un’invenzione moderna del capitalismo e dello stato sociale. La lingua della società del lavoro è l’esempio più radicale di come i presupposti antropologici nel corso della storia possono essere ribaltati.
Nella vita e nella politica di ogni giorno è necessario un cambiamento di prospettiva sul ruolo della forza lavoro di base in “astratto”. In concreto, esistono già molti segnali del fatto che sta avendo luogo. Al di là della disoccupazione e della tensione al lavoro c’è una vita, e si pone sempre maggiore enfasi sulla “qualità di vita” all’interno e all’esterno del posto di lavoro. Dobbiamo renderci conto che la penuria di lavoro dipendente significa abbondanza di tempo, e che lo stato sociale dev’essere ricostruito per prendere in considerazione il lavoro dipendente saltuario. Quello significa che i casi documentati di lavoro saltuario e di lavoro multiplo devono essere riconosciuti e protetti socialmente e legalmente. All’opposto della società del lavoro, tuttavia, non c’è la società del piacere ma la società del lavoro multiplo e una riforma dello stato sociale basata sul rischio della socializzazione.
La mia proposta si scontra a un ostacolo fondamentale. È la fondamentale inconciliabilità tra la partecipazione attiva alla democrazia e l’economia politica dell’incertezza. Nel contestare l’economia politica dell’incertezza, le istituzioni democratiche possono uscirne a loro volta danneggiate. Cito Zygmunt Bauman: «Lo scopo della repubblica non è d’imporre un modello preconcetto di “bella vita” ma di mettere in grado i cittadini di discutere liberamente i modelli di vita che preferiscono e metterli in pratica».
Una tesi che mi trova d’accordo è quella di Bauman: «La separazione del diritto acquisito al reddito da lavoro retribuito e del mercato del lavoro può aiutare la repubblica in un modo solo, ma essenziale: allontanando la tremenda minaccia dell’insicurezza dal paradiso della libertà.
Ma questa limitazione dei rischi e dei danni è proprio il più importante degli obiettivi del reddito di base».
Una visione in cui, passo dopo passo, la sovranità sull’orario e sulla concreta libertà politica nei centri di attività organizzati autonomamente prende il posto di una società basata sul lavoro salariato che la definisce si deve confrontare con infiniti dilemmi. Come si può organizzare la spontaneità? Chi pagherà per tutto questo? Farò solo un breve commento su quest’ultima impellente questione. In Europa, paradossalmente, vengono spesi miliardi di euro sotto forma di sussidi di disoccupazione e pagamenti assistenziali per retribuire il fatto di non lavorare. Allora perché non cercare appoggio con lo slogan «soldi per il cittadino e non per la disoccupazione»?
Da qui lo stimolo di una democrazia del lavoro cittadino è subordinata ai seguenti requisiti:
1. Una riduzione dell’orario di lavoro per tutti i lavoratori salariati a tempo pieno;
2. Tutti, uomini e donne, dovrebbero avere un piede nel lavoro salariato se lo desiderano; e
3. L’attività genitoriale, la cura dei figli, sarà riconosciuta dalla società proprio come lo sono l’attività artistica, quella culturale o il lavoro cittadino, nel senso che tutti, per esempio, danno diritto alla pensione e alla copertura sanitaria.
Stiamo vivendo in un’epoca in cui sperimentiamo la speranza tinta di disperazione.
La società del normale lavoro dipendente sta corrodendosi mentre sempre più persone vengono soppiantate dalle tecnologie intelligenti.
Tutto questo deve necessariamente condurre a una catastrofe? No, anzi, solo se è possibile trasferire alle macchine tutto il lavoro manuale sarà liberato tutto il potenziale creativo umano, consentendo agli esseri umani di fare dei piccoli passi avanti in direzione delle grandi questioni del futuro. Nessuno è in grado di prevedere se questo avverrà o meno; perché mai, dunque, essere del tutto pessimisti o al contrario del tutto ottimisti e non entrambe le cose allo stesso tempo? Per anticipare questa prospettiva di “democratizzazione della democratizzazione” nei decenni a venire si devono vivere e comprendere dei paradossi sconcertanti.
Traduzione dall’inglese di Dora Bertucci
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