Prima di tutto cosa significa anzitutto analfabeta funzionale?
A differenza dell'analfabeta strutturale, l'analfabeta funzionale sa leggere, scrivere e far di conto, il problema è che non capisce quello che legge o meglio, non ha gli strumenti analitici e critici per avvantaggiarsi di quello che legge, ascolta o apprende, trasformandolo in benzina per il suo agire sociale e la sua attività lavorativa.
Insomma non si tratta (solo) di leggere un manuale senza capirlo, ma di non avere gli strumenti adatti a formarsi un'idea propria e originale del mondo circostante e delle sue dinamiche.
In Italia il 28% della popolazione è composta di analfabeti funzionali.
A certificarlo un recente studio realizzato dal PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies), un programma ideato dall'OCSE, l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico.
La maggior parte dei nostri connazionali privi di adeguati strumenti di decodifica del mondo vivono in egual misura al Sud (30.3%) e al Nord, specificamente nel Nord Ovest (30.2%), mentre dal punto di vista dell'età la percentuale sale man mano che dalla fascia dei 16-24 anni ci si avvicina ai 50, con gli over 55 che ne rappresentano la massima percentuale (42.50%).
Ciò è dovuto ovviamente all'assenza della scolarità obbligatoria per chi è nato prima del 1953 ma anche alla maggiore presenza dell'analfabetismo di ritorno tra le fasce più adulte.
Analfabeti funzionali infatti si diventa, ad esempio non sollecitando per molto tempo le competenze acquisite in precedenza, come la lettura, l'informazione, la creatività e lo sviluppo di un pensiero critico generale.
Com'era prevedibile dunque tra le categorie più colpite ci sono pensionati e casalinghe, da sempre tra le categorie lavorative più fragili e a rischio, oppure giovani che non studiano né lavorano.
Ma come mai una percentuale così alta in un Paese industrialmente avanzato come il nostro?
Il fenomeno infatti deriva sempre da radici sociali ed economiche, ma soprattutto politiche.
L'analfabetismo funzionale insomma fa comodo.
Dall’analisi risulta evidente il ruolo primario dell’istruzione all’interno del processo di sviluppo e ampliamento delle capacità.
Il 75% dei low skilled, infatti, possiede un titolo di studio inferiore al diploma. Nonostante tale evidenza, è comunque allarmante notare che il 20,9% è in possesso di un diploma e il 4,1 % una laurea.
E’ questo, probabilmente, il dato più interessante su cui riflettere.
Lo studio del PIAAC, infatti, induce una riflessione su due fronti paralleli e complementari.
Da una parte è innegabile il ruolo fondamentale dell’istruzione nell’ acquisizione di high skill (abilità elevate): arrestare precocemente il percorso di studi coincide con un’alta probabilità possedere competenze di basso livello, insufficienti per rispondere con prontezza e professionalità alle sfide del mondo moderno.
Dall’altra, è necessario sottolineare l’inadeguatezza del sistema formativo italiano che, tuttora, restituisce alla società un numero non indifferente di laureati privi di quel raggio di capacità che dovrebbero naturalmente scaturire dal percorso di studi portato a compimento.
Alla formazione scolastica, dunque, è necessario associare ricerca, curiosità e stimoli che soltanto il nucleo famigliare può trasmettere quotidianamente.
Tanto l’assenza quanto l’inadeguatezza dell’istruzione si ripercuotono, di conseguenza, sulla carriera lavorativa.
Secondo i dati, infatti, poco più della metà dei low skilled risulta occupato, il 10% è disoccupato e il 39% non appartiene alle forze lavoro (tra questi, solo il 12,4% è in pensione, il 15 si dedica ad attività domestiche e il 5% è rappresentato da studenti).
Il quadro che emerge, dunque, non è certamente positivo, soprattutto in un momento storico in cui le raccomandazioni internazionali indicano il capitale umano come driver fondamentale nel percorso di crescita intelligente e sostenibile dei Paesi.
I dati dell’analisi PIAAC, infatti, suggeriscono una duplice riflessione legata, da una parte, alla creazione di nuovi percorsi di apprendimento capaci non soltanto di formare le nuove generazioni ma anche di includere, reinserire e “tenere dentro” le persone in evidenti svantaggi sociali e culturali.
Contemporaneamente risulta necessario sviluppare un sistema sinergico tra mondo dell’istruzione e realtà del lavoro per permettere il potenziamento e l’arricchimento costante di quelle competenze che, se non coltivate e alimentate, rischiano di restare ferme al grado iniziale, senza alcuna possibilità di evolvere e raggiungere un livello di sviluppo notevole e adeguato al cambiamento dei tempi…..
