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Elogio della bicicletta


Ingozzare la società di energia non significa condurla al benessere.

Il titolo del volume , opera del filosofo e antropologo Ivan Illich (...) deceduto nel 2002, non deve ingannare.
Più che di vera e propria elegia della bicicletta, si deve parlare, soprattutto per la prima parte del libro, di un'interessantissima valutazione del predominio sociale delle ricchezze energetiche e della disparità sociale che, la velocità e i mezzi di trasporto, generano tra le fasce sociali.
Da sottolineare, inoltre, come la prima versione del testo risalga addirittura al 1973, in piena crisi energetica; come sia attuale e, purtroppo, assai lungimirante.
Discorrere di crisi energetica non significa altro che proseguire nell'opera di asservimento dell'uomo alle macchine, agli "schiavi energetici", come li definisce l'autore.
Anche lo sviluppo ipotetico di una quantità enorme di energia pulita, non placherebbe la sete energetica che rende automi gli individui e li conduce verso un illusorio progresso.
Scrive Illich: "Una volta oltrepassato il quantum critico di energia pro capite, è ineluttabile che le garanzie giuridiche dell'iniziativa personale e concreta vengano soppiantate dall'educazione agli astratti obiettivi di una burocrazia.




Questo quantum segna il limite dell'ordine sociale".

Ingozzare la società di energia non significa condurla al benessere.
Molte volte, il lamentarsi di crisi energetica presuppone la legittimazione a nuove misure di prelievo fiscale, presentate come necessarie per la ricerca di ulteriori processi.
Tale "controricerca", è così battezzata dall'autore per il carattere "anti" rispetto all'umana causa.
La dipendenza assoluta dal trasporto, inteso come movimento per effetto di agenti ausiliari e non propri (come per il transito), fa divenire palesi, spiega Illich, "le contraddizioni tra la giustizia sociale e la potenza motorizzata, tra il movimento efficace e l'alta velocità, tra la libertà personale e l'itinerario preordinato".

Con notevole efficacia, Illich scrive, inoltre: "i cittadini diventano consumatori di trasporto nel giro dell'oca quotidiano che li riporta a casa".
L'illusione di guadagnar tempo, attraverso montagne di cavalli vapore, non maschera una reale e insoddisfatta penuria di tempo, diversamente gestita da società industrializzate e altre meno avanzate tecnologicamente.
A tal proposito vale la pena citare un'altra efficace precisazione dell'autore: "Ciò che distingue il traffico dei Paesi ricchi da quello dei Paesi poveri, per quanto riguarda i più, non è un maggior chilometraggio per ogni ora di vita, ma l'obbligo di consumare in forti dosi l'energia confezionata e disugualmente distribuita dall'industria del trasporto".
In questa ingiustizia sociale della mobilità e dell'accesso all'energia, occorre evidenziare quanto la geografia del territorio sia modificata dalle esigenze dell'industria del trasporto che, paradossalmente, isola con delle autostrade, i campi che un tempo il contadino raggiungeva a piedi; oppure, attraverso la disponibilità di un'ambulanza, spinge gli uomini a risiedere lontano da quegli ospedali ove un tempo si recava a piedi e celermente.
Allontana, in realtà, ciò che pretende di avvicinare attraverso infrastrutture e mezzi meccanici, di energia e potenza.
L'esigenza di guadagnar tempo, attraverso veicoli sempre più veloci e un'auspicabile ottimizzazione delle infrastrutture, conduce il singolo lontano dall'autentica valorizzazione del proprio corpo e delle relative capacità motorie, assimilandolo sempre più a un consumatore di tempo, energia e trasporto anziché libero cittadino.

Un cliente che vuole prodotti migliori e non la liberazione da tale consumo.

Il tempo stesso, oggetto della capitalizzazione esasperata, si definisce in termini di "mercato" quali: spendere, risparmiare, investire, sprecare, impiegare.
La disuguaglianza nell'accesso ai mezzi di trasporto conduce all'analoga disparità nella gestione del tempo, ottimizzando quello di una minoranza a danno di una maggioranza.


