Nel nostro paese ci sono oltre 8000 comuni, ognuno tenuto a stendere il proprio piano regolatore. Ma il dato assume un rilievo diverso se facciamo mente locale al fatto che il 70% di questi comuni ha meno di 5000 abitanti e la metà di questi meno di 1500.
Si potrebbe obiettare che i piccoli comuni ospitano meno del 20% degli italiani ma, d’altra parte, la dimensione territoriale che coprono è più del 50% dell’intero territorio nazionale e un piano non si occupa solo di ciò che è costruito e che si deve costruire ma, in un paese tradizionalmente fragile e i cui valori paesistici e ambientali dovrebbero essere tenuti nella massima cura, dovrebbe occuparsi anche del “vuoto”, continuando a progettarlo e a immaginarvi nuove economie per renderlo sicuro, accessibile e abitabile.
Lo scenario è quello di un paese nel quale immense risorse
sono destinate alla pianificazione comunale, ma molto poco è destinato
al coordinamento, alla visione sinottica e al controllo dell’insieme che
questo immenso puzzle di oltre 8000 pezzi produce. È un tipico
paradosso della sussidiarietà che, in questo caso, rende evidente la
difficoltà di tenere assieme questo insieme di istanze singolari, che
produce un territorio nel quale ogni comune deve trovare spazio per
un’area industriale, un centro sportivo, un cimitero, una discarica, un
deposito dei mezzi comunali,consumando territorio, investendo risorse
che potrebbero essere meglio gestite realizzando una “massa critica” di
interessi e di risorse.Si potrebbe obiettare che i piccoli comuni ospitano meno del 20% degli italiani ma, d’altra parte, la dimensione territoriale che coprono è più del 50% dell’intero territorio nazionale e un piano non si occupa solo di ciò che è costruito e che si deve costruire ma, in un paese tradizionalmente fragile e i cui valori paesistici e ambientali dovrebbero essere tenuti nella massima cura, dovrebbe occuparsi anche del “vuoto”, continuando a progettarlo e a immaginarvi nuove economie per renderlo sicuro, accessibile e abitabile.
È inoltre da considerare che la pianificazione in
questi piccoli comuni va incontro a necessarie difficoltà dovute a un
frequente conflitto di interessi tra amministratori e scelte sul
territorio, alla scarsa capacità dei piccoli comuni di coinvolgere
professionisti e consulenti esperti e capaci di affrontare problemi
spesso rilevanti anche in presenza di comunità molto piccole, una scarsa
capacità che si è acuita in questi ultimi anni, con l’assegnazione
della stesura del piano a partire da gare al massimo ribasso, che
privilegiano spesso piani fotocopia, puri documenti amministrativi che
non hanno una reale capacità di affrontare questioni complesse e porre
agli amministratori opzioni alternative sul futuro della loro comunità e
dello spazio in cui questa abita e si muove.
In questo senso, la vicenda un po’ emotiva che porta alla richiesta della soppressione delle province andrebbe rivista alla luce di questi dati. È oggi indubbio che il territorio italiano sia anche sovraffollato di enti istituzionali, e che ognuno di questi abbia attribuzioni e competenze che spesso si accavallano.In quest’ottica sarebbe utile ripensare l’architettura istituzionale delle province con un ruolo ridotto e preciso orientato principalmente alla pianificazione del territorio e non, come oggi,con un ruolo blando e orientativo che da’ luogo a piani territoriali di coordinamento spesso talmente vaghi che non riescono a interferire con le mille istanze del puzzle.
Una provincia che abbia un ruolo rilevante nell’indirizzo di pianificazione comunale e nel progetto ambientale e territoriale sarebbe un supporto serio e necessario alla folla di amministratori locali che si trova spesso senza riferimenti per capire come governare il proprio territorio. Altrimenti, senza un ambito intermedio realmente efficace e capace di coordinamento e governo, come si possono gestire i piani di 67 comuni Imperiesi? Come farà questa folla di amministratori e tecnici a comunicare con la regione?
