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Luciano Gallino, “Il denaro, il debito e la doppia crisi. Spiegati ai nostri nipoti”.




Questo è l’ultimo libro pubblicato da Luciano Gallino; l’8 novembre 2015 il grande sociologo ci ha lasciati.
È il suo quarantacinquesimo libro e probabilmente uno dei suoi più amari. 
Una sorta di testamento che parte dal franco riconoscimento della sconfitta dei valori ai quali ha dedicato la vita da quando Adriano Olivetti lo incrociò (si dice ad una pompa di benzina).
I primi libri sono del 1960, dunque cinquantacinque anni fa, gli ultimi sono “L’impresa irresponsabile”, 2005; “Italia in frantumi”, 2007; “Tecnologia e democrazia”, 2007; “Il lavoro non è una merce”, 2007; “Con i soldi deglialtri”, 2009; “Finanzcapitalismo”, 2011; “La lotta di classe dopo la lotta di classe”, 2012 ; “Vite rinviate”, 2014 ; “Il colpo distato di banche e governi”, 2014.



La sconfitta nasce dalla dissoluzione del “soggetto” capace di mobilitare le forze di trasformazione della società e dalla conseguente scomparsa delle idee stesse di uguaglianza e dello spirito critico. Insieme alla scomparsa di queste idee ed atteggiamenti, per l’anziano studioso è in effetti “morta” la “cultura di sinistra” (p.8).
I passaggi sono stati semplici: prima negli anni ottanta i governi USA e inglese hanno smantellato i sindacati, contemporaneamente in Francia furono liberalizzati radicalmente da un presidente socialista i movimenti di capitale e quindi anche le attività speculative delle banche, ed in Germania un altro socialista “tradì lo spirito e la prassi della socialdemocrazia, assestando con le leggi ricomprese sotto la dizione Agenda 2010 un duro colpo ai salari, ai sussidi di disoccupazione, alle condizioni di lavoro nelle fabbriche, nonché a sanità e pensioni”.

In Italia non siamo stati a guardare, nel 1997 le leggi Treu e nel 2003 quelle Sacconi-Maroni, quindi Fornero nel 2012 ed infine Renzi, hanno continuamente accresciuto la precarietà “ed avviato nuovamente i lavoratori dipendenti verso condizioni prossime alla servitù”. Ciò mentre lo stato sociale era tagliato e istruzione, università, pensioni, sanità erano dichiarati “lussi” per chi “aveva vissuto sopra i suoi mezzi”.
Il capitalismo, è la valutazione di Gallino, ha reagito in questo modo all’incapacità crescente a vendere ciò che produceva.
Ma nel farlo, spingendo sulla finanza e sullo sfruttamento sempre più totale della natura, ha scavato costantemente sotto i suoi stessi piedi.
Ora è minacciato di una stagnazione senza fine (è citata la tesi di Summers).


Facendo leva sulla capacità delle banche private di creare dal nulla denaro attraverso l’atto di credito (Gallino cita il famoso report della Banca di Inghilterra in proposito), ormai queste ultime riescono anche a raddoppiarlo montandovi sopra strumenti derivati. 

Il risultato di questa piramide di debiti è che i titoli sono un multiplo sempre crescente del PIL (per non parlare degli investimenti reali che calano continuamente).
C’è un nesso preciso tra tutte queste cose, un vero sistema compatto.
Un sistema che incoraggia per sua stessa natura le speculazioni e nel quale “la creazione di denaro da parte di enti privati costituisce una sorta di sollecitazione forzata alla crescita senza fine, e senza scopo, dell’economia” (p. 56).
E c’è una conseguenza ultima, che lascia appunto senza potere tutti noi: il potere dei mercati e del denaro determina una crescente perdita di sovranità democratica.
Esplicitamente perseguita.
Una perdita di potere che passa per la “strategia del debito” (p.62), volta a rendere prigionieri senza fine gli stati, costringendoli a continui tagli dello stato sociale.

Uno stato di servitù dal quale non si può uscire.