Il tema centrale del volume, indicato sulla falsariga di citazioni alla Proudhon, si esprime con tale sublime percezione da parte di Illich: "Oltre una velocità critica, nessuno può risparmiare tempo senza costringere altri a perderlo. 
Colui che pretende un posto su un veicolo più rapido sostiene di fatto che il proprio tempo vale più di quello del passeggero di un veicolo più lento.
Oltre una certa velocità, i passeggeri diventano consumatori del tempo altrui".
Il fatto che non ci siano lavori, studi e statistiche concernenti la contabilità del tempo sociale, soprattutto nell'epoca in cui è stato elaborato l'abbozzo di questo scritto, non impedisce all'autore di valutare, nella misura dei 25 chilometri orari, il limite oltre il quale si genera penuria di tempo e correlativa frustrazione umana; di uomini trasportati nell'illusione che la maggior velocità si traduca in un benessere, mentre molte delle loro ore lavorative sono necessarie per pagare il solo trasporto che, merce da vendere ai consumatori, come tutte le merci industriali è implicitamente scarsa.

Tra le varie invenzioni che hanno condizionato enormemente la storia, vanno citate quella antica della ruota e, nel Medioevo, della bardatura e ferratura del cavallo, ottenendo colture più ingenti, in tempi più rapidi e in luoghi inviolati più a Nord (spostando quindi il potere nelle mani dei paesi dell'Europa centro-settentrionale).
Recente è l'invenzione del cuscinetto a sfera, uno spartiacque tra la duplice utilizzazione, nell'industria automobilistica e in quella ciclistica, tra la velocità e il rispetto per l'uomo.
Discriminante sociopolitica moderna, la velocità delinea due direttrici fondamentali di sviluppo delle libertà umane.
Si sviluppa, nel testo, il dovuto elogio alla bicicletta e alle sue prerogative ambientali, di basso costo fisso e corrente, di limitato spazio e di enorme creatività, che non genera aspettative e frontiere irraggiungibili.
L'unica alternativa possibile è la riappropriazione dello spazio, in un contesto misurato del consumo energetico, a cavallo tra carenza e opulenza, ove, per dirla alla Illich, sia chiara "una soglia socialmente critica della quantità di energia incorporata in una merce".
Molto interessante anche la postfazione di Franco La Cecla che, tra ironia e paradosso, esaspera il rapporto maniacale e servile dell'uomo con il proprio mezzo automobilistico; una sorta di protesi in luogo dell'antico antropocentrismo sublimato dalla padronanza umana di veicoli a trazione animale.
Per questo, l'automobile svolge una mera (e inutile) funzione estetica, di certificazione del potere e del privilegio, quando non consente il risparmio di tempo che tanto si prefissava di realizzare.

Paradossalmente, per gestione oculata delle infrastrutture, individui di comunitè che possiedono un assetto veicolare limitato, riescono comunque a raggiungere i luoghi di cui abbisognano con altri mezzi e con tempi non lunghi.
Nei paesi superindustrializzati, tali pedoni sono costretti a vivacchiare nelle loro riserve, le isole pedonali.
La Cecla definisce, efficacemente, lèautomobile come un ossimoro.

Complice la miopia di amministratori, urbanisti e architetti, la poltrona semovente su cui l'uomo si insedia, e al contempo si sfoggia, tende ad aumentare quelle distanze che ha cercato di abbreviare.
La Cecla offre un altro interessantissimo concetto: "Non è un caso che le auto oggi assomiglino sempre di più ad auto di diplomatici o a veicoli da guerra. Presuppongono un paesaggio di paesi bombardati da attraversare con vetri fumè.
L'auto è oggi il disprezzo del mondo là fuori, il poterne chiaramente fare a meno".
Soltanto la bicicletta è in grado di colmare il deficit di democraticità veicolare che il mondo pretende.
Illich lo enuncia in maniera arguta e, attraverso l'elogio alla bicicletta, richiama l'attenzione su un fenomeno sconosciuto di disparità sociale, senza annoiare il lettore con ovvi, ipocriti, scontati e "verdi" richiami alla tutela ambientale.
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Un paese si può definire sottoattrezzato quando non è in grado
di dotare ogni cittadino d'una bicicletta o di fornire come supplemento
un cambio a cinque velocità a chi voglia trasportare gente pedalando.

è sottoattrezzato se non può offrire buone strade ciclabili
oppure un servizio pubblico gratuito di trasporto motorizzato
(ma alla velocità delle biciclette!)


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Trasferimento netto di vita

La velocità incontrollata è costosa, e sono sempre meno quelli che possono permettersela.
A ogni incremento della velocità di un veicolo cresce il costo della propulsione e della rete stradale e - cosa più drammatica di tutte - aumenta lo spazio che il veicolo divora col suo movimento.
Oltrepassata una certa soglia nel consumo di energia per i passeggeri più veloci, si crea una struttura di classe, su scala mondiale, di capitalisti di velocità.
Il valore di scambio del tempo diviene dominante, rispecchiandosi anche nella lingua: il tempo si spende, si risparmia, s'investe, si spreca, s'impiega.