A differenza dell'analfabeta strutturale, l'analfabeta funzionale sa leggere, scrivere e far di conto, il problema è che non capisce quello che legge o meglio, non ha gli strumenti analitici e critici per avvantaggiarsi di quello che legge, ascolta o apprende, trasformandolo in benzina per il suo agire sociale e la sua attività lavorativa.
Insomma non si tratta (solo) di leggere un manuale senza capirlo, ma di non avere gli strumenti adatti a formarsi un'idea propria e originale del mondo circostante e delle sue dinamiche.
In Italia il 28% della popolazione è composta di analfabeti funzionali.
A certificarlo un recente studio realizzato dal PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies), un programma ideato dall'OCSE, l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico.
La maggior parte dei nostri connazionali privi di adeguati strumenti di decodifica del mondo vivono in egual misura al Sud (30.3%) e al Nord, specificamente nel Nord Ovest (30.2%), mentre dal punto di vista dell'età la percentuale sale man mano che dalla fascia dei 16-24 anni ci si avvicina ai 50, con gli over 55 che ne rappresentano la massima percentuale (42.50%).
Ciò è dovuto ovviamente all'assenza della scolarità obbligatoria per chi è nato prima del 1953 ma anche alla maggiore presenza dell'analfabetismo di ritorno tra le fasce più adulte.
Analfabeti funzionali infatti si diventa, ad esempio non sollecitando per molto tempo le competenze acquisite in precedenza, come la lettura, l'informazione, la creatività e lo sviluppo di un pensiero critico generale.
Com'era prevedibile dunque tra le categorie più colpite ci sono pensionati e casalinghe, da sempre tra le categorie lavorative più fragili e a rischio, oppure giovani che non studiano né lavorano.
Ma come mai una percentuale così alta in un Paese industrialmente avanzato come il nostro?
Il fenomeno infatti deriva sempre da radici sociali ed economiche, ma soprattutto politiche.
L'analfabetismo funzionale insomma fa comodo.
Dall’analisi risulta evidente il ruolo primario dell’istruzione all’interno del processo di sviluppo e ampliamento delle capacità.
Il 75% dei low skilled, infatti, possiede un titolo di studio inferiore al diploma. Nonostante tale evidenza, è comunque allarmante notare che il 20,9% è in possesso di un diploma e il 4,1 % una laurea.
E’ questo, probabilmente, il dato più interessante su cui riflettere.
Lo studio del PIAAC, infatti, induce una riflessione su due fronti paralleli e complementari.
Da una parte è innegabile il ruolo fondamentale dell’istruzione nell’ acquisizione di high skill (abilità elevate): arrestare precocemente il percorso di studi coincide con un’alta probabilità possedere competenze di basso livello, insufficienti per rispondere con prontezza e professionalità alle sfide del mondo moderno.
Dall’altra, è necessario sottolineare l’inadeguatezza del sistema formativo italiano che, tuttora, restituisce alla società un numero non indifferente di laureati privi di quel raggio di capacità che dovrebbero naturalmente scaturire dal percorso di studi portato a compimento.
Alla formazione scolastica, dunque, è necessario associare ricerca, curiosità e stimoli che soltanto il nucleo famigliare può trasmettere quotidianamente.
Tanto l’assenza quanto l’inadeguatezza dell’istruzione si ripercuotono, di conseguenza, sulla carriera lavorativa.
Secondo i dati, infatti, poco più della metà dei low skilled risulta occupato, il 10% è disoccupato e il 39% non appartiene alle forze lavoro (tra questi, solo il 12,4% è in pensione, il 15 si dedica ad attività domestiche e il 5% è rappresentato da studenti).
Il quadro che emerge, dunque, non è certamente positivo, soprattutto in un momento storico in cui le raccomandazioni internazionali indicano il capitale umano come driver fondamentale nel percorso di crescita intelligente e sostenibile dei Paesi.
I dati dell’analisi PIAAC, infatti, suggeriscono una duplice riflessione legata, da una parte, alla creazione di nuovi percorsi di apprendimento capaci non soltanto di formare le nuove generazioni ma anche di includere, reinserire e “tenere dentro” le persone in evidenti svantaggi sociali e culturali.
Contemporaneamente risulta necessario sviluppare un sistema sinergico tra mondo dell’istruzione e realtà del lavoro per permettere il potenziamento e l’arricchimento costante di quelle competenze che, se non coltivate e alimentate, rischiano di restare ferme al grado iniziale, senza alcuna possibilità di evolvere e raggiungere un livello di sviluppo notevole e adeguato al cambiamento dei tempi…..
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