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Diversamente uguali. Noi, gli altri, il Mondo:



È un libro, questo, al cui centro l’autore, Alessandro Bertirotti, ha posto e sviluppa il problema dell’io e dell’altro; due elementi raramente in equilibrio.
È certamente l’alterità sentita come opposizione che apre la porta alla xenofobia e al razzismo, oggetto oggigiorno di dure polemiche sulla sua caratteristica, sulla sua natura, sui suoi limiti. Il razzismo predilige l’io, disprezza l’altro.
E ha la sua base fondamentale nella paura del diverso.

Una civiltà antica ben nota – l’Egitto faraonico – fiorita a partire dal IV millennio a.C., aveva messo al centro della sua società il concetto dell’equilibrio «Maat»: equilibrio politico, sociale, morale, escludendo così il disordine causato dall’odio.

Può forse meravigliare chi dell’antichità conosca piuttosto il mondo greco e romano (nel quale era accettata la schiavitù individuale e un atteggiamento xenofobo nei riguardi dei «barbari») il fatto che per gli egiziani la differenza di colore della pelle, la diversità di costumi e di lingua dei popoli con i quali era a contatto, e le differenze antropologiche, etnografiche e anche ambientali e idrografiche dei popoli stranieri non creavano sentimenti xenofobi o razzisti, anzi, proprio le differenze erano considerate positive, nate e prodotte da una provvidenza benefica.

Gli stranieri Siriani, Libici, Nubiani, ai confini dell’Egitto, erano considerati eguali agli Egiziani nella creazione del demiurgo: «È Atum che ha creato gli uomini, che ha distinto la loro natura e li ha fatti vivere, che ha distinto l’uno dall’altro i colori della pelle» (Papiro Boulaq, 17).
E anche, rivolgendosi al dio: «Hai creato il mondo secondo il tuo desiderio…. I paesi stranieri, la Siria, la Nubia e la terra d’Egitto.
Li hai messi ciascuno al suo posto, provvisti di ciò che gli serve, ciascuno ha il suo cibo e il suo tempo di vita fissato.

Poiché tu hai differenziato i popoli stranieri, le loro lingue sono diverse per gli idiomi, diversi sono i caratteri e la pelle…» (Tomba di Ay a El Amarna).

La concezione universalistica e super razziale dell’Egitto del Nuovo Regno ha un’eloquente illustrazione nella tomba tebana del faraone Sethi I, dove sono raffigurati Asiatici, Nubiani, Libici ed Egiziani, ognuno vestito con il caratteristico costume nazionale, che avanzano sotto la sorveglianza del dio Horo, tutti allo stesso modo diretti verso lo stesso destino oltremondano promesso dalle credenze religiose.

L’Egitto antico multirazziale era anche aperto ad accogliere le molte divinità straniere con cui entrava in contatto: Baal, Reshef, Astarte, Anat… Magnifica tolleranza che non poteva tuttavia escludere sentimenti ostili nei casi di guerra; difficile pensare che gli egiziani provassero sentimenti fraterni verso gli Hiksos o verso gli Ittiti e più tardi verso i cosiddetti «popoli del Mare» che hanno nel XIII secolo, spinti via dalle loro terre d’origine, cercato altri spazi vitali e tentato l’invasione dell’Egitto, via terra e via mare; via terra su carri con donne e bambini e per mare su navi. Respinti da Merneptah e da Ramesse III si sono diffusi nel Mediterraneo (Turscia-Tirreni, Akhaia-Achei. Sciakalascia-Siculi).

Dall’epoca più antica, comunque, sono entrati in Egitto genti straniere, trovandovi varia collocazione, integrandosi e anche avanzando socialmente, spesso sposando donne egiziane. Un siriano di nome Aper-al, vissuto alla fine della XVIII dinastia, la cui tomba importante è stata scoperta a Saqqara, era addirittura diventato visir; subito si pensa a Giuseppe in Egitto della narrazione biblica.

Giovava evidentemente la fondamentale mancanza di pregiudizi razziali e invece una pratica di assimilazione degli stranieri (anche se nei testi sono convenzionalmente dichiarati sempre «vinti») che produsse una civiltà multirazziale; un grande numero di donne straniere entrarono a far parte della popolazione egiziana dal Nuovo Regno; anche gli harem dei faraoni accoglievano principesse straniere e sono ben noti i matrimoni diplomatici del Nuovo Regno.
Gli stranieri, che numerosi abitavano l’Egitto, godevano degli stessi diritti di libertà, possibilità di arricchire, di far carriera a corte o nell’esercito come gli egiziani; i beni degli stranieri – mercanti, molto spesso – residenti in Egitto erano sottoposti a norme di diritto internazionale (elaborate in seguito alla frequenza di rapporti tra Egitto e altre nazioni): i beni di stranieri morti in Egitto erano incamerati dallo stato egiziano, mentre almeno un’eccezione è attestata per Cipro, giacché si sa che i beni di un cipriota morto nella Valle del Nilo dovettero essere restituiti alla famiglia nel paese d’origine.
Oltre a queste regole di diritto internazionale privato, esisteva un diritto internazionale «diplomatico» (si pensi al trattato di pace tra Ramesse II e il sovrano ittita).
Quello che il concetto egiziano di «Maat» ricercava e imponeva era la pace, come aspirazione ribadita continuamente nei testi dell’Egitto faraonico; c’è il rispetto della vita e il riconoscimento di un altro dei diritti dell’uomo, quello della sicurezza nella libertà di circolazione, ottenuta nella pace e contro chi attenta a Maat entro i confini dell’Egitto: riporto qui le parole molto significative della stele di Merneptah, detta «di Israele» (primo quarto del XIII a.C.): «Davvero si vive dolcemente e felicemente, camminando liberamente sulla strada, perché non c’è paura nel cuore del popolo: le fortezze son lasciate a se stesse, i pozzi sono aperti di nuovo… i soldati stanno sdraiati a dormire e gli esploratori di frontiera stanno nei campi a loro piacimento; i mandriani non hanno niente da fare mentre il bestiame erra senza guardiani attraversando a piacimento l’ampiezza della corrente.
Non s’alza più un grido della notte: “Alt! Uno viene, uno viene parlando straniero”. Si va e si viene cantando e non c’è lamento di gente in lutto; le città sono come fondate di nuovo, e chi ha coltivato la messe, sarà quello che la mangerà».
Soltanto riguardo ai cibi stranieri siamo costretti a riconoscere presso gli egiziani un’intolleranza xenofoba; nel papiro demotico «Krall», i Nubiani sono chiamati con intento offensivo «mangia resina», un po’ come da noi diremmo – abbiamo detto – «mangia polenta» o «mangia spaghetti».
Ancora più esplicitamente la cucina nubiana è disprezzata dagli Egiziani: nel racconto delle magie di «Setne II» si racconta che per l’ospite nubiano furono preparate comode stanze e anche approntati cibi di suo gusto e abituali: «e gli furono approntati cattivi cibi (letteralmente:”schifezze”) secondo il gusto nubiano».
Che cosa fossero queste schifezze nubiane non è purtroppo detto.
Possano comunque le differenze gastronomiche essere le uniche cause d’intolleranza xenofoba tra le genti!

Edda Bresciani
Professore Emeritus di Egittologia Università di Pisa
Accademia dei Lincei

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