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La Terra ha perduto un terzo del suolo coltivabile negli ultimi 40 anni



Gli esperti indicano il danno causato da erosione ed inquinamento, sollevando grandi preoccupazioni riguardo al suolo degradato nel bel mezzo dell’aumento della domanda globale di cibo.
Il mondo ha perso un terzo del suo terreno coltivabile a causa dell’erosione o dell’inquinamento negli ultimi 40 anni, con conseguenze potenzialmente disastrose man mano che la domanda globale di cibo sale alle stelle, hanno avvertito gli scienziati. 

Una nuova ricerca ha calcolato che quasi il 33% del terreno mondiale adatto o ad alta produzione di cibo è stato perduto ad un tasso che supera il ritmo dei processi naturali di sostituire il suolo assottigliato.

Il Grantham Centre for Sustainable Futures dell’Università di Sheffield, che ha intrapreso lo studio analizzando varie altre ricerche pubblicate nel corso dell’ultimo decennio, ha detto che la perdita è stata “catastrofica” e la tendenza è prossima ad essere irrecuperabile se non ci saranno grandi cambiamenti delle pratiche agricole.

La continua aratura dei campi, insieme all’uso pesante di fertilizzanti, ha degradato i suoli in tutto il mondo, ha scoperto la ricerca, con l’erosione che avviene ad un ritmo fino a 100 volte maggiore del tasso di formazione del suolo.

Ci vogliono circa 500 anni per creare soli 2,5 cm di suolo, se non ci sono cambiamenti ecologici ad ostacolarne la formazione.
“Pensate che il dust bowl degli anni ’30 dello scorso secolo in Nord America e vi rendete conto che stiamo andando verso quella situazione, se non facciamo qualcosa”, ha detto Duncan Cameron, professore di biologia di piante e suolo dell’Università di Sheffield.

“Stiamo aumentando il tasso di perdita e riducendo i suoli ai loro meri componenti minerali”, ha detto.
“Stiamo creando suoli che non sono adatti a niente eccetto a tenere in piedi una pianta.
I suoli stanno riempiendo di sabbia i sistemi fluviali – se guardate all’enorme macchia marrone nell’oceano dove il Rio delle Amazzoni deposita il suolo, vi rendete conto di quanto stiamo accelerando il processo”.
“Ancora non siamo proprio al punto di svolta, ma dobbiamo fare qualcosa. Ci dobbiamo opporre a questo, se vogliamo invertire il declino”.

L’erosione del suolo è avvenuta in gran parte a causa della perdita di struttura per via del continuo disturbo dovuto alla piantagione e raccolta delle colture.
Se il suolo viene rivoltato ripetutamente, viene esposto all’ossigeno e il suo carbonio viene rilasciato nell’atmosfera, impedendogli di legarsi in modo efficacie.
Questa perdita di integrità altera la capacità del suolo di immagazzinare acqua, il che neutralizza il suo ruolo di tampone contro le alluvioni e di base fruttuosa per le piante. I suoli degradati sono anche vulnerabili al dilavamento da parte degli eventi meteorologici alimentati dal riscaldamento globale. 
La deforestazione, che abbatte alberi che aiutano a tenere insieme i paesaggi, è a sua volta dannosa per la salute del suolo.

Il forte declino del suolo è avvenuto in un periodo in cui la domanda mondiale di cibo sta crescendo rapidamente.
Si stima che il mondo dovrà coltivare il 50% in più di cibo dal 2050 per alimentare una popolazione prevista di 9 miliardi di persone.
Secondo la FAO, organismo dell’ONU, l’aumento della produzione di cibo sarà in gran parte necessario nei paesi in via di sviluppo.
Gli accademici che stanno dietro allo studio dell’Università di Sheffield propongono diversi rimedi alla perdita di suolo, compreso il riciclo dei nutrienti dalle fogne, l’uso di biotecnologia per svezzare le piante dalla loro dipendenza dai fertilizzanti e la rotazione delle colture con aree di pascolo per diminuire la pressione sulla terra coltivabile.
Circa il 30% delle superfici mondiali libere da ghiaccio vengono usate per tenere pollame, bovini, suini ed altri animali da allevamento anziché per coltivare.
“Ci serve una soluzione radicale, che è quella di riprogettare il nostro sistema agricolo”, ha detto Cameron.
“ Dobbiamo lasciare la terra libera dalla produzione agricola per un lungo periodo per permettere al carbonio del suolo di ricostituirsi e di diventare stabile.
Abbiamo già molta terra – viene usata per il pascolo dalle industrie della carne e del latte.
Piuttosto di tenerla separata, dobbiamo metterla in rotazione, cosicché ci sia più terra nel sistema e ne venga usata di meno contemporaneamente”.
Cameron ha detto che ha accettato che questo coinvolgerebbe direttamente un intervento governativo, finanziando agricoltori e decisioni politiche “coraggiose”.
“Non possiamo dare la colpa agli agricoltori per questo.
Dobbiamo fornire la capitalizzazione per aiutarli, piuttosto di dire ‘Ecco una nuova politica, mettetela in pratica’”, ha detto.
“Abbiamo la tecnologia.
Ci serve solo la volontà politica per darci una possibilità di risolvere questo problema”