E questo livello intermedio sembra ancora più necessario anche alla luce dei ricorrenti e puntuali disastri ambientali che,anche in questi giorni, stanno colpendo il nostro paese. I problemi a valle derivano dall’incuria a monte, il territorio è uno solo e le sue dinamiche sono fortemente interconnesse. E queste dinamiche sono ovviamente indifferenti alla minuta divisione di competenze che comporta che, un qualsiasi sistema ambientale (una valle, una pianura, un’ambito montano) debba essere pianificato e governato da decine di comuni quando, almeno per alcune questione di scala territoriale, il progetto dovrebbe essere unico, condiviso e sovraordinato alle singole amministrazioni. Se non ci convinciamo che il territorio ha regole sue proprie e che è alla scala di queste dinamiche che bisogna intervenire con i piani, se continuiamo a tenere al centro del sistema della pianificazione il piano regolatore del singolo comune, ci troveremo - come facciamo da più di un secolo ormai - a gestire un’emergenza continua, di un territorio che si sfalda, di immense porzioni di Italia abbandonate che costituiscono una minaccia implicita per tutto il territorio. Mantenere al centro delle politiche di governo del territorio il piano comunale è anacronistico e insufficiente.
Una terza riflessione riguarda il profilo dei piani regolatori per il futuro delle nostre città. Nei prossimi anni non sarà tanto l’espansione a essere al centro del piano ma piuttosto l’adeguamento, la ricostruzione. Siamo all’inizio di una grande opera di “correzione” territoriale dopo decenni di sfrenata costruzione. Si tratterà di una stagione di piani per adeguare città e territori, per portarle a un diverso livello di capacità di rispondere a domande nuove e vecchie. Le nostre città sono faticose, spesso noiose, inconcludenti, rumorose, poco accoglienti. Quando hanno una valenza turistica, questa rischia di soffocare qualsiasi altra forma di vita e di economia.
Nell’ambito di questa opera di adeguamento dovrà per la prima volta essere affrontata una prospettiva radicale. Quella di demolire intere parti di città che, a breve, saranno svuotate di attività e abitanti. Gli italiani si stanno lentamente riposizionando sul territorio. Dopo un lungo periodo “centrifugo”,iniziato negli anni settanta, si tornerà a una dinamica centripeta.Cresceranno le città grandi e medie, è ormai quasi ovunque esaurita la dinamica della diffusione urbana. A breve nel paesaggio italiano constateremo la presenza di intere porzioni in dismissione: la costa ligure delle seconde case, i borghi abbandonati dell’appennino,i capannoni del veneto. Ma anche, sparsi un po’ ovunque, grandi contenitori commerciali vittime di nuove forme e comportamenti di acquisto. Non si tratta solo di un adeguamento tecnologico (che pure dovrà esserci) ma di un ridisegno civile. Bisogna assumere i processi di diradamento che stanno riguardando il territorio italiano declinandoli in positivo. E contemporaneamente immaginare forme di densificazione intorno ai nodi infrastrutturali, nelle grandi e medie città. È una occasione unica per ripensare la città italiana come una città contemporanea ai suoi abitanti e alle loro esigenze.
Alla fine dell’Ottocento, dovendo costruire la torre sulla facciata principale del Castello Sforzesco a Milano, gli architetti incaricati proposero di costruire la sagoma in legno a grandezza naturale e la lasciarono lì qualche tempo per saggiare la reazione della città. Durante la loro passeggiata domenicale i milanesi poterono vedere un pezzo del futuro della città in opera e giudicare. Discutere dell’architettura e della città ci concede l’opportunità di guardare al futuro prima che questo piombi,irrevocabile, tra noi.