Quando una società segna un prezzo sul tempo, tra l'equità e la velocità veicolare si stabilisce una correlazione inversa.

L'alta velocità capitalizza il tempo di poche persone a un tasso spropositato, ma paradossalmente lo fa deprezzando il tempo di tutti gli altri.
A Bombay solo pochissime persone posseggono un'auto; esse possono raggiungere in una mattinata la capitale d'una provincia e fare questo tragitto una volta la settimana.
Due generazioni addietro ci sarebbe voluta un'intera settimana per lo stesso viaggio, ch'era possibile solo una volta l'anno.
Adesso spendono una quantità maggiore di tempo per un maggior numero di spostamenti.
Ma quelle stesse poche persone, con le loro auto, scompigliano il flusso di traffico delle migliaia di biciclette e di taxi a pedali che circolano nel centro della città a una velocità effettiva tuttora superiore a quella possibile nel centro di Parigi, Londra o New York.
La spesa complessiva di tempo assorbita dal trasporto in una società cresce assai più in fretta del risparmio di tempo conseguito da un'esigua minoranza nelle sue veloci escursioni.
Il traffico aumenta all'infinito quando diventano disponibili mezzi di trasporto ad alta velocità.

Al di là d'una soglia critica, l'output del complesso industriale costituitosi per spostare la gente costa alla società più tempo di quello che fa risparmiare.

L'utilità marginale dell'aumento di velocità d'un piccolo numero di persone ha come prezzo la crescente disutilità marginale di questa accelerazione per la grande maggioranza.

Oltre una velocità critica, nessuno può risparmiare tempo senza costringere altri a perderlo.
Colui che pretende un posto su un veicolo più rapido sostiene di fatto che il proprio tempo vale più di quello del passeggero di un veicolo più lento.
Oltre una certa velocità, i passeggeri diventano consumatori del tempo altrui, e per mezzo dei veicoli più veloci si effettua un trasferimento netto di tempo di vita.
L'entità di tale trasferimento si misura in quanta di velocità.
Questa corsa al tempo depreda coloro che rimangono indietro e, poiché questi sono la maggioranza, pone problemi etici d'ordine più generale della lotteria che distribuisce dialisi renali o trapianti di organi.

Oltre una certa velocità i veicoli a motore creano distanze che soltanto loro possono ridurre.
Creano distanze per tutti, poi le riducono soltanto per pochi.
Una nuova strada aperta nel deserto brasiliano mette la città a portata di vista, ma non di mano, della maggioranza dei contadini poveri. La nuova superstrada ingrandisce Chicago, ma risucchia chi è ben carrozzato lontano dal centro, che degenera in ghetto.

Contrariamente a quanto spesso si afferma, la velocità dell'uomo è rimasta invariata dall'età di Ciro fino a quella del vapore.
Con qualunque mezzo venisse portato il messaggio, le notizie non potevano viaggiare a più di centosettanta chilometri al giorno.
Né i corrieri inca, né le galee veneziane, né i cavalieri persiani, né i servizi di diligenza istituiti sotto Luigi XIV superarono mai questa barriera.
I soldati, gli esploratori, i mercanti, i pellegrini percorrevano al massimo trenta chilometri al giorno.
Per dirla con Valéry, Napoleone era ancora costretto al passo lento di Cesare: Napoléon va à la méme lenteur que César.
L'imperatore sapeva che on mesure la prospérité publique aux comptes des diligences («la prosperità pubblica si misura dagli incassi delle diligenze»), ma poteva fare ben poco per sveltirle.
Per andare da Parigi a Tolosa ci volevano ai tempi dei romani circa duecento ore; nel 1740, prima che si aprissero le nuove strade regie, la diligenza ce ne metteva ancora 158.
Solo l'Ottocento accelerò l'uomo.
Nel 1839 la durata del viaggio era scesa a 110 ore, ma con un nuovo costo: in quello stesso anno si ribaltarono in Francia 4150 diligenze, causando la morte di più di mille persone.
Poi la ferrovia provocò un brusco mutamento.
Nel 1855 Napoleone III sosteneva di aver toccato i 96 chilometri orari viaggiando in treno da Parigi a Marsiglia.
Nel giro di una generazione la distanza media percorsa annualmente dai francesi aumentò di centotrenta volte, e la rete ferroviaria britannica raggiunse la sua massima espansione.
I treni per passeggeri toccarono il costo ottimale, calcolato in termini di tempo dedicato al loro impiego e alla loro manutenzione.

Con l'ulteriore accelerazione, il trasporto cominciò a dettar legge al traffico mentre la velocità erigeva una gerarchia di destinazioni.
A questo punto, ogni gruppo di destinazioni corrisponde a uno specifico livello di velocità e definisce una certa classe di passeggeri.
Ogni circuito di punti terminali degrada quelli che vengono raggiunti a una media oraria inferiore.
Coloro che devono spostarsi con forza propria si trovano riclassificati come emarginati e sottosviluppati.
Dimmi a che velocità vai e ti dirò chi sei.
Se puoi accaparrare per te le tasse che servono ad alimentare il Concorde, sei sicuramente al vertice.

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L'inefficacia dell'accelerazione

Non bisogna perdere di vista il fatto che le velocità di punta accessibili a pochi vengono pagate a un prezzo ben diverso da quello delle velocità elevate accessibili a tutti.
La classificazione sociale basata sui livelli di velocità impone un trasferimento netto di potere: i poveri lavorano e pagano per restare indietro.
Ma se le classi medie di una società velocistica possono anche far finta di non vedere questa discriminazione, non dovrebbero però ignorare le crescenti disutilità marginali del trasporto e la loro stessa perdita di tempo libero.
Le grandi velocità per tutti comportano che ognuno abbia sempre meno tempo per sé man mano che l'intera società dedica allo spostamento della gente una quota sempre più grossa della propria disponibilità di tempo.
I veicoli che corrono a una velocità superiore a quella critica non soltanto tendono a imporre ineguaglianza, ma inevitabilmente creano anche un'industria al servizio di se stessa, che nasconde un sistema di locomozione inefficiente sotto una maschera di raffinatezza tecnologica.
Io intendo dimostrare che porre un limite alla velocità non è solo necessario per salvaguardare l'equità: è altresì una condizione per accrescere la distanza globale percorsa entro una società diminuendo contemporaneamente il tempo complessivo che il trasporto richiede.

Pagina 57
Le biciclette non sono soltanto termodinamicamente efficienti, costano anche poco. 
Avendo un salario assai inferiore, il cinese per comprarsi una bicicletta che gli durerà a lungo spende una frazione delle ore di lavoro che un americano dedica all'acquisto di un'auto destinata a invecchiare rapidamente.
Il rapporto tra il costo dei servizi pubblici richiesti dal traffico ciclistico e il prezzo di un'infrastruttura adatta alle alte velocità, è proporzionalmente ancora minore della differenza di prezzo tra i veicoli usati nei due sistemi.
Nel sistema basato sulla bicicletta, occorrono strade apposite solo in certi punti di traffico denso, e le persone che vivono lontano dalle superfici in piano non sono per questo automaticamente isolate come lo sarebbero se dipendessero dagli automezzi o dai treni.

La bicicletta ha ampliato il raggio d'azione dell'uomo senza smistarlo su strade non percorribili a piedi. Dove egli non può inforcare la sua bici, può di solito spingerla.

Inoltre la bicicletta richiede poco spazio.
Se ne possono parcheggiare diciotto al posto di un'auto, se ne possono spostare trenta nello spazio divorato da un'unica vettura.
Per portare quarantamila persone al di là di un ponte in un'ora, ci vogliono tre corsie di una determinata larghezza se si usano treni automatizzati, quattro se ci si serve di autobus, dodici se si ricorre alle automobili, e solo due corsie se le quarantamila persone vanno da un capo all'altro pedalando in bicicletta.
Di tutti questi veicoli, soltanto la bicicletta permette realmente alla gente di andare da porta a porta senza camminare.
Il ciclista può raggiungere nuove destinazioni di propria scelta senza che il suo strumento crei nuovi posti a lui preclusi.

Le biciclette permettono di spostarsi più velocemente senza assorbire quantità significative di spazio, energia o tempo scarseggianti.
Si può impiegare meno tempo a chilometro e tuttavia percorrere più chilometri ogni anno.
Si possono godere i vantaggi delle conquiste tecnologiche senza porre indebite ipoteche sopra gli orari, l'energia e lo spazio altrui.
Si diventa padroni dei propri movimenti senza impedire quelli dei propri simili. Si tratta d'uno strumento che crea soltanto domande che è in grado di soddisfare.

Ogni incremento di velocità dei veicoli a motore determina nuove esigenze di spazio e di tempo: l'uso della bicicletta ha invece in sé i propri limiti. 

Essa permette alla gente di creare un nuovo rapporto tra il proprio spazio e il proprio tempo, tra il proprio territorio e le pulsazioni del proprio essere, senza distruggere l'equilibrio ereditario.
I vantaggi del traffico moderno autoalimentato sono evidenti, e tuttavia vengono ignorati.
Che il traffico migliore sia quello più veloce lo si afferma, ma non lo si è mai dimostrato.
Prima di chiedere alla gente di pagare, i fautori dell'accelerazione dovrebbero cercare di esibire le prove a sostegno di quanto pretendono.

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Un paese si può definire sottoattrezzato quando non è in grado di dotare ogni cittadino d'una bicicletta o di fornire come supplemento un cambio a cinque velocità a chi voglia trasportare gente pedalando. è sottoattrezzato se non può offrire buone strade ciclabili oppure un servizio pubblico gratuito di trasporto motorizzato (ma alla velocità delle biciclette!) per chi intende viaggiare per più di poche ore consecutive. 

Non esiste alcuna ragione tecnica, economica o ecologica perché in qualsiasi luogo si debba oggi tollerare una simile arretratezza.
Sarebbe scandaloso se la mobilità naturale di un popolo fosse costretta suo malgrado a stagnare a un livello pre-bicicletta.
Un paese si può considerare sovraindustrializzato quando la sua vita sociale è dominata dall'industria del trasporto, che determina i privilegi di classe, accentua la penuria di tempo e lega sempre più strettamente la popolazione ai binari ch'essa le traccia.

Al di là della sottoattrezzatura e della sovraindustrializzazione, c'è posto per il mondo dell'efficacia post-industriale, dove il modo di produzione industriale è complementare ad altre forme autonome di produzione.
C'è posto, in altre parole, per un mondo di maturità tecnologica.
Per quanto riguarda il traffico, è il mondo di coloro che hanno triplicato le dimensioni del loro orizzonte quotidiano salendo su una bicicletta. è anche il mondo caratterizzato da una varietà di motori ausiliari disponibili per i casi in cui la bicicletta non basta più e una spinta suppletiva non limita né l'equità né la libertà.
Ed è, ancora, il mondo dei lunghi viaggi: un mondo dove ogni luogo è accessibile a ogni persona, secondo il suo talento e la sua velocità, senza fretta e senza paura, per mezzo di veicoli che coprono le distanze senza far violenza alla terra che l'uomo ha calcato per centinaia di migliaia d'anni.

La sottoattrezzatura tiene la gente in uno stato di frustrazione per l'inefficienza del suo lavoro e incoraggia l'asservimento dell'uomo all'uomo. 


La sovraindustrializzazione asservisce le persone agli strumenti divenuti oggetto di culto, ingrassa di bit e di watt i gerarchi delle professioni e porta a tradurre l'ineguaglianza di potere in enormi divari di reddito.
Impone ai rapporti di produzione di ogni società i medesimi trasferimenti netti di potere, qualunque sia la fede professata dai dirigenti e qualunque danza della pioggia o rito penitenziale essi guidino.
La maturità tecnologica permette a una società di seguire una rotta libera da ambedue le forme di asservimento; attenzione però, quella rotta non è segnata sulle carte.
La maturità tecnologica permette una varietà di scelte politiche e di culture.
Tale varietà diminuisce, ovviamente, quando una comunità lascia che l'industria si sviluppi a scapito della produzione autonoma.
Il raziocinio da solo non offre una precisa unità di misura per stabilire il livello di efficacia post-industriale e di maturitè tecnologica confacente a questa o a quella società; può solo suggerire in termini dimensionali l'arco entro il quale queste caratteristiche tecnologiche devono essere comprese.
Bisogna lasciare alla comunità storica impegnata nei propri processi politici il compito di decidere quando la programmazione, l'alterazione dello spazio, la penuria di tempo e l'ineguaglianza non hanno più alcun senso.
Il ragionamento può cogliere nella velocità il fattore critico del traffico; combinato con la sperimentazione, può identificare l'ordine di grandezza entro il quale la velocità veicolare diventa un determinante sociopolitico. Ma non esiste genio, né esperto, né club elitario che possa fissare alla produzione industriale un limite che risulti politicamente attuabile. La necessità di questo limite come alternativa al disastro è il più forte argomento a favore della tecnologia radicale.

Fonte: tecalibri.info ... [tecalibri]
Autore: Ivan Illich
Titolo: Elogio della bicicletta
Edizione: Bollati Boringhieri, Torino, 2007 [2006], incipit 11, pag. 100, cop.fle., dim. 11x17, 6x1 cm, Isbn 88-339-1712-6
Originale: Energie, vitesse et justice sociale [1978]
Curatore: Franco La Cecla
Traduttore: Ettore Capriolo
Lettore: Luca Vita, 2007
Classe: politica, ecologia

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