L’attuale agricoltura, basata sulla meccanizzazione, sui combustibili fossili, sulle modifiche genetiche e sulla fertilizzazione artificiale non solo sta causando l’erosione dei suoli, senza i quali nessuna agricoltura è possibile, non solo non è sostenibile a lungo termine, ma non è nemmeno riuscita a cancellare la fame a livello globale. 

Più crescono le rese, più cresce la popolazione.
Se poi questa popolazione è composta da ex contadini costretti ad abbandonare o vendere le loro terre e ad affollare le bidonville delle nuove megalopoli, allora non importa quanto cibo in più verrà prodotto: loro non potranno permettersi di comprarlo.

La proposta di Montgomery, invece, è questa: ridare la terra ai contadini, coltivarla in appezzamenti piccoli e medi, più efficienti di quelli grandi, e adottare tecniche di conservazione del suolo.

 Da “The Guardian”. Traduzione di MR



Dirt è un libro talmente importante, pur nella sua monotematicità, che è difficile persino decidere come cominciare a presentarlo. Forse l’introduzione migliore è data da una frase contenuta nel libro stesso:

“Tutto il resto – la cultura, l’arte, la scienza – dipende da un’adeguata produzione agricola. Invisibili durante i periodi di benessere, questi legami diventano evidenti quando l’agricoltura inizia a vacillare.”