I disastri ambientali devono farci ripensare il territorio
tratto da Italia Oggi
I dati dell'Upi certificano un saldo positivo di soli 16 mln. De Pascale: ridiscutere la legge
Riforma province, zero risparmi - Dalla Delrio 26 centesimi di minori costi a cittadino
Pagina a cura di Matteo Barbero
Solo 26 centesimi di risparmio per ogni
cittadino, pari allo 0,001% della spesa pubblica complessiva. È questo
il magro dividendo della riforma Delrio certificato dall'Unione province
italiane, che sull'altro piatto della bilancia pone il carico, assai
più pesante, dei drammatici tagli a scuole strade e del caos
istituzionale innescato dal fallimentare tentativo di revisione
dell'architettura istituzionale operato dalla legge n. 56/2014.
Stando ai dati dell'Upi (presentati ieri
durante l'incontro «Le province oggi e domani: semplificare il paese,
migliorare i servizi, presidiare il territorio») la legge Delrio ha
ridotto la spesa pubblica di circa 52 milioni, grazie alla cancellazione
dell'indennità degli organi politici. A fronte di ciò, però, si è
registrato un aumento secco di circa 36 milioni dei costi per gli oltre
12.000 dipendenti ex provinciali transitati nelle regioni e nei
ministeri (dove gli stipendi sono mediamente più elevati). Il saldo
positivo, quindi, si riduce a circa 16 milioni, che spalmati in termini
pro capite non sono sufficienti nemmeno per pagare un caffè.
Incalcolabili, sempre secondo Upi, sono
invece i costi che la collettività ha dovuto sostenere a causa del quasi
dimezzamento delle spese di manutenzione ordinaria (-43% dal 2013 al
2018) e del quasi azzeramento della capacità di investimento delle
province (-71% nello stesso periodo) sugli oltre 130 mila chilometri di
strade e sulle quasi 7.000 scuole secondarie superiori in gestite dagli
enti di area vasta.
Sulla coscienza di chi ha voluto la
riforma pesa anche il caos istituzionale che essa ha innescato,
determinato un'instabilità istituzionale senza precedenti dovuta al
sistema elettorale, che dal 2014 a oggi ha reso necessarie ben 11
tornate elettorali.
Ancora più nero il quadro nelle regioni a
Statuto speciale: in Friuli Venezia Giulia le 4 province hanno ceduto
il posto a 18 unioni territoriali intercomunali, le province della
Sardegna e della Sicilia sono commissariate dal 2013 e i servizi sono al
collasso.
«Chiediamo che si torni subito a
discutere di come ridisegnare il ruolo delle province, puntando su
queste istituzioni per semplificare l'amministrazione locale, promuovere
gli investimenti e assicurare servizi essenziali efficienti in tutto il
paese», ha dichiarato il presidente dell'Upi, Michele De Pascale.
Dall'analisi dell'Upi, in effetti, emerge come il legislatore, seguendo
la pancia di un'opinione pubblica spesso disinformata, abbia scelto il
bersaglio sbagliato: come emerge da un report curato da PwC dal titolo
«L'assetto territoriale delle province nei servizi a rete di rilevanza
economica», quello provinciale è lo snodo naturale della dimensione
sovracomunale delle utilities. Il 78% delle province italiane presentano
almeno 2 servizi a rete organizzati al proprio interno in ambiti
provinciali assimilabili, mentre nel 42% dei casi i servizi diventano
ben 3.
Conseguenza dell'elevato grado di
rispondenza tra perimetro territoriale delle province e bacini di
servizio (ambiti) è l'area di operatività e di svolgimento delle
funzioni di gestione (pianificazione, programmazione, affidamento e
monitoraggio del servizio a rete) degli enti di governo dove 297 su un
totale di 312 (ossia il 95%) agiscono su scala provinciale o
assimilabile.
Meglio sarebbe stato, dunque, puntare su
altri target, a partire dalla giungla di partecipate, dove (malgrado i
numerosi tentativi di disboscamento) continuano a sopravvivere
indisturbati quasi 8.000 soggetti. Questo settore, fra l'altro, sarebbe
assai promettente anche in termini di potenzialità di risparmio, se si
considera che un ad di una società pubblica con patrimonio pari alla
provincia di Brescia riceve fino a 240 mila euro lordi l'anno per il suo
incarico.

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