Quindi, nella nostra vecchia Europa, interviene ad aggravare le cose la svolta liberista degli anni novanta incorporata nei Trattati UE.
La stessa Unione Europea, nata dal Trattato di Maastricht, è letta da Gallino come “progetto politico” che genera la crisi.
La strana idea che ha sovrainteso alla sua nascita è di costringere tutte le economie divergenti europee a convergere sul modello della Germania.
L’idea era che con una moneta unica e piena circolazione di merci e capitali alla fine tutte le economie sarebbero diventate simili (a quella più forte).

Una simile stupidaggine (p.79) come è ovvio non si è verificata. 

Le economie si sono, anzi, ulteriormente polarizzate e specializzate.
Mentre la Germania si è definita ulteriormente nei settori più competitivi le altre si sono rifugiate per sopravvivere nei settori dove non nasceva la concorrenza più forte (e dove la moneta poteva agire a fare da schermo).
In questo modello, fintamente omogenizzante ma in realtà polarizzante la disoccupazione, è il meccanismo previsto e desiderato per disciplinare.

E non a caso nessuna indicazione sulla “piena occupazione” trova spazio nei trattati e tanto meno nel mandato della BCE.
Sono tutte cose che conosciamo.
L’austerità è semplicemente un progetto politico.
Ed è una delle cause dell’appiattimento della sinistra socialista sull’oligarchia finanziaria e industriale che se ne giova.

Questa, l’austerità, ha prodotto il “dominio della Germania” (p.89) che mentre parla di “fare i compiti a casa”, segue strettamente e fedelmente gli interessi del sistema industriale e finanziario strettamente connessi del classico modello prussiano (p.91).
Di questo sistema fa parte la moderazione salariale (vedi le riforme Hartz, p.119).
Come fa parte l’accusa agli altri di aver accumulato debito pubblico (quando ormai persino VOX ammette che era questione di debito privato e di sbilanciamento del risparmio nordico) per eccesso di spese.
Dunque ne fa parte il ditkat di sottoporsi alla “disciplina dei mercati” e di rendere finalmente “la democrazia ‘conforme al mercato’” (Merkel).
Ciò mentre la stessa provvede a salvare le proprie banche con oltre 4.500 miliardi di euro (richiesta di approvazione alla Commissione, p. 105).

Fa parte, infine, di questo meccanismo anche la soppressione dello spirito critico nelle università e nelle scuole, costrette da meccanismi come i test PISA (dell’OCSE) ad uniformarsi su poveri criteri quantitativi (p.123).

E l’Italia? Per Gallino la nostra situazione è relativamente peggiore perché “abbiamo il personale politico più incapace”, che non sa discutere con i concorrenti a Bruxelles. Che si fa imporre dalla BCE arroganti lettere (5 agosto 2011, e 4 settembre 2011), o il governo di Mario Monti.

Certo, si dirà: c’è il debito pubblico che è stato costruito dalle spese selvagge dello stato negli anni passati.
Certo, si dirà: ci sono le pensioni non sostenibili per regalie fatte ancora negli anni passati.

Qui Gallino è all’altezza della sua fama di scrupoloso studioso dei fatti sociali, la prima obiezione è facile dimostrare (p. 144) derivi in realtà dall’impennata in pochi anni seguita al divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro, con conseguente “lite delle comari”.
Dal 60% sul PIL esso si impennò al 100% quando i tassi che il Tesoro era costretto a pagare, per remunerare gli investitori, cominciarono a salire mentre l’inflazione scendeva.
Una forbice capace di tagliare a fette la sostenibilità della finanza pubblica.
E porre le condizioni, come previsto, per imporre i tagli in grado di disciplinare lavoratori e loro organizzazioni.
E le pensioni? Queste sono in linea con tutti paesi migliori se solo si fa caso di togliere dal conto (come un “distratto” Eurostat non fa) le prestazioni sociali non pensionistiche che solo in Italia sono state imposte alla gestione dell’INPS (invece di metterle su altri veicoli).
Si spiega in questo modo (p.147) la doppia anomalia di avere apparentemente una spesa sociale molto bassa ed una spesa pensionistica molto alta.