Nessuna di tutte le altre cose di cui parliamo – la cultura, la scienza, la pace, la letteratura, gli affetti, la bellezza, la libertà – può esistere se non c’è da mangiare. 
Senza cibo non possiamo vivere, né migliorare come esseri umani, né coesistere. 
Sono molti gli elementi necessari affinché noi possiamo disporre di cibo, ma uno dei più importanti in assoluto, se non forse il più importante, è la terra. 
La sua presenza, cioè il mero fatto che esista e non sia scomparsa lasciando solo roccia nuda, e poi la sua qualità, la sua quantità, e quindi la sua capacità di sostenere la vita che ci sfama – tutto questo è semplicemente fondamentale, eppure ce ne dimentichiamo fin troppo facilmente, soprattutto nei periodi di vacche grasse.
Un’altra introduzione possibile può partire dal titolo inglese (in italiano, per ora, non c’è): Dirt. The Erosion of Civilizations. In inglese dirt significa terriccio, ma anche sporcizia, da cui dirty, sporco, e l’espressione “to treat like dirt” si usa per indicare l’atto di mortificare qualcuno, di trattarlo male, come se non valesse nulla. 
Proprio come la stragrande maggioranza delle civiltà umane ha sempre trattato il suolo.
Gli esempi forniti da David R. Montgomery, geomorfologo e autore del libro, sono innumerevoli: dall’antica Mesopotamia all’America colonizzata dagli europei, dalla Cina alle Alpi, non esiste grande area geografica o civiltà il cui suolo, prima o poi, non sia stato distrutto dalla deforestazione e dall’agricoltura – in alcuni casi, come in Islanda, in modo irreversibile.
Riassumerli tutti è impossibile, ma probabilmente l’esempio più pertinente, e forse addirittura più convincente, per i lettori di questo sito, è probabilmente quello dell‘Impero Romano.
Nel 1960, il geologo Sheldon Judson trovò vicino a Roma una cisterna costruita nel 150 d.C. le cui fondamenta, un tempo sottoterra, erano ora esposte di circa un metro. 
Questo significava che, dalla fondazione di Roma, il suolo circostante era sceso di oltre tre centimetri ogni secolo, cioè molto più velocemente di quanto si formava. 
La terra fertile che copriva i primi campi coltivati dai romani ora giaceva sepolta in fondo ai fiumi e ai laghi, o, depositandosi lentamente, aveva finito per togliere all’antica Ostia il suo porto.
L’agricoltura venne introdotta nella nostra penisola tra il 5000 e il 4000 a.C. Nei millenni successivi si estese gradualmente fino a occupare anche terre marginali e meno adatte alla coltivazione, cioè soprattutto quelle più ripide e quindi più soggette all’erosione se spogliate della loro copertura arborea. 
La diffusione degli attrezzi in ferrro, cominciata attorno al 500 a.C., facilitò la deforestazione. 
Nei primi anni di Roma il suolo era fertile, i poderi poco estesi, e l’abilità come contadino un grande vanto per un cittadino romano. 
Lo stile di coltivazione era quello della cultura promiscua, in cui i campi, lavorati intensivamente a mano e fertilizzati con il letame, consistevano di una stratificazione sullo stesso appezzamento di colture da fieno, olivi, uve, cereali e ortaggi. 
La combinazione di diverse profondità di radici e diverse altezze delle piante proteggeva il terreno dall’erosione e, aumentando la temperatura in loco, prolungava la stagione vegetativa.
L’avvento dell’aratro trainato dai buoi permise di risparmiare ore di lavoro umano ma richiese maggiori estensioni di terra coltivata a parità di rendimento. 
La deforestazione e l’aratura dei pendii scatenarono un’erosione tanto massiccia da intasare i fiumi e portare alla creazione di paludi dove prima erano valli coltivate, come l’Agro Pontino.
A seguito delle guerre puniche, la fuga dei contadini dalle campagne e l’aumentata disponibilità di schiavi permisero all’agricoltura romana un’ulteriore evoluzione: in questa nuova fase una classe emergente di grandi proprietari terrieri impiegava eserciti di schiavi nella coltivazione di grandi tenute monocolturali – principalmente viti e olivi. 
Il loro unico obiettivo era massimizzare il profitto, e quindi i raccolti. 
Un eccesso di arature, soprattutto sui terreni più pendenti, spingeva la terra a valle e la lasciava esposta all’erosione della pioggia e del vento. Lentamente, il suolo di Roma scivolava via.
Alcuni osservatori del tempo, come Plinio il Vecchio, accusavano i grandi possidenti, che anziché prendersi cura delle loro terre le abbandonavano al lavoro degli schiavi, di causare la rovina dell’impero.
Per parte loro i contadini presero ad abbandonare la terra ormai erosa e non più fertile, che quindi rendeva impossibile con le sue basse ripagare i loro debiti. 
Il fenomeno dell’abbandono delle campagne diventò così grave che furono passate leggi che legavano la terra a chi la coltivava, gettando forse le basi della servitù medievale.
Lucrezio, come altri autori contemporanei, lamentava il calo della fertilità di Madre Terra. 
Ai tempi della nascita di Cristo, la campagna romana era già così sterile che Tito Livio si chiedeva come avesse potuto sostenere un impero: ormai non era più nemmeno in grado di sfamare i cittadini di Roma, il cui numero peraltro continuava ad aumentare. 
Proprio come l’Italia di oggi, Roma finì per dipendere dal cibo importato.
In particolare, il grano per sfamare l’impero proveniva dal Nord Africa. 
Nel secondo secolo dopo Cristo Tertulliano, che viveva a Cartagine, scriveva: “…i campi coltivati hanno avuto la meglio sui boschi… Stiamo sovraffollando il mondo. 
Gli elementi faticano a sostenerci. 
I nostri desideri aumentano e le nostre richieste sono sempre di più, mentre la Natura non ci può reggere.”
Duemila anni dopo, le colonie romane del Nord Africa e del Medio Oriente mostrano ancora nei pendii nudi e nelle città abbandonate le tracce dell’erosione causata dall’Impero Romano e dai Fenici. Tunisia, Algeria, Israele, Siria, Libano… ovunque deforestazione, continue arature e un eccesso di pascolo avevano trasfomato terre fertili e coperte di foreste in deserti. Irreversibilmente. 
Dove non era rimasta terra, i famosi cedri del Libano non sarebbero mai più potuti ricrescere.
Montgomery non sostiene che l’erosione del suolo abbia causato, da sola, il crollo o meglio il lento declino dell’Impero Romano – sicuramente, però, vi contribuì. 
Soprattutto, stiamo ripetendo gli errori causati dai nostri antenati, e questa volta su scala globale. 
I progressi tecnologici hanno prodotto aumenti nelle rese, ma a un prezzo altissimo dal punto di vista ambientale, sociale, e del suolo, oggi più eroso che mai.
Si stima che ogni anno vengano perdute globalmente ventiquattro miliardi di tonnellate di suolo – più di tre tonnellate per essere umano. 
Le riserve globali di cereali sono calate negli ultimi anni: l’umanità intera dipende per la sopravvivenza dalla buona riuscita del prossimo raccolto.
Inoltre, l’attuale forma di agricoltura, basata sulla meccanizzazione, sui combustibili fossili, sulle modifiche genetiche e sulla fertilizzazione artificiale non solo sta causando l’erosione dei suoli, senza i quali nessuna agricoltura è possibile, non solo non è sostenibile a lungo termine, ma non è nemmeno riuscita a cancellare la fame a livello globale. 
Più crescono le rese, più cresce la popolazione.
Se poi questa popolazione è composta da ex contadini costretti ad abbandonare o vendere le loro terre e ad affollare le bidonville delle nuove megalopoli, allora non importa quanto cibo in più verrà prodotto: loro non potranno permettersi di comprarlo.
La proposta di Montgomery, invece, è questa: ridarre la terra ai contadini, coltivarla in appezzamenti piccoli e medi, più efficienti di quelli grandi, e adottare tecniche di conservazione del suolo.
Secondo Montgomery, non sono necessarie altre modificazioni genetiche e un’ulteriore meccanizzazione dell’agricoltura. 
Queste pratiche creano immense monoculture dipendenti dai combustibili fossili e da altre fonti non rinnovabili e sono difficilmente adattabili alle infinite diversità locali, e alla lunga rovinano il suolo.
Come si è visto in innumerevoli esempi storici, i grandi proprietari terrieri o gli affittuari hanno come unico obiettivo il profitto a breve termine. 
Questo, però, può valere anche su scala più piccola, se chi coltiva si pone soltanto il problema di guadagnare, e non di conservare. 
L’agricoltura non può essere trattata come un’industria qualsiasi. 
Dato che la terra è di tutti e che non è giusto lasciare un suolo depauperato in eredità alle generazioni future, sono indispensabili politiche che portino alla sua tutela sul lungo termine, scoraggiando pratiche agricole dannose e incoraggiando quelle conservatrici – come, dove possono essere applicati, i terrazzamenti, il no-till (senza aratura), la consociazione, i cover crops (coltivazioni di copertura del terreno, come il trifoglio), il recupero dei nutrienti presenti nel letame e persino nelle deiezioni umane (pare che nella provincia cinese dello Shaoxing, i contadini del secolo scorso non vendessero il surplus di riso ma se ne riempissero le pance per poi ‘restituirlo’ ai campi sotto forma di fertilizzante attraverso eleganti bagni pubblici).
Sarebbe poi il caso di smetterla di cementificare terreno agricolo, ma questo, dal libro appare chiaro, è solo l’ultimo dei problemi. 
Persino negli ambienti più avanzati dell’ambientalismo italiano l’agricoltura viene idealizzata al punto che non ci si rende conto che essa stessa, prima ancora delle villette, dei parcheggi e dei centri commerciali, è la principale responsabile della distruzione del nostro suolo.

Leggere Dirt in un paese alpino che sta ancora facendo i conti con lo spopolamento, l’avanzata del bosco, l’abbandono dell’agricoltura tradizionale, ha rappresentato per me una sfida mentale non indifferente. 
Da un lato, mi spingeva a lottare contro i pregiudizi universali secondo cui la massima espressione della montagna è il prato, il bosco un nemico, lo spopolamento una sciagura; contro le pratiche abituali, che portano a lasciare i campi nudi per lunghi periodi (fortunatamente, spesso, protetti dalla neve) e a coltivare sempre le stesse colture negli stessi appezzamenti. Dall’altro, mi aiutava a riconoscere il valore di alcune pratiche tradizionali solo parzialmente abbandonate: la fertilizzazione con il letame, la costruzione di muretti e terrazzamenti, la fienagione.
Alcuni, più anziani, mi hanno raccontato come funzionavano i bagni quando erano giovani. 
Sotto al bagno non c’erano le fognature, ma dei semplici raccoglitori. 
Quando erano pieni si svuotavano manualmente, aiutandosi con degli elmetti per la parte liquida. 
La parte solida andava a fertilizzare i campi. 
Spiazzando gli interlocutori, che volevano solo raccontare una storia estrema, io mi entusiasmavo: “è quello che voglio fare io!”. 
Voglio ricominciare a vedere l’agricoltura come parte di un grande ciclo naturale, anziché come un’industria. 
Un ciclo che passa anche per i nostri corpi e per la terra sotto ai nostri piedi.
Gaia Baracetti

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