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Recycle, o dell’economia circolare nel settore delle costruzioni che in Italia frena per legge


Legambiente: «Apparentemente il processo normativo sembra procedere. In realtà i problemi sono evidenti»


Durante il IV Ecoforum conclusosi a Roma, Legambiente ha presentato i dati aggiornati contenuti rapporto dell’osservatorio Recycle dedicato all’economia circolare nel settore delle costruzioni, dove purtroppo le buone novità rispetto alle precedenti edizioni non sono molte. Il futuro delle costruzioni passa per l’innovazione ambientale – si spiega nel rapporto – poiché attraverso la chiave dell’economia circolare diventa infatti oggi possibile guardare in modo nuovo al rilancio del settore (anche per farlo uscire da una crisi che va avanti da nove anni), riducendo l’impatto degli interventi e spingendo il riciclo di materiali.
Non sono buone intenzioni ma un processo già in corso, spinto dalla Direttiva 2008/98/CE, che prevede che al 2020 si raggiunga un obiettivo pari al 70% del riciclo dei rifiuti da costruzione e demolizione, e da leggi e decreti italiani. Eppure, se da una parte oggi non esistono più motivi – tecnici, prestazionali o economici – che possano essere utilizzati come scuse per non utilizzare materiali provenienti dal riciclo nelle costruzioni, dall’altra il vero freno a questo processo virtuoso sta proprio nelle confuse norme italiane che regolano i vari aspetti del settore.

La prima barriera riguarda i cantieri dei lavori pubblici e privati, dove i capitolati sono spesso un ostacolo insormontabile per gli aggregati riciclati; la seconda, l’assenza di riferimenti chiari e obblighi per l’utilizzo di materiali provenienti dal riciclo nei cantieri dei lavori pubblici; la terza, le difficoltà che i materiali provenienti dal riciclo trovano nella loro applicazione, nonostante studi e realtà di cantiere abbiano dimostrato ormai l’assoluta idoneità tecnica dei prodotti. Il problema è che le normative ostacolano questo tipo di recupero in Italia, invece che accompagnarlo.

Secondo l’Ispra in Italia vengono prodotte circa 48 milioni di tonnellate di rifiuti da costruzione e demolizione (dato 2013) che vengono smaltiti in discarica o presso impianti di riciclo, che rappresentano il 37,4% del totale dei rifiuti del settore industriale.

Al contempo, in Italia esistono oggi circa 2.500 cave da inerti (sono oltre 4.700 in tutto) e almeno 14.000 abbandonate , di cui oltre la metà sono ex cave di sabbia e ghiaia.
Cambiare questa situazione, aprendo un filone della green economy che in tutta Europa sta creando ricerca, innovazione e posti di lavoro, è nell’interesse innanzitutto del sistema delle imprese italiane: arrivando al 70% di riciclo di materiali di recupero si genererebbero in Italia oltre 23 milioni di tonnellate di materiali che permetterebbero di fermare la produzione di almeno 100 cave di sabbia e ghiaia per un anno, consentendo di risparmiare sui costi per materiali ed energia.

In Italia però il processo di adeguamento normativo sta andando avanti, ma troppo lentamente.
Come spiega Legambiente questi temi sono entrati sia nel cosiddetto Collegato ambientale (Legge 221/2015) che nel nuovo Codice degli appalti (Decreto Legislativo 50/2016), ma i fatti sono rimasti indietro: «Apparentemente il processo normativo sembra procedere. In realtà i problemi sono evidenti, ad esempio i CAM (Criteri ambientali minimi, ndr) riguardano solo gli appalti pubblici e comunque prevedono percentuali obbligatorie ridottissime di materiale riciclato per i singoli materiali (5% per i calcestruzzi, 5% per il gesso, 10% per i laterizi per murature e solai)».

Per non parlare dei problemi che riguardano pure la raccolta dei dati.
L’Ispra, ad esempio, certifica che l’Italia ha già superato la percentuale fissata dalla Ue, attestandosi al 75% del riciclo dei rifiuti da costruzione e demolizione: «Un dato che dovrebbe far ben sperare, ma che invece è parziale e inattendibile, poiché in molte Regioni non esiste alcun controllo o filiera organizzata del recupero e non si conteggia lo smaltimento illegale.

La percentuale di riciclo viene calcolata dall’Ispra attraverso le informazioni contenute nel Modello unico di dichiarazione ambientale (Mud)», ma basti dire che le imprese di costruzione sono esentate dalla sua compilazione, così come le imprese dell’agroindustria e «tutte le imprese che hanno meno di dieci dipendenti, di qualsiasi settore».
Ovvio quindi che la produzione dei rifiuti da C&D in Italia sia «un dato stimato».

Con quale risultato, all’atto pratico di tutto questo caos?
Da Legambiente portano un esempio: la Società Autostrade realizzerà nei prossimi anni opere per centinaia di chilometri tra nuove autostrade (Gronda di Genova), ampliamenti e terze e quarte corsie (Bologna, Firenze, A1, ecc.).
Per i soli ampliamenti, per una lunghezza di 141 km, solo considerando gli strati di fondazione e quelli bituminosi con l’utilizzo di materiali riciclati si risparmierebbero dal prelievo di cava circa 400.000 metri cubi di materiale, pari ad almeno la produzione annuale di 2 cave di medie-grandi dimensioni.
Eppure in nessuno di questi cantieri è «previsto di usare polverino di gomma negli asfalti o aggregati e materiali provenienti dal riciclo nei sottofondi, come invece è possibile e già sperimentato in strade e autostrade nel nostro Paese.
La conseguenza è che si devasterà il paesaggio per estrarre materiali da cava, si utilizzeranno materiali di origine fossile, e al contempo quei rifiuti che si potevano utilizzare al loro posto finiranno in discarica o inceneritore. Sarebbe davvero una grande occasione sprecata per il Paese».

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