Allora che si può fare? Gallino non crede che davanti a 25 milioni di disoccupati in Europa, di 125 milioni di persone a rischio di povertà, questo sistema sia sostenibile.
Ma crede anche che il disciplinamento del capitalismo durante gli anni trenta-sessanta, sia dovuto a “circostanze economiche e tecnologiche – quelle di solito riassunte in espressioni quali ‘fordismo’, ‘società industriale’, ‘società di massa’ – ma anche geopolitiche, quali la presenza dell’Urss – straordinarie ed irripetibili” (p. 159).
Per andare oltre bisognerebbe capire intanto che la crisi del capitalismo, resa tale dalla inaudita espansione del “capitale fittizio” e dalla instabilità radicale che ne deriva oltre che dalla colossale distruzione di forze attive, e la crisi ecologica, derivante dal sovrasfruttamento selvaggio che l’estensione costante delle forze estrattive impone (si può leggere anche su questo il recente libro di Saskia Sassen, “Espulsioni”) sono due facce di una stessa medaglia.
E farlo muovendo passo dopo passo, tracciando il sentiero camminando, nella direzione giusta.
Non in quella della produzione di massa e dell’espansione del consumismo, ma cambiando insieme il modo di lavorare e consumare, quindi il sistema finanziario, l’organizzazione del processo politico, la distribuzione all’origine delle risorse (nella loro stessa produzione), la struttura e la funzione delle organizzazioni intermedie… si deve trattare di un insieme di trasformazioni nel capitalismo in grado, accumulandosi, di attivare trasformazioni del capitalismo.

La prima cosa è togliere alle banche la possibilità di creare denaro dal nulla mediante il credito (p. 164). 

Si tratta di una proposta fatta per la prima volta nel 1933 a Chicago in un memorandum di Henry Simons, poi ripreso da Irvin Fisher.
Non se ne fece niente (“il Presidente ha paura dei banchieri”), ma pose le basi almeno per il Glass-Steagall Act.

Nelle condizioni di crisi le banche, infatti, come dimostrò Fisher nel suo “100% money”, distruggono denaro ritirando il credito e sottraggono alla società i mezzi di scambio.
Chiaramente ciò significherebbe restituire allo stato la facoltà di creare denaro (e questo significa fare i conti con la BCE), ed anche di promuovere gli investimenti in direzioni utili. 

Gli investimenti, (su questo Mazzucato) richiedono infatti la creazione di “capitale paziente” che il mercato non è capace di creare.
Si tratta di infrastrutture, capitale fisso e case, protezione della natura e dissesti, sicurezza, aggiornamento di ospedali, scuole, etc… ma anche ricerca e sviluppo nella transizione energetica, nella protezione dai rifiuti e nell’economia circolare.
Quindi si tratta di distribuire in modo più equo il reddito non dopo che è stato generato (attraverso l’esazione fiscale come vorrebbe Piketty), ma “nel momento e nei luoghi in cui viene prodotto”.

Ciò significa promuovere la “democrazia economica”, aumentando il potere degli stakeholders (lavoratori e consumatori) nelle società produttive e promuovendo il lavoro cooperativo. 

Vedremo che anche Reich insiste su questo punto nel suo libro più recente.
Poi, ovviamente, si deve ridurre la possibilità di utilizzare strumenti finanziari “di distruzione di massa” come i CDO, i CDS, etc…
Strumenti che sono stati proprio i partiti socialisti in Francia, in Germania, in Inghilterra ed in USA, tra gli anni ottanta e novanta, a liberalizzare in modo scriteriato.


Chi lo può fare? Qui Gallino non ha che aspettare il “nuovo soggetto” (p.192), formato dagli esclusi e dai marginalizzati (cioè dal 90%), dai lavoratori dipendenti, dai precari, dalla classe media che scivola sempre più indietro.

Cioè dalla classe media non internazionalizzata. Da quelli che non appartengono alle élite cosmopolite per le quali questo mondo è apprestato (quelli di cui parlava l’ultimo Dahrendorf nel 2001).
Questo soggetto dovrebbe prendere il potere, facendosi maggioranza, e ricondurre il capitalismo entro argini capaci quanto meno di “limitare la sua attività predatoria”, guardando alla meta lontana del suo superamento.

Il sociologo, con le sue ultime forze, ne vedeva le tracce nei movimenti del 2014 e 2015. Immaginava che cominciasse a “coaugularsi” una “forma organica di opposizione”